La rivoluzione è intorno a noi e può avere conseguenze inimmaginabili, come è avvenuto con il fenomeno della convergenza digitale. La nuova forma di convergenza che sta muovendo i suoi passi dall’informatica, ma sta invadendo anche i tangibili domini dei prodotti che di digitale possono non avere nulla, comincia a lambire quelle che sono le tradizionali roccaforti, i simboli stessi della nostra cultura industriale: la grande fabbrica. Per una nazione come la nostra, che ha grandi problemi di arretratezza sul fronte dei servizi digitali, ma è apparsa ultimamente anche molto rinunciataria quando si parla di atomi, subendo veri e propri tracolli in comparti come la meccanica e la chimica, il messaggio dell’innovazione diventa ancora più urgente. Ascoltandolo, potremmo cogliere una messe di opportunità. Ignorandolo, rischiamo un destino di involuzione ancora più buia e irreversibile di quella cui stiamo andando incontro per colpa dei nostri ritardi sulla tabella di marcia solo digitale.
Stiamo parlando della convergenza e dei sistemi di relazione e interconnessione che avvicinano sempre di più l’intangibile – le idee, il software, i progetti – al tangibile – l’hardware inteso soprattutto come prodotto materiale, non solo come computer. Stiamo parlando di un insieme di innovazioni concrete, facilmente reperibili sul mercato, che semplificano la realizzazione di dispositivi elettronici programmabili e che grazie a una serie di sensori e attuatori, permettono forme sempre più raffinate e potenti di interazione con la realtà. Stiamo parlando di nuovi materiali, nanotecnologie, ma anche di dispositivi relativamente “consumer” come le stampanti 3D, che accorciano drasticamente la strada – un tempo complessa, accidentata e terribilmente costosa – che porta dall’idea al prototipo e da qui alla produzione in serie. L’era del nuovo do-it-yourself, dei “makers” che guardano a qualsiasi oggetto come se fosse digitale o digitalizzabile, sembra attaccare alla radice il concetto fordista della linea di assemblaggio, della produzione in serie.
Il movimento dei makers prende le mosse da concetti come l’open hardware di Arduino, la scheda di microcontrollo programmabile proposta – guarda caso – da un italiano. Acquista forza, grazie all’incredibile effetto moltiplicatore dell’integrazione elettronica, che riduce le dimensioni, i consumi e i costi del trattamento dell’informazione e ci libera – con invenzioni come la logica cablata – dalla necessità di ricorrere ai grandi impianti di produzione di chip; o ancora grazie ai formidabili progressi compiuti dalla scienza dei materiali, dalle tecniche di fabbricazione su scale micro e nanometriche. Il movimento dei makers riesce a diffondersi sfruttando gli stessi modelli social adottati finora da chi fa pura informazione o puro servizio, ricorrendo per esempio a forme di finanziamento e azionariato diffuso in passato semplicemente impensabili. Siti web come Kickstarter, il successivo Indiegogo, o la recentissima CrowdSupply, sono la piattaforma ideale per promuovere le idee, stimolare i bisogni dei potenziali acquirenti, tradurli nelle somme di denaro relativamente piccole che servono per dar vita a una serie limitata, cento, mille pezzi che rappresentano il trampolino di lancio di una futura impresa industriale (che continuerà a essere basata sui paradigmi della fabbricazione on demand, senza mai passare per la proprietà di costosi impianti). La rete che prima univa le comunità di sviluppo software – oggi – muove idee di design, industrializzazione, capitali e materie prime avanzate. Un laboratorio diffuso, dentro cui prendono vita applicazioni e invenzioni concrete, progetti e oggetti da vendere e utilizzare nel mondo reale, non solo sullo schermo. Per una nazione povera di materie prime tradizionali e indebolita dal punto di vista della grande produzione industriale, sembra un sogno che si avvera. Sta a noi fare in modo che non diventi l’ennesimo incubo delle occasioni perdute.