Le scelte per la crescita. Il ruolo della tecnologia e dell’innovazione
“A che cosa serve la politica?” Non si tratta soltanto di una domanda, che gli italiani continuano a ripetersi, ma è anche il titolo dell’ultimo libro di Piero Angela (collezione Ingrandimenti, ed. Mondadori), che offre un’occasione di riflessione sul ruolo della classe dirigente del Paese, delle imprese e dell’opinione pubblica. Classe 1928, multimediale già prima dell’avvento del Web, Piero Angela ha saputo utilizzare le risorse della comunicazione audiovisiva per rendere accessibile a tutti il mondo della scienza, dell’economia e della tecnologia. «Non sono un tecnico. Sono un giornalista, che si avvicina ai problemi, in modo graduale, con la curiosità e i dubbi comuni a tante persone». E mai come in questi ultimi mesi, gli italiani si sentono pieni di dubbi e interrogativi sulla crescita dell’Italia. Ho incontrato Piero Angela in una saletta del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano. Gli ho chiesto qual è il vero problema dell’Italia e qual è il ruolo dell’innovazione. Abbiamo parlato di Leonardo e di televisione, «un’invenzione che avrebbe lasciato il genio del Rinascimento senza parole». Quando gli chiedo di alcune voci, che erano circolate sulla sua possibile nomina alla presidenza della Rai, si fa una risata e chiosa subito: «Non vorrei mai trovarmi alla guida di una fuoriserie, con un limite di velocità di sessanta chilometri l’ora». Forse si potrebbe dire la stessa cosa del Paese? E si può guidare, guardando nello specchietto retrovisore? Nel 2020, il Primo Mondo conserverà il primato nella produzione di idee. I Paesi emergenti, che nel frattempo saranno emersi completamente, produrranno soprattutto beni materiali. Il Terzo Mondo fornirà̀ materie prime e manodopera a basso costo. In questo scenario, quale sarà il posto dell’Italia? Se si guarda la serie storica dei dati sulla crescita economica dal 1950 al 2012, si osserva un calo costante, da +5,5% a -1,4% del Pil (stime della Commissione europea). Questo significa che l’economia italiana è in costante frenata da mezzo secolo. La crisi ha radici lontane e la situazione attuale ha solo messo in luce i nodi strutturali del sistema nazionale.
Secondo i dati di uno studio del sociologo, Domenico De Masi, fra dieci anni i lavori manuali e quelli intellettuali ma esecutivi saranno assorbiti dalle macchine, trasferiti nei nuovi Paesi emergenti o affidati a immigrati. I creativi (30%) occuperanno la parte centrale del mercato, più garantita e meglio retribuita. Gli addetti ai lavori esecutivi (40%), lavoreranno con minori garanzie, per un massimo di 60mila ore nel corso della vita. Tutti gli altri, i cosiddetti “neet” (30%), avranno il diritto di consumare, ma non di produrre. Ridistribuire la ricchezza, il lavoro, il sapere, il potere, le opportunità e le tutele provocherà conflitti crescenti.
Siamo sull’orlo del baratro e a un punto di svolta? Il cambiamento di rotta sarà frutto di decisioni impopolari o di scelte condivise? Per Piero Angela, «trovare l’equilibrio tra produzione e distribuzione della ricchezza» è la vera sfida che abbiamo davanti.
Data Manager: Qual è il problema dell’Italia?
Piero Angela: È cambiato il mondo e molti non se ne sono accorti. A essere impreparati o colti di sorpresa, non ci solo i politici, ma anche la classe degli intellettuali e qualche imprenditore poco illuminato. L’Italia è rimasta molto indietro. E’ un Paese per vecchi, non all’anagrafe, ma nella testa. La tecnologia è considerata come una cosa per addetti ai lavori, mentre incide profondamente nella costruzione di un Paese. La tecnologia è alla base della capacità di prevedere il cambiamento per evitare di essere spazzati via. Gli imprenditori sono in prima linea in questa sfida. Purtroppo, ci sono fumatori che non riescono a smettere di fumare anche quando il medico mette loro davanti le lastre. In Italia, c’è una classe politica che continua a fumare davanti a un Paese malato.
La nostra economia non ha saputo sfruttare al meglio il potenziale delle tecnologie digitali. Perché?
