Al mio segnale scatenate l’inferno

Centurioni e gladiatori non hanno più bisogno di sguainare la daga. Il click di un mouse può rimbombare più inquietante di qualsivoglia altro rumore

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Alla fine del 1996 con Roberto Di Nunzio mi capitò di scrivere un libro dal titolo strano. Si chiamava “Cyberwar, la guerra dell’informazione”. Lo pubblicò Buffetti, editore cui ero legato da precedenti esperienze di manualistica professionale nel settore legale e fiscale.

Non mancarono i commenti, molti dei quali salaci e irriguardosi. La stravaganza, si sa, è spesso indigesta. E lo è ancor più quando non è affatto stravaganza, ma spontanea espressione di conoscenze maturate e di irrefrenabile intuito.

Nel 1996 la popolazione della Rete delle Reti non conosceva gli odierni problemi di esponenziale crescita demografica, non poteva immaginare che online ci si potesse stare stretti e non avrebbe mai creduto che il Web avrebbe modificato gli equilibri planetari.

Se l’argomento era inconsueto, ancor più bizzarra l’accoppiata dei due amici chiamati a redigere i testi di prefazione. Il primo era un soldato, un eccellente soldato. Era il generale Alberto Ficuciello, come me ex allievo della “Nunziatella” e all’epoca comandante della Scuola di Guerra. Il secondo, invece, era in embrione un combattente mediatico che al tempo credeva ancora poco a Internet e alle sue sbalorditive potenzialità. Scrisse quelle tre pagine forse solo per farmi un favore, magari in uno stato di affettuosa ipnosi in cui assecondava discorsi e teorie che gli propinavo per convertirlo a un uso strutturato delle tecnologie.

Sedici anni dopo – proprio muovendo da Internet – il secondo è arrivato a creare un movimento politico balzato a incredibili percentuali di consenso pubblico. Nel 1996 anche lui, Beppe Grillo, ci credeva poco. Ma era incuriosito e disponibile ad affrontare il cambiamento.

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Reti e computer hanno nel frattempo cambiato non solo l’informazione, ma hanno radicalmente modificato il ciclo biologico del singolo e della collettività. I social network hanno preso il posto di trincee e campi di battaglia: comunicazioni fulminee e diffusione erga omnes di notizie e contenuti sono le mosse in grado di sbaragliare qualunque avversario ancorato ad assetti convenzionali. La vulnerabilità dei sistemi di elaborazione e di trasmissione dei dati ha corretto la rotta degli investimenti bellici: meno carri armati e bombardieri, più strumenti software.

I capovolgimenti politici che hanno ridisegnato il Nord Africa sono la testimonianza dell’efficacia degli ordigni “cyber”, della equiparabilità di un “tweet” al più letale dei dardi, della possibilità di aggregare e muovere masse e opinioni con semplici pagine ipertestuali su Facebook…

La paura che un virus informatico possa trafiggere il cuore delle infrastrutture critiche chiude il cerchio. Proviamo a pensare a Stuxnet, il malware capace di mandare in tilt i “cervelli elettronici” che gestiscono le centrali nucleari. Da qualche giorno si conosce il nome di chi ne ha pianificato la realizzazione. Non siamo dinanzi a un hacker, magari affrescato con pittorici tatuaggi o imbullonato da dolorosissimi piercing. Siamo al cospetto di James E. Cartwright, il signor generale Cartwright, capo delle Cyber Operations all’interno dello United States Strategic Command.

Adesso che è scattato l’allarme “Flame”, quello del virus in grado di rubare i segreti di chiunque e di autodistruggersi dopo essersi radicato nei computer colpiti, ci si accorge che la situazione è seria.

Ora che l’ondivago andamento dello spread e le drammatiche fluttuazioni delle Borse esasperano l’economia di Paesi importanti, ci si rende conto che basta una notizia o un comunicato stampa per affondare un nemico ritenuto invincibile.

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L’ennesima guerra mondiale è in corso, senza il fragore di bombe e mitraglie. Un conflitto cui è impossibile sfuggire, che trova tutti impreparati, che fa svegliare al fronte anche chi sperava di esser “riformato” per ridotta attitudine hi-tech.

E’ la guerra dell’informazione. Quella cui nessuno voleva credere.