La Banca d’Italia ha appena ufficializzato una previsione ancora pessimista per il PIL nazionale, che anche nel 2013 si contrarrà dell’1%. Un’allarmante serie negativa per una crisi (iniziata prima di altre nazioni), che sembra non avere fine. Serve un colpo d’ala, che non può non comportare una massiccia dose di innovazione tecnologica a qualsiasi livello
Le imprese italiane hanno accumulato un pesante deficit in termini di innovazione e soprattutto di produttività. Secondo Enrico Giovannini, presidente dell’Istat, questo deficit pesa sulla ripresa dell’economia che «sarà molto lenta e darà i primi segnali solo a partire dalla seconda metà del 2013». Una ripresa molto lenta non riuscirà a produrre gli effetti sperati e quindi il tema dell’innovazione resta centrale. Molte imprese – proprio a causa del clima di incertezza – rinunciano a investire in innovazione, anche loro malgrado. «Questo significa – spiega Paolo Angelucci, presidente di Assinform – rinunciare a crescere in competitività, efficienza e produttività, contribuendo ad avvitare verso il basso la spirale della crisi economica. La prima parte del 2013 non può che essere all’insegna del peggioramento». Non solo. «Tutti i segnali indicano che il 2013 continuerà a essere un periodo di sofferenza per l’industria IT, compromettendo ulteriormente le possibilità di ripresa della nostra economia».
Questo non vuol dire soltanto che le imprese italiane tendono ad acquistare meno tecnologia, fatto peraltro incontrovertibile se si esaminano le cifre semestralmente elaborate da Assinform. Gli ultimi dati disponibili relativamente al primo semestre 2012 (contrazione del 3,8%) e alle previsioni di chiusura dell’anno (-4,4%, una débacle), confermano e consolidano una crisi già sensibile nel 2011, quando il rapporto Assinform stabiliva che la riduzione degli investimenti in tecnologie (hardware, software, servizi, telecomunicazioni) ammontava già all’1,7%.
LE DINAMICHE DEL MERCATO
Il problema non sta soltanto nella minore spesa legata all’acquisto di informatica. In questo mercato, le brusche dinamiche di prezzo e di margine possono sicuramente influire sui fatturati complessivi. E’ anche possibile che spendendo meno le aziende finiscano per avere in pancia una maggiore capacità tecnologica. Ma è l’uso pratico di questo potenziale, la sua mancata conversione in produttività a rappresentare il sintomo più grave, la definitiva certificazione di un sistema che rischia ancora una volta di perdere il treno dell’innovazione vera. Secondo il presidente dell’Istat, «abbiamo sostituito le macchine da scrivere con i pc, ma abbiamo continuato a produrre e lavorare come prima». Le nostre aziende, soprattutto quelle medio-piccole, non investono abbastanza in nuove idee, nuovi processi, nuove modalità di lavoro, mentre su burocrazia e sanità continuano a pesare i cronici difetti: scarsa circolazione delle informazioni, iter e tempi di attesa infiniti, eccessiva presenza di documentazione cartacea, procedure ampiamente disallineate rispetto all’evoluzione tecnologica.
Abbiamo chiesto a Stefano Mainetti, digital & ICT start-up coordinator del PoliHub, recentemente costituito dalla Fondazione Politecnico di Milano, quali siano a suo parere le aree e i processi che hanno maggior bisogno di una trasformazione legata all’informatica in Italia. «Le tecnologie dell’informazione non possono che essere uno strumento formidabile per trasformare i processi affetti dai mali della burocrazia» – risponde Mainetti. «La digitalizzazione di questo tipo di processi comporta due significativi vantaggi: in primo luogo la potenziale completa trasparenza dei processi, in secondo luogo la semplice misurabilità dei principali KPI (key performance indicator) connessi ai processi. Questi due vantaggi, qualora un’organizzazione volesse conseguirli, non possono che essere la base per un processo di innovazione e trasformazione in termini di efficacia e di efficienza».
LA BUONA NOTIZIA
La buona notizia è che la cultura che va dalle prime proposte dell’informatica on demand all’attuale cloud computing, ha sicuramente abbassato le soglie di accesso alle tecnologie innovative, riducendo – per esempio – la dipendenza dagli ingenti investimenti in risorse hardware. Concetti come Software as a Service hanno l’ulteriore vantaggio di portare con sé una forte carica innovativa in termini di accelerazione e trasformazione dei processi. L’informatica pervasiva, il cloud, la mobilità delle piattaforme smart con le loro app, hanno il vantaggio di un elevato “peso specifico” di innovazione.