La tecnologia ha bisogno di investimenti. E gli investimenti hanno bisogno di competenza. Il mix tecnologico ed energetico è l’elemento catalizzatore della crescita. Molti credono, invece, che siano i programmi politici a cambiare le cose. Questo è vero per la distribuzione della ricchezza, per l’ampliamento dei diritti, per la difesa della democrazia. Per rendere possibile lo sviluppo economico bisogna agire sulle leve che lo rendono possibile. E la politica si deve occupare della creazione delle condizioni e dell’equilibrio tra produzione e distribuzione della ricchezza. Oggi, la politica è sbilanciata sulla distribuzione della ricchezza in chiave di consenso.
A che cosa serve la politica?
A creare le condizioni del cambiamento. Alla politica si chiede quello che non può fare e cioè creare ricchezza. Bisogna concentrarsi sui motori veri dello sviluppo. La cura dell’albero è la prima cosa che i cittadini dovrebbero pretendere dalla politica, non la distribuzione dei frutti. In Italia, si scende in piazza per le tasse, le pensioni, il lavoro. Sono le imprese che producono ricchezza. Non si può distribuire ciò che non si produce, spostando il peso del debito sulle generazioni future. L’opinione pubblica ha un ruolo importante, ma deve occuparsi della mucca, non solo del latte.
Che cosa è un politico?
Il politico è un pilota, ma senza macchina non si può andare da nessuna parte.
Ma il pilota è responsabile delle condizioni della macchina oppure no?
Sono le scelte che determinano l’efficienza della macchina. Se in un Paese il sistema scolastico non funziona, se non si investe in innovazione e non si sostiene la capacità imprenditoriale, questa macchina prima o poi è destinata a fermarsi. Lo sviluppo non dipende da una singola scelta, ma dalla costruzione di un ecosistema. Non basta esportare un modello per cambiare rotta. Si può trasferire l’hardware, ma non il software. È il sapere che fa la differenza.
Che cosa intende per “software”?
Il software è l’intelligenza delle scelte. I valori, le regole, l’educazione, la conoscenza, l’efficienza, la ricerca, la creatività, il talento, l’organizzazione, l’efficienza nella Pubblica Amministrazione, la lotta alla corruzione sono il software di un Paese.
Perché in Italia, c’è una separazione tra cultura tecnica e umanistica?
Forse, un certo tipo di cultura umanistica ha difficoltà a mettersi in contatto con la cultura scientifica. Molti intellettuali non hanno compreso la vera natura della tecnologia. Non c’è contrapposizione. I frutti migliori della civiltà sono conseguenza di fatti tecnologici. Senza tecnologia e senza energia anche il numero degli intellettuali diminuirebbe. La stampa, i movimenti di liberazione della donna e molte professioni moderne sono un sottoprodotto del petrolio. Senza tecnologia il mondo piomberebbe di colpo nel Medioevo.
Qual è il suo rapporto con la tecnologia?
Io sono molto curioso. La mia curiosità si ferma all’osservazione e alla comprensione di certi strumenti e di certi fenomeni come, ad esempio, i social network, ma non faccio uso né di Facebook né di Twitter. Quando ho dieci minuti liberi, preferisco navigare sulle note del mio pianoforte.
La Rete spazzerà via i partiti?
Il Web obbligherà i partiti a cambiare, se vogliono sopravvivere. Ma credo che si tratti di autoconservazione, più che di evoluzione.
Che cosa pensa delle varie ricette per far ripartire il Paese?
Non ci sono ricette veloci. Per cambiare ci vogliono regole, meritocrazia, educazione. Alla lavagna si disegna bene il progetto, ma poi bisogna metterlo in pratica, cancellando comportamenti individuali e collettivi, che avvelenano il sistema. Moltissime imprese italiane sono competitive, ma non bastano per fare da traino a tutta l’economia. L’Italia può cambiare. La politica, però, ha rinunciato a fare squadra. E le imprese, i lavoratori, gli studenti sono stati lasciati da soli. Una parte della politica non capisce, all’altra non interessa.
La comunità scientifica dovrebbe avere un ruolo più attivo?
Gli scienziati non parlano, si occupano delle loro ricerche perché sono persone serie. Adesso, però, è arrivato il momento, anche per loro, di mettersi in gioco e alzare la voce. In Italia, manca una voce chiara e autorevole.