Siamo davvero al limitare di una nuova fase della lunga storia dell’informatica per l’impresa?
Il brand simbolo di questa disciplina, IBM, ne è convinta e per quanti stravolgimenti si siano verificati nel settore, malgrado una oggettiva perdita di centralità rispetto ai tempi gloriosi del mainframe, dei sistemi midrange e infine dell’invenzione del personal computer, continua a essere molto difficile prescindere dalla vision targata Big Blue.
Le ultime campagne di brand lanciate da IBM hanno avuto successi alterni. La metafora dell’informatica on demand ha spianato la strada ai concetti del cloud computing e la forte affermazione dei provider di servizi IaaS, insieme al diffondersi di piattaforme come OpenStack nel mondo private cloud ha di fatto reso concreta l’immagine della potenza di calcolo assimilata a suo tempo alla corrente elettrica. Meno efficace si è rivelato lo slogan “smarter planet”, forse perché chiamava in causa una complicità tra fronti dell’offerta e della domanda che si è verificata solo in parte.
Più convincente, perché fondata anche su presupposti teorici piuttosto solidi e su una concreta realtà fattuale (la disponibilità di una marea di informazioni non strutturate ma già in formato digitale), la nuova idea di cognitive computing. L’informatica cognitiva è uno strumento che non si limita a ordinare, visualizzare o estrarre informazioni che da qualche parte, magari un po’ camuffate, esistono già. Il computer cognitivo impara dall’esperienza, mette insieme dati apparentemente scollegati tra loro e dà una risposta a quesiti inediti. Un po’ come facciamo noi con il nostro cervello.
Conversando con Mike Rhodin in occasione dell’incontro che IBM ha organizzato a Milano con gli universitari di Europa, Mediterraneo e Africa, il capo del Watson Group raccontava per esempio che il sistema cognitivo messo a punto per rispondere alla nuova “big challenge” computazionale di Armonk è stato utilizzato anche in cucina. Un grande chef ha interrogato Watson a proposito di nuovi possibili abbinamenti di sapori e sono saltate fuori ricette anche strampalate, ma decisamente interessanti e valide. Ibm sta investendo molto nel tentativo di trasformare l’informatica cognitiva in una straordinaria arma competitiva per i suoi clienti, un’arma che consenta di trasformare in valore di business un fenomeno, big data, che ha anche molti risvolti inquietanti (l’information overload può anche essere un’arma a doppio taglio). Le manovre di Ibm in questa nuova direzione sono anche il tentativo di dare continuità a una grande presenza sul mercato globale, certo. Ma al di là degli specifici meriti del progetto Watson e dell’attuale strategia di trasformare il computer vincitore di un quiz televisivo in un ambiente vincente di prodotti e servizi – tutti i big dell’informatica e i rispettivi ecosistemi sono fortemente impegnati a indirizzare la realtà enterprise. Questa realtà ha di fatto sancito l’inizio di un periodo nuovo, dominato dal moltiplicarsi dei dispositivi, dalla mobilità e dalla condivisione. Inoltre, la costante produzione di dati potrebbe davvero servire per inventarsi nuove cose, gestire meglio quelle vecchie, automatizzare e ottimizzare le situazioni dove ancora l’uomo deve fare troppa fatica o rischiare la propria incolumità.
Forse, è solo la riedizione dei primi, ingenui sogni dell’informatica anni Cinquanta. Ma la sensazione è che questi sei decenni non siano trascorsi invano e che le tecnologie del computer cognitivo non siano mai state tanto concrete. L’obiettivo è difficile ma possibile. Resta il rammarico dell’unica cosa da cui l’intelligenza artificiale non potrà liberarci: la stupidità naturale. Ma questo è un altro discorso.