Ragione tecnologica e cortocircuiti sociali «Basta demonizzare la tecnica»
«Pensare con le macchine è l’imperativo del nuovo umanesimo». Parola di Stefano Moriggi, filosofo della scienza, tra i più brillanti della sua generazione. Classe 1972, ha insegnato nelle università di Milano, Brescia, Parma e alla European School of Molecular Medicine (Semm). Membro della International School for the Promotion of Science, attualmente svolge attività di ricerca presso l’Università degli Studi di Bergamo e l’Università di Milano Bicocca. Rigoroso come Hume, vero come una poesia di Whitman: il chiaroscuro impressionista della fotografa Marina Palpati coglie bene l’anima di Stefano Moriggi. Lui, però, l’anima dichiara di non averla mai avuta. Segni particolari: poliedrico. È consulente del Piccolo Teatro di Milano, regno di Luca Ronconi, manco a dirlo, il più illuminista tra i registi italiani. Per parafrasare, il titolo del suo libro (scritto a quattro mani, con il giornalista Gianluca Nicoletti, edito da Sironi) «la tecnologia ci ha reso e ci rende umani nei modi in cui ha consentito e consente connessioni e interazioni sempre più complesse». Strumenti e significati fanno parte della nostra natura e della nostra storia. La tecnologia, dunque, è una leva della nostra capacità di evolverci in ciò che possiamo diventare? Affascinante e terribile al tempo stesso. Nel Fedro platonico, attraverso il mito di Theuth, Socrate ammonisce – però – che conoscenza e sapienza non sono la stessa cosa.
Il pollice opponibile delle grandi scimmie sta alla scrittura, come l’informazione contenuta nelle cellule sta alla capacità dell’uomo di intervenire su se stesso e l’ambiente che lo circonda? Anatema per idealisti anti-riduzionisti!
Nell’era della Scienza 2.0, in cui “i nuovi alessandrini” hanno la capacità di distribuire conoscenza e confrontare just-in-time i risultati delle proprie ricerche, paradossalmente, sembra aumentare la divisione tra sapere scientifico e sapere umanistico. Stefano Moriggi spiega questa contrapposizione, in estrema sintesi, col trionfo dell’idealismo sul pragmatismo. «Questa opzione filosofica – specie nella sua versione italiana – ha sempre faticato a riconoscere la scienza e la tecnica, per non dire la tecnologia, come cultura. Per Benedetto Croce, per esempio, le teorie scientifiche erano paragonabili a ricette di cucina».
Data Manager: Perché la tecnologia ci rende umani?
Stefano Moriggi: L’evoluzione spiega, piuttosto bene, come siamo diventati quel che siamo anche grazie al contributo di strumenti e concetti con cui la nostra specie, di volta in volta, ha cercato di immaginare e di realizzare, tra prove ed errori, forme di vita e di convivenza possibili. Chi ancora, oggi, concettualizza le tecnologie come “corpi estranei” alla “natura umana” dimentica – o ignora – l’articolata relazione tra soggetto e strumento che, appunto, se riletta in chiave evolutiva, oltre che neurofisiologica, mostra che in realtà noi non agiamo e non pensiamo indipendentemente dagli strumenti o dalle macchine attraverso cui ci interfacciamo col mondo e con i nostri simili. Questo fatto non significa trascurare eventuali rischi, ma valutarli con maggior consapevolezza e coscienza critica.
Se l’evoluzione umana avesse come specifica leva di evoluzione proprio la tecnica – allora – la convergenza tra mondo organico e mondo sintetico, sarebbe solo una possibilità da accettare come “naturale”?
A mio parere sarebbe “salutare”, oltre che un buon esercizio filosofico, evitare in discorsi di questo tipo l’uso del termine “naturale”. L’ansia di distinguere naturale e artificiale non è quasi mai dovuta a una volontà tassonomica di marcare un confine sulla base di dati di fatto, ma nasconde piuttosto l’intenzione, più o meno cosciente o subdola, di confondere l’essere e il dover essere – ovvero le cose come sono e come si vorrebbe che andassero. Già Hume, secoli fa, ci metteva in guardia dal non sovrapporre i due piani. Eppure, tra apocalittici e integrati, si continua diabolicamente a perseverare in questa direzione, provocando pericolosi cortocircuiti sociali, oltre che filosofici. E questo accade sia quando si parla di “umanità” sia quando si parla di altri temi, dalla sessualità alla famiglia. Che cosa vorrà mai dire difendere la “natura dell’uomo” o la “famiglia secondo natura” piuttosto che stigmatizzare una “sessualità contro natura”? Semplice… significa non sapere di che cosa si parla, brandendo il termine natura come una clava ideologica.