Parliamo ovviamente di tutti gli aspetti che la stessa Assinform ha censito per mettere a punto il nuovo sistema di valutazione chiamato Global Digital Market. Sotto questa nuova lente, si rileva che nei primi sei mesi del 2012, al netto calo del comparto “pc e server” si è contrapposto non solo il +78,5% di crescita del mercato tablet, ma anche l’affermarsi dell’IT della nuvola. Tutto il nuovo filone del cloud computing è aumentato infatti del 41,6 %. Allo stesso tempo, i nuovi modi di fruizione della tecnologia spingono la crescita del segmento dei contenuti digitali e della pubblicità online al ritmo del +4,1%. Se il trend dei servizi informatici e del software continua a scendere, emerge invece la dinamica positiva (+3,0%) delle applicazioni innovative sui temi della mobilità, della protezione ambientale, della sicurezza sociale e welfare. In attenuazione, invece, il calo del mercato delle TLC, che aveva chiuso il primo semestre 2012 con -1,3% contro il -2,7% nel 2011/2010. Il trend è dovuto alla ripresa degli investimenti nelle infrastrutture di rete +2,2% (-3,3%) e nei sistemi e terminali +4,4% spinti soprattutto dagli smartphone, che continuano a crescere a doppia cifra segnando +30%. Certo, restano intatti i nodi di criticità di progetti infrastrutturali come la rete unica e gli attesi interventi sulla larga banda e contro il divario digitale, ma il 2013 è anche l’anno del vero debutto commerciale del 4G e sarà interessante vedere quali saranno i primi effetti in termini di mercato.
INVESTIRE IN NUOVE TECNOLOGIE
Investire in IT significa oggi disporre rapidamente di un forte moltiplicatore di trasformazione, a basso “capex” e in una ottica di equità e sostenibilità dei costi operativi. Naturalmente questo implica, insieme alla volontà di investire in tecnologie da parte degli imprenditori – magari a fronte di misure di incentivazione tese a ridurre l’enorme pressione fiscale che ricade sulle aziende – e la capacità di intervenire a livello di sistema con la precisa finalità di rendere davvero possibile l’innovazione, agendo non solo sulla leva della fiscalità, ma soprattutto sulle linee di direzione strategica di un Paese che da troppo tempo è sostanzialmente privo del timone rappresentato da un coerente piano industriale. Quali potrebbero essere le misure legislative, fiscali o quant’altro, capaci di creare o comunque favorire le condizioni giuste? È possibile risolvere l’apparente paradosso di una innovazione che dovrebbe aiutarci a uscire dalla crisi ma richiede investimenti e risorse che proprio per colpa della crisi non riusciamo ad abbracciare compiutamente? «Il tema di come favorire in un sistema il circolo virtuoso dell’innovazione è annoso» – riconosce Mainetti (Politecnico di Milano). «Il dibattito è aperto da tempo e si sono susseguiti diversi interventi in proposito. Il principio seguito è stato quello di contenere i finanziamenti molto frammentati o a fondo perduto, per favorire attività di cofinanziamento e di credito d’imposta o, ancor meglio, nel defiscalizzare gli investimenti per l’innovazione operati dalle imprese. In questo scenario, un ruolo fondamentale può e deve essere svolto dalle Università e dagli Enti di ricerca».
Occorrono innanzitutto nuove regole e un piano di cambiamento che valga non solo per le singole imprese, ma per tutta la collettività, e questo capitolo è stato in qualche modo affrontato nell’ultima fase del “governo tecnico” Monti, con il cosiddetto DL Crescita 2.0. Questo è solo un primissimo passo, ora il testimone passerà al nuovo “governo politico” che dovrà intervenire in misura sempre più massiccia su comparti come la burocrazia e l’amministrazione, la sanità e naturalmente le infrastrutture energetiche, digitali, di trasporto. Parallelamente, sarà necessario potenziare e svecchiare in modo radicale il sistema educativo, la scuola per chi deve trovare un lavoro e la formazione di chi il lavoro lo ha già trovato o lo sta cambiando (presupponendo che le azioni svolte per stimolare la crescita si traducano anche in una svolta positiva di indici occupazionali, oggi, negativi).
