È fortissima la paura che Facebook e cose simili siano fonte di guai o possano offrirne lo spunto
Qualche giorno fa un mio brillante superiore, incontrandomi casualmente all’ingresso della palazzina degli uffici, mi ha chiesto se potevo dedicargli qualche minuto. Il suo stato d’animo caratterizzato da una certa apprensione ha superato la fretta delle mie urgenze quotidiane: anche se dovevo correre a fare le mille cose che costellano il mio train de vie operativo, ho deciso di dedicargli qualche minuto.
«Come si può togliere Facebook a un ragazzo?» è stata la domanda con cui il mio interlocutore mi ha fulminato. Da vecchio giocatore di baseball ho battuto la palla con forza senza esitazione: «Suo figlio?». Gli occhi sbarrati al pari di uno spettatore che assiste a un prodigioso fuoricampo, chi avevo dinanzi si è lasciato scappare un flebile «sì».
Il medesimo quesito mi era stato formulato da tante altre persone, il più delle volte in contesti industriali e commerciali: terrorizzati dai moderni sistemi di aggregazione sociale e di comunicazione digitale, molti manager mi hanno interpellato per conoscere la via più rapida per scongiurare qualche brutta sorpresa innescata da comportamenti “leggeri” o condotte dolose in ambito virtuale da parte di qualche dipendente insospettabile o già sospettato.
In tutti i casi, è fortissima la paura che Facebook e cose simili siano fonte di guai o possano offrirne lo spunto.
Il libero utilizzo in ufficio del personal computer e della connessione in Rete da parte del lavoratore è da tempo al centro di tante preoccupazioni.
È fin troppo ovvio che la soluzione non è certo data dalla “castrazione elettronica” delle organizzazioni e dei relativi spazi. Troncare le opportunità è quanto meno anacronistico. Rinviare il problema è invece pericoloso e soprattutto inutile.
Navigazione sul Web, posta elettronica, messaggistica istantanea e social media sono parte integrante del ciclo biologico di qualunque realtà e ogni eventuale amputazione non manifesta l’efficacia ambita. Il rimedio passa attraverso un radicale intervento culturale e organizzativo, e certamente non sulle lame affilate di qualsivoglia cesoia. L’impiego degli strumenti deve essere disciplinato dopo aver soppesato i ritorni positivi e l’immancabile rovescio della medaglia. Occorre apertura mentale verso l’innovazione non solo tecnologica, ma anche nei confronti di quella comportamentale: non si può assistere inerti e increduli dinanzi alle dinamiche evolutive che connotano il trascorrere dei nostri giorni. La sicurezza comincia proprio con la consapevolezza dei rischi cui si va incontro, ma soprattutto con l’effettiva cognizione dei vantaggi che un oculato sfruttamento delle novità può comportare.
Il generale con cui ho cominciato il pezzo – non vedendomi adeguatamente reattivo alle sue richieste – mi ha spiegato di aver comunque trovato rimedio alla presunta eccessiva esuberanza del figliolo. «A casa non ho il collegamento a Internet con il filo, ma quella centralina che sparge le onde per casa. Allora io vado lì vicino e muovo l’antenna così disturbo il segnale…» è stata la confessione che il suo segreto consisteva sostanzialmente in un “intervento hardware con periodicità randomica”.
Non me la sento di consigliare al management pubblico e privato di dar luogo ad analoghi sistemi empirici, ma mi permetto di suggerire di non tardare ancora nel considerare la questione.
La prima mossa deve essere un’opera di sensibilizzazione che spiega i pericoli e che riconosce l’assurdità di una censura. L’utente deve essere portato a capire che un post maldestro o inopportuno può compromettere la sorte sua e dell’organizzazione di appartenenza. Basterebbe illustrare quel che avviene dietro le quinte della bacheca virtuale di ciascuno di noi, perché la Business Intelligence ha trovato nei social network la manna. Non c’è più bisogno di cercare informazioni su un determinato obiettivo: qualche pedina del target è sempre pronta a raccontare, scrivere, pubblicare qualunque cosa che per i malintenzionati non è affatto “qualunque”.