Se l’umanità nella sua trasformazione avrà una possibilità di resistere, forse, sarà proprio nell’ambito di una dimensione artificiale e non naturale? Questa è una buona o una cattiva notizia?
Non credo che sia una notizia. Se proprio vogliamo insistere con la dicotomia naturale contro artificiale, la cosiddetta dimensione artificiale si è affermata ormai da tempo…Dopotutto, come ebbe a scrivere tempo fa Derrick de Kerckhove (il sociologo autore di “La pelle della Cultura e dell’Intelligenza Connessa”, ndr), prendendosela con il mito rousseauviano del “buon selvaggio”, è impensabile un’umanità essenzialmente estranea agli strumenti con cui ha imparato a stare al mondo. E lo aveva ben compreso Kubrick mostrando, all’inizio di “2001 Odissea nello spazio”, come basti impugnare una clava per alterare i rapporti “naturali” tra un gruppo di scimmioni. E comunque, resta aperta una questione: quando comincerebbe la presunta dimensione artificiale? Guardare il mondo attraverso la “correzione” degli occhiali è da reputare “naturale” o no? Assumere farmaci o impiantare protesi biomediche? E viaggiare nello spazio-tempo attraverso un libro? Personalmente, mi sembra un problema mal posto…
Anche quando si parla di immigrazione si fa riferimento al concetto di identità. Ma che cosa è “naturale” e che cosa definisce la nostra identità?
La nostra identità è definita dalle nostre scelte, dalla nostra storia, dalla nostra cultura. Ma quando si pretende di darle un “fondamento naturale” si imbocca la più pericolosa delle strade – quella che porta inesorabilmente alle ripugnanti dinamiche di inclusione e di esclusione che hanno un nome preciso: razzismo! La costruzione del diverso e quella del nemico hanno molti aspetti in comune e, specie di questi tempi, meriterebbero di essere meglio esplicitate partendo proprio da episodi di cronaca quotidiana. Oltre alla parola natura, anche la parola identità quando supera alcune soglie è un termometro attraverso cui controllare la febbre di intolleranza che affligge una società. La scienza potrebbe aiutare a smontare sulla base di dati certi pericolosi idoli identitari che, purtroppo, sono ancora in grado di raccogliere i peggiori istinti e le infondate paure di molti di noi. Ma non sempre si coglie – specie a livello istituzionale – l’educazione civica che può derivare da una buona formazione scientifica.
Per Platone, l’anima è simile a un libro su cui lo scrivano annota discorsi e il pittore dipinge immagini. Secondo Maurizio Ferraris, la tavoletta della Apple è una metafora dell’anima. Il suo iPad ha un’anima? E c’è «bisogno di un up-grade per far girare l’anima»?
Confesso, non ho ancora un iPad e non ho mai avuto un’anima. Due lacune non gravi. Dopotutto, non giudico vitali né l’uno né l’altra. Sono portato a pensare, infatti, che l’iPad, per quanto utile e divertente, sia una tecnologia di transizione e non una vera rivoluzione. Non ha introdotto pratiche o logiche effettivamente nuove rispetto a quelle garantite da altri dispositivi già presenti sul mercato. Quanto all’anima, è un termine scientificamente vuoto di senso, a meno che non si consideri il senso e l’importanza che ha avuto nel corso della storia delle idee, quelle scientifiche comprese. Come fa lo stesso Ferraris, applicandolo persino all’iPad. Aggiornando i termini, sarebbe più interessante chiedersi, per esempio, se le macchine possono avere una coscienza… E di colpo ci troveremmo nel cuore di uno dei dibattiti e delle sfide più affascinanti della scienza contemporanea, il cosiddetto “programma forte” dell’Intelligenza artificiale.
Qual è il futuro delle memorie digitali?
Difficile fare previsioni. Probabilmente le tecnologie già disponibili stanno modificando lo stesso concetto di memoria e dunque anche quello di apprendimento. Da un modello “enciclopedico” si slitta sempre di più verso un modello funzionale e operativo. Ma sono processi in corso, e più che azzardate previsioni sarebbero raccomandabili accurate analisi.