Il furto di dati perpetrato a Sony e a Honda deve far riflettere, sia per la gravità del fatto sia per il poco clamore suscitato
Se Sony piange, Honda non ride. A brevissima distanza dal catastrofico scippo di dati che ha visto sfortunato protagonista il colosso dell’elettronica, un’altra realtà di spicco del business con gli occhi a mandorla si vede costretta ad ammettere di aver subito un clamoroso furto di informazioni.
La circostanza – purtroppo l’ennesima – è sconcertante, ma quel che più sbigottisce è l’indifferenza collettiva e il silenzio della stampa dinanzi a fatti di così inaudita gravità.
Il commento più diffuso è il laconico “E che sarà mai?!?” con cui reagisce chi viene a conoscenza dell’accaduto. E proprio quell’espressione quasi infastidita è la rigorosa certificazione dell’incoscienza che ha endemicamente permeato la popolazione di ogni ceto e razza.
Ma d’altronde non ho comprato una Honda Acura e tantomeno l’ho fatto in Canada. E quindi perché mai dovrebbe preoccuparmi la sorte dei 283mila clienti che hanno scelto una vettura davvero distante dai miei gusti? Ho ben altri problemi io, costretto a occuparmi di un cerchio a raggi della mia Triumph TR3 del ’56 che mi sta facendo tribolare e domenica mi ha fatto rientrare ad andatura d’epoca dall’Argentario con il timore di qualche imprevisto. Questi sì che sono pensieri. Altro che la sicurezza informatica.
Mentre la mia spider è tornata indenne (l’unica tecnologia a bordo è il telecomando del garage) per sottoporsi alle cure del mitico Bruno Tibo, non ho proprio idea a quale santo dovranno votarsi i malcapitati nordamericani della casa automobilistica giapponese. La loro questione è certo più inquietante del mio minuscolo inconveniente meccanico e certamente non rassicurano le parole di Jerry Chenkin, executive vice-president nonché chief compliance officer della Honda Canada Incorporation. È stato proprio lui, a distanza di qualche giorno dalla macabra scoperta, a comunicare che nomi, indirizzi e numeri identificativi dei veicoli sono stati sgraffignati da qualche malintenzionato che è riuscito ad aprire una breccia nelle applicazioni Web con cui l’azienda si interfaccia con la propria clientela attraverso la Rete delle reti.
A leggere quel che dice Chenkin sembra una cosa da poco. Ma la realtà va ben oltre la fantasia di chi – con questa copia di Data Manager tra le mani – si sta sforzando di immaginare cosa possa veramente esser capitato.
Per aiutare i lettori interessati alla materia e appassionati a quest’ultimo “giallo”, va detto che la storia avrebbe avuto inizio nella seconda decade del febbraio scorso.
Storia vecchia, penserà subito qualcuno lasciandosi tentare dal voltar pagina e passare all’articolo successivo. Sì, storia vecchia, ma solo per il calendario visto e considerato che la vicenda affiora a cavallo tra maggio e giugno, senza mai emergere in maniera adeguata.
Ma il vero “scoop” è che ad accorgersi della funesta incursione sul sito del produttore e su quello dello specifico modello di auto non è stato un manipolo di pretoriani dell’audit aziendale oppure un team dedicato alla tutela della sicurezza industriale e commerciale della Honda. A rendersi conto che era successo qualcosa è stato un cliente.
In poche parole, l’acquirente di una Acura si è reso conto che qualcuno stava indebitamente adoperando i suoi dati personali. Temendo di finire nei pasticci per l’impiego fraudolento delle informazioni a lui riferite, il tizio ha cercato di risalire all’origine della fuga di notizie. Trasformatosi in improvvisato, ma acuto detective – esaminando la tipologia di informazioni e il relativo grado di aggiornamento dei dati utilizzati dal o dai malfattori – è riuscito a risalire a “quando” ha fornito “quali” informazioni e ha individuato dove i malandrini potevano aver rubacchiato certe notizie.
Morale della favola, se non si è capaci di proteggere i propri database o almeno di rincorrere chi assalta i sistemi informatici a disposizione, è il caso di selezionare la propria clientela solo tra soggetti con lo skill da 007…