Facciamo un piccolo flashback. Siamo nella primavera del 2009. Che faremmo se qualcuno ci venisse a dire che cinque anni dopo: 1) le vendite di pc non saranno aumentate e saranno eguagliate e infine superate da un aggeggio, ancora da venire (l’iPad è del 2010) chiamato tablet; 2) si venderanno un miliardo di smartphone, ma 3) l’allora numero uno Nokia non sarà nemmeno tra i primi cinque fornitori, anzi 4) finirà nelle mani di Microsoft; 5) quattro quinti di questi smartphone utilizzeranno un sistema conosciuto da pochi smanettoni chiamato Android; 6) BlackBerry perderà nove volte il suo valore e sarà a rischio estinzione, 7) il principale fornitore di pc non sarà né HP, né Dell, né Acer ma la cinese Lenovo; che 8) IBM non sarà più in cima alle vendite dei server perché nel frattempo ha venduto quelli a base Intel sempre a Lenovo? Con ogni probabilità, cercheremmo il numero del neurodeliri.
Eppure, questa è la velocità con cui nel bene e nel male si muove il settore ICT, dove non solo l’impensabile diviene realtà, ma il cambiamento avanza a un ritmo che rende difficile l’orientamento. Il Mobile World Congress si è aperto a Barcellona con Mark Zuckerberg che si è comprato per 19 miliardi di dollari un’azienda che ne fattura mezzo (in buona compagnia: Facebook vale 170 miliardi e ne fattura 2 e mezzo) e ha parlato di far volare stuoli di droni per coprire con servizi Internet il mondo. L’idea non è del tutto nuova: quindici anni fa – quando ancora non c’erano i droni civili – Bill Gates pensava a una rete di satelliti a bassa quota. Sempre il MWC 2014 si è chiuso con Ginni Rometty, a capo di un’IBM che magari non parla molto, ma continua a fare acquisizioni rivolte a mobile e big data. Perché ormai è chiaro che le nuove frontiere sono l’interazione personale, che vuol dire consumerizzazione e quindi interazione, soprattutto mobile, per miliardi di utenti. Succede così che tra rapporti governativi che rischiano di apparire semplicemente inutili e piani di investimento che restano al palo, l’intero settore sta cercando nuovi equilibri anche se – come succede nelle guerre – non è vero che alla fine sopravvivono sempre i migliori. A Bruxelles, sta tramontando la gestione di Neelie Kroes, che molto ha messo al fuoco e poco ha portato in tavola, se non tariffe al ribasso ma con un settore in affanno. In Italia, si torna a rimescolare le carte e il nuovo governo sembra più preoccupato dei tetti delle scuole che di quel che ci sta sotto. Gartner intanto avverte: delle prime 100 aziende della graduatoria di Fortune, un terzo incorreranno entro il 2017 in una “crisi d’informazione”. Non per mancanza di tecnologia, ma per carenza di una strategia su come utilizzarla. E avverte: non basta mantenere l’informazione, occorre gestirla. Se l’umanità rischia di morire soffocata dai propri rifiuti, le aziende sono alle prese con un problema che è di management. La tecnologia ci ha messo nelle condizioni di raccogliere enormi quantità di informazioni. Social networks e business analytics promettono (o minacciano) di scaricare una quantità di informazioni nemmeno pensabili in precedenza e di metterle in fila. Ma il rischio è che la quantità prenda il sopravvento sulla qualità. L’intelligence Usa, che poteva contare su grandi quantità di dati, nel 1978 indicava l’Iran come un paese meno a rischio dell’Italia afflitta dalle Brigate Rosse, perché considerava quello dello Shah, Reza Pahlavi, un regime amico: nel 1979, il rientro di Khomeini dalla Francia avrebbe acceso le polveri della rivoluzione. Per le aziende, così come per le politiche pubbliche, la sfida non è solo quella di reti più veloci o di quantità sempre più grandi di dati. È quella di definire priorità e indirizzi nelle scelte e nei rischi, basati sul contributo di valore e possibilmente senza trascurare ma anche senza prendere come parametri dominanti i numeri dei “like” di Facebook o dei minuti scaricati da Netflix.
Servono nuove competenze e anche un nuovo umanesimo.