il genio italiano made in usa
Il futuro di un Paese ha tre asset fondamentali: manodopera, materie prime e tecnologia. In un mondo globalizzato assimilabile a un sistema di vasi comunicanti – in cui la produzione si delocalizza dove i costi sono minori, i capitali viaggiano su indici telematici alla ricerca del massimo rendimento e i cervelli si spostano dove la ricerca è finanziata con più fondi – quale ruolo potrà giocare l’Italia?
L’industria italiana ha seguito un modello, per così dire, di “massima innovazione con minimo di investimento”. Nessun Paese avanzato è riuscito a generare gli stessi volumi di innovazione senza spendere in modo costante in ricerca e sviluppo. Ma questo non può essere un vanto. Le nostre migliori energie, imprenditori, manager e ricercatori, fanno crescere il Pil del mondo, più di quello nazionale. Non a caso, il presidente Barack Obama, in una cerimonia alla Casa Bianca ha conferito all’italiano Federico Faggin (al centro, in una foto del 1968) la Medaglia Nazionale per la Tecnologia e l’Innovazione, il più alto riconoscimento del governo americano agli scienziati. Nato a Vicenza, il primo dicembre 1941, a 19 anni, lo studente Faggin aveva già messo insieme il suo primo computer nel laboratorio di R&S Olivetti di Milano. Ma è nella Silicon Valley, alle dipendenze di Intel, che Faggin concepì il primo microprocessore della storia con i colleghi Hoff e Mazer. Faggin è stato anche il precursore della videoconferenza e della posta elettronica di massa, invenzioni nate forse troppo presto, in un momento in cui potevano utilizzarle solo laboratori scientifici e militari. Oggi, si occupa di reti neurali e del miglioramento dell’interfaccia uomo-macchina, la prossima rivoluzione tecnologica. A 70 anni, il “ragazzo di Olivetti”, forse avrebbe meritato il Nobel.