SCENARIO IN CHIAROSCURO
Se il quadro è piuttosto cupo nel suo complesso, ci sono diverse ragioni per mantenere uno spirito ottimista e costruttivo. L’economia è ancora sostanzialmente una partita a due, giocata tra chi produce e chi consuma ed è proprio dalla metà di campo riservata ai consumatori che stanno arrivando segnali incoraggianti – forse – più sul piano culturale che su quello dei numeri, sapendo che la crisi riduce la capacità di spesa di tutti. In Italia, il 2012 è stato un anno molto positivo per il commercio elettronico B2C. Secondo l’Osservatorio B2C Netcomm-Politecnico, il comparto degli acquisti online ha fatto registrare una nuova accelerazione, portando le vendite da siti con operatività in Italia a 9,5 miliardi di euro, in crescita del +19% rispetto al 2011 (1,5 miliardi di euro in più). Sono cresciute le vendite sia di prodotti che di servizi, le prime (+29%, +800 milioni di euro) a un ritmo superiore – ma di entità minore in valore assoluto – rispetto alle seconde (14%, +750 milioni di euro) e questo nonostante i servizi pesino ancora per i due terzi del settore (63% contro 37%).
Con le solite lentezze rispetto ad altre aree geografiche che in genere godono di migliori condizioni al contorno e di infrastrutture più avanzate e soprattutto omogenee, in Italia si sta affermando un mercato di consumatori culturalmente aperti a formule di accesso digitale e a un insieme di beni che non sono soltanto virtuali e intangibili, ma anche fisici. Per riuscire ad attingere a questo potenziale, le aziende devono aumentare per forza la loro capacità di dialogo attraverso i canali digitali, ma deve anche crescere e rafforzarsi la possibilità di gestire sul piano logistico la complessa problematica del “fulfillment” all’interfaccia tra virtuale e fisico. Un problema che si deve affrontare in modo molto sistemico, senza focalizzare le proprie energie su aspetti specifici come le dorsali a larga banda o le reti d’accesso: quando non si vendono solo bit, esisterà sempre il problema di consegnare in tempo e in modo sostenibile la merce vera e propria e questo significa avere trasporti efficienti, traffico veicolare tracciabile, basso impatto ambientale. Tutte cose che non possiamo neanche cominciare ad affrontare senza l’innovazione tecnologica.
UN FUTURO NON TROPPO LONTANO
Nel corso di Smau Milano 2012, la School of Management del Politecnico di Milano ha presentato una ricerca molto interessante su “Mercati digitali consumer e new Internet”, delineando per il 2015 uno scenario in cui i consumatori italiani potranno gestire le proprie transazioni commerciali anche attraverso 50 milioni di smartphone, 11 milioni di Internet tv e 12 milioni di tablet. Nei numeri elaborati dalla School of Management i “mercati digitali” sono costituiti, oltre che dal valore delle transazioni di e-commerce, dall’insieme delle attività pubblicitarie su mezzi digitali e dal volume di contenuti e servizi. Questa economia della convergenza – e vale la pena sottolineare ancora una volta che si sta parlando solo di attività B2C – è una torta niente affatto trascurabile. Nel 2012, in piena crisi dell’economia generalizzata, è cresciuta del 14% rispetto all’anno prima e ha superato la soglia dei 16,2 miliardi di euro. Miliardi che il pubblico “consuma” attraverso personal computer, tablet, smartphone, televisori connessi. Attraverso i negozi virtuali gli italiani spendono circa 9 miliardi e mezzo e un particolare interessante riguarda la forte crescita (si parte ovviamente da volumi quelli sì trascurabili) del cosiddetto “mobile commerce” che supera comunque un valore di 150 milioni di euro. C’è molta curiosità nei confronti delle primissime iniziative di t-commerce, gli acquisti effettuati attraverso il telecomando su Internet tv. Per un Paese in cui la nicchia delle aste televisive è sempre stata abbastanza vivace, è possibile che il t-commerce possa dare positivi riscontri.
