La sera del 19 marzo di dodici anni fa, l’Italia ebbe un sussulto. Il giuslavorista Marco Biagi, mentre percorreva in bici dalla stazione di Bologna la strada verso casa, veniva freddato con sei proiettili davanti al portone. La rivendicazione dell’omicidio portava la firma delle Nuove Brigate Rosse. Ancora – oggi – non è chiaro se il vero scopo fosse bloccare il Paese nel cuneo della contrapposizione tra capitale e lavoro oppure impedire il processo di svalutazione del lavoro. Quello che possiamo dire è che nonostante la morte di Marco Biagi, il mercato del lavoro in Italia resta bloccato ed è fonte di profonda divisione nel Paese. Le idee di Marco Biagi sono ancora attuali, soprattutto alla luce della situazione economica e occupazionale con la quale dobbiamo confrontarci. I dati Istat 2013 mettono nero su bianco le cifre della crisi del lavoro. Il problema non è solo il costo del lavoro, il gap più grave è quello delle competenze e della competitività. Certo, occorre ridurre le tasse sul lavoro e sull’impresa – però – la verità è che il nostro sistema industriale e dei servizi non è più competitivo, nonostante il costo del lavoro sia minore di quasi tutti i nostri competitor europei. L’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa dopo la Germania. «A partire dagli anni 70 – ricorda l’economista d’impresa, Marco Vitale – i leader dei sindacati italiani gridavano allo scandalo di fronte alle politiche di concertazione e dichiaravano che l’Italia non sarebbe mai diventata come la Germania».
Ma in Italia, la lotta di classe – con la messa in scena dei cortei nelle piazze e le intese differite nelle stanze del potere – quali vantaggi reali ha portato ai lavoratori?
«Oggi, in Germania – fa notare Vitale – i lavoratori dei land più produttivi sono più tutelati, guadagnano di più e contano nella conduzione delle imprese, mentre i nostri per far sentire la loro voce devono arrampicarsi in cima alle gru. Biagi ha cercato di affrontare questa realtà e di farci fare un passo avanti nella cultura del lavoro in una direzione più moderna e responsabile. L’Italia – però – è l’unico paese in cui i giuslavoristi si uccidono se dicono qualcosa di sensato. Per far ripartire il lavoro in Italia, ci vogliono regole nuove, ma prima di tutto, ci vuole una politica economica degna di questo nome. Dobbiamo pensare a creare posti di lavoro attraverso la negoziazione di secondo e terzo livello per dare quella flessibilità necessaria a rispondere alla pressione competitiva. Ci vogliono azioni di sistema, strutturali e legislative insieme. Non è la regola singola che può risolvere un problema così complesso».
Il lavoro agile e mobile è già una realtà. L’innovazione tecnologica sta rimodellando i settori economici e i confini di azione, innescando quel cambiamento strutturale che la politica non è stata capace di guidare.
E questa trasfrormazione non sarà indolore e neppure facile. Avrà un impatto non solo sul modo di produrre, ma anche sul modo di organizzare il lavoro all’interno delle aziende e sui livelli di occupazione. Ridistribuire la ricchezza, il lavoro, il sapere, il potere, le opportunità e le tutele è il compito difficile che la politica ha davanti.
Il lavoro è un tema che ci coinvolge tutti. Quello che facciamo definisce chi siamo. E in questi anni, ci siamo abituati a fare molte più cose insieme. In qualche modo, siamo destinati a diventare soci dell’impresa dove lavoriamo, non solo dipendenti. E forse, diventeremo tutti free lance, abituati alla precarietà dei ruoli, delle situazioni, degli affetti, viaggiatori dello spaesamento geografico ed emotivo, in un mondo che non conosce più confini, ma dove gli uomini continuano a costruire barriere per limitare il proprio orticello nel grande villaggio globale. E la sfida più grande è proprio questa: riuscire a vivere insieme senza cadere nella trappola dell’egoismo. E oggi, l’Italia non è un paese coeso. Se non affrontiamo il problema della produttività e della domanda, coniugando politiche per l’occupazione e sistema di welfare, nessuna normativa del lavoro potrà funzionare. Il vero obiettivo è il bene dell’azienda, cui sono legati a filo doppio sia il destino dei dipendenti sia quello degli imprenditori.
Forse, Marco Biagi è stato incompreso e tradito. Ricominciare da Marco Biagi significa sanare la frattura tra capitale e lavoro, per costruire una società nuova, più flessibile, ma non precaria.
Marco Biagi e il suo pensiero restano un punto di riferimento importante per quel salto di civiltà che l’Italia non riesce ancora a compiere.