L’ecosistema italiano dei venture capital, dalla sbornia delle dot-com anni 90 all’accelerazione delle start-up innovative. Perché è così difficile investire in Italia? Paolo Cellini: «Il vero ostacolo è la mancanza di competizione sia a livello strutturale sia economico»
Randy Komisar, noto consulente per le start-up durante gli anni euforici della new-economy, ha scritto proprio in quello stesso periodo un romanzo, che è diventato una sorta di manifesto ideologico degli startupper di quel tempo. Il libro – edito dalla casa editrice dell’Università di Harvard e dal titolo in italiano “Il Tao di Silicon Valley” – aveva come obiettivo quello di suggerire “un piano di vita integrale” per fare da subito oggetto di business ciò che è in grado di coinvolgere la vita delle persone. «Perché l’errore che sempre si commette – avvertiva Komisar – è quello di dedicarsi prima al lavoro e poi di intraprendere, senza alcun profitto, ciò che effettivamente ci sta a cuore». Bisognava invece stabilire un piano di vita integrale e questo implicava – e implica ancora oggi – una corretta comprensione del linguaggio del business e dei suoi cambiamenti: «Nel corso degli anni, Randy Komisar dichiarava di essere arrivato a capire che sostanzialmente il business non è un’istituzione finanziaria, ma «una forma d’arte». Come la natura e la scultura, «il business può essere il luogo della propria espressione artistica». Essenzialmente è più simile a una tela che a un documento di analisi contabile. Affinché un simile tipo di business, concepito in termini di creatività ed espressività possa affermarsi, Komisar teorizzava la necessità di un clima economico il meno vincolato possibile da norme asfissianti e rivolto a persone entusiaste e passionali. L’idea della finanza come forma d’arte ha – però – dovuto fare i conti con molti limiti. Dopo un periodo di euforia, la depressione sempre dietro l’angolo ha tolto energia e slancio a molti capitani coraggiosi e così l’Italia, lenta in partenza, si è trovata in balia dei fantasmi finanziari. In questo scenario, ho chiesto a Paolo Cellini – professore di marketing strategico alla LUISS e membro di Innogest e di altri venture capital italiani come LVenture Group e 21 Nextwork – di raccontarci la storia del venture capital in Italia a cominciare dalla bolla delle dot-com.
I numeri dell’ecosistema italiano
«Per risalire alle origini bisogna tornare indietro, alla fine degli anni 90 quando l’Italia ottiene i primi fondi venture capital» – racconta Paolo Cellini. «Il più noto è Pino Ventures di Elserino Piol che crea imprese di successo come Venere e Tiscali. Dopo lo scoppio della prima bolla Internet (siamo nel 2001) vengono creati tra il 2003 e il 2004 i due maggiori fondi di venture capital italiani, Innogest e 360 Capital Partners». Lo Stato italiano interviene due volte. «Inizialmente garantisce la creazione di un Fondo di venture capital per le regioni del sud: il “Fondo per il Sud”, un fondo di fondi (che investe in fondi di venute capital) dotato di 100 milioni di euro. Il fondo per il Sud ha dato vita anche ad altri tre fondi di venture capital, dedicati a start-up nel Mezzogiorno che sono Atlante di Banca Intesa, Quantica (poi Principia) e Verts. Successivamente, l’Italia si adopera per la creazione, presso il mediocredito centrale, di una misura di investimento sulle start-up già finanziate da Fondi di venture capital. È in questo periodo che è nato un vero e proprio ecosistema di venture capital italiano con l’intervento congiunto di investitori privati e pubblici e di vari gruppi di business angels, quali Iban e Business Angel for growth». I numeri dell’ecosistema italiano sono stati sempre estremamente ridotti e purtroppo, anche se in forte crescita, rimangono tali ancora oggi nel 2013. «I venture capital italiani (insieme ai business angels) investono ogni anno circa 100 milioni di euro per finanziare quasi cento start-up. Rispetto alla Francia e ad altri paesi europei, siamo sette volte più piccoli» – spiega ancora Paolo Cellini. «La maggior parte dei finanziamenti (circa il 40% del totale Italia) sono rivolti a imprese localizzate nella provincia di Milano. Altra caratteristica dell’ecosistema italiano è la forte presenza di bandi e finanziamenti da parte delle Regioni e a volte dei Comuni, anche se – stando alle cifre del World Wide Venture Capital Index (l’indicatore che misura la capacità di attrarre venture capital) – l’Italia è al trentesimo posto nel mondo e attrae solo il 2% dei capitali europei. Il rapporto tra investimenti in start-up e PIL italiano è tra i più bassi d’Europa: solo la Grecia fa peggio».
Ma qual è il vero problema del sistema Italia? Per Paolo Cellini il vero ostacolo è la mancanza di competizione sia a livello strutturale sia economico. «I venture capital, infatti, investono in start-up basate in zone territoriali di prossimità e dalla facile possibilità di ricollocazione. In altri termini, è più facile che una start-up sposti la sua sede a Berlino o a Londra piuttosto che un venture capitalist inglese o tedesco investa in una start-up situata in Italia». E la ragione è semplice: investire in start-up è un rischio enorme. Infatti, le start-up non hanno un fatturato e, spesso, neanche un prodotto o un servizio. Il venture capitalist quindi cerca di avere delle start-up fisicamente vicine a se stesse, per intervenire rapidamente in una situazione intrinsecamente instabile. Il quadro attuale italiano vede alcune iniziative strutturali interessanti, tra le quali possiamo menzionare la creazione di vantaggi fiscali e operativi per le start-up innovative, che attualmente sono circa mille e 200, l’intervento del Fondo Italiano di Investimenti per la creazione di fondi di venture capital che ha portato alla creazione di quattro nuovi fondi e infine il progetto di Invitalia denominato “SMART START”, con una dote di 190 miliardi di euro per start-up di sei regioni del sud. È un’iniziativa lodevole perché i capitali destinati alle start-up del sud sono largamente insufficienti.
«Le start-up non sono una moda» – ribadisce Cellini. «Numerosi studi dimostrano che l’occupazione qualificata in Gran Bretagna e negli Stati Uniti è aumentata proprio grazie alle start-up costituite».
Allora per l’Italia è solo un sogno? «La storia mostra società di volta in volta dinamiche, stagnanti, in declino o già estinte. Solitamente, quelle viventi e dinamiche sono quelle che hanno un sogno, lo costruiscono e lo preservano. Però, spesso la storia ci insegna, che anche i sogni possono trasformarsi in incubi». E l’Italia non se lo può permettere.