DALL’E-COMMERCE AL T-COMMERCE
Un contributo significativo ai 16 miliardi e oltre del nostro “mercato digitale” viene dal mondo della pubblicità online, che nel 2012 supera abbondantemente i 2 miliardi di euro, anche in questo caso in un contesto di generale contrazione della pubblicità su mezzi elettronici come la televisione (e in parte minore la radio, che sembra invece “tenere”) e di autentico crollo dei fatturati pubblicitari su carta. E infine, la terza gamba del cyber consumo – un terzo del mercato – è costituita dall’insieme dei contenuti. Per gli esperti del Politecnico sono circa 5 miliardi a loro volta ripartiti tra contenuti per pc (giochi e scommesse) che valgono 1,1 miliardi, contenuti mobili (partiti con le classiche suonerie e le notizie via SMS e oggi più orientati a giochi e filmati) che hanno un fatturato di 550 milioni e il segmento della tv digitale premium, che vale 3,2 miliardi ma appare ormai giunto a maturazione. Dopo tutte queste cifre, si può azzardare una prima considerazione infrastrutturale. Sul valore complessivo di questa torta, la componente che si basa su Internet pesa circa il 75%. Tale componente, afferma la School of Management, potrà beneficiare dell’avvento della cosiddetta “Nuova Internet”, il paradigma di fruizione basato su nuovi device (tablet, smartphone e Internet TV) e sulle app che potrebbe fare recuperare all’Italia il gap accumulato invece dalla “Vecchia Internet”, basata su pc e web. Ma bisogna fare in modo che gli ostacoli che in passato avevano determinato certe lentezze vengano meno, e presto. L’analisi dei dati ha infatti evidenziato come la rete tradizionale non si sia sviluppata come auspicato in Italia rispetto alle sue reali potenzialità, per colpa di infrastrutture insufficienti e bassa diffusione dei dispositivi allora dominanti (in Italia si contano solo 67 pc ogni 100 abitanti contro gli 88 delle prime cinque nazioni europee e i 140 negli Stati Uniti) e per la limitata penetrazione dei collegamenti Internet (circa il 57% della popolazione italiana contro il 90% nei Paesi nordeuropei e l’80% in USA).
LA NUOVA INTERNET
Le potenzialità della “Nuova Internet” sono evidenti, ma per il momento sembra che il lavoro lo abbiamo fatto soprattutto i consumatori. Ora sono le imprese che devono raccogliere il guanto della sfida. In molte delle aziende che Data Manager ha incontrato negli ultimi 12 mesi, tale percezione è condivisa. Il B2C ha fatto molto, ora il B2B deve moltiplicare i propri sforzi. Basta in effetti considerare il recente fenomeno della “consumerizzazione”, l’impatto che i dispositivi e gli stili di vita digitale che caratterizzano gli individui fuori dall’ambiente di lavoro cominciano ad avere anche dentro l’ufficio. Un fenomeno riassunto in un acronimo per una volta simpatico: “bring your own device” – ossia – “portati il computer da casa”. Uno studio anticipatore di CA Technologies svolto già nel 2011, individuava nel BYOD un importante fattore di cambiamento perché i comportamenti dei giovani assunti possono agire da stimolo all’innovazione. Dall’indagine di CA Technologies sui cosiddetti Millennials, la generazione di giovani nativamente orientati alle nuove tecnologie, emergeva un forte livello di aspettativa nei confronti di un contesto lavorativo in cui poter ritrovare gli stessi strumenti e le stesse modalità applicate all’uso delle tecnologie nella vita privata e nello studio. Una propensione che può rappresentare un grosso vantaggio per le aziende, che in passato dovevano sostenere l’onere della formazione, del trasferimento di knowhow che oggi è in larga misura già assimilato dai giovani. Tuttavia, per queste aziende è diventato urgente intervenire con opportune strategie di adeguamento. Quanto urgente secondo Mainetti? «Il ritardo accumulato dall’Italia è purtroppo significativo. Se confrontiamo i principali indicatori italiani di intensità degli investimenti in innovazione con quelli di altri Paesi europei o mondiali, il quadro che ne esce è piuttosto desolante. Ma non dobbiamo e non possiamo lasciarci deprimere da quest’osservazione. Finalmente, il tema dell’Agenda Digitale è stato preso in considerazione e sono stati svolti dei primi passi nella giusta direzione. Ora, sta a noi non perdere questa spinta iniziale e – malgrado le travagliate vicissitudini politiche del Paese – sostenere con forza l’esigenza di proseguire con grande determinazione questo cammino».
LA SVOLTA POSSIBILE
Tutto lascia intendere – dunque – che la svolta sia davvero possibile e che finalmente l’Italia sia in grado di salire sul treno giusto verso una ripresa basata sull’innovazione. Uno degli elementi più incoraggianti riguarda proprio l’imprenditorialità, in particolare quella giovanile. Il 2012 è stato l’anno delle start-up tecnologiche e ancora una volta il Politecnico viene in aiuto con un altro dei suoi Osservatori, quello di recente costituzione dedicato appunto alle start-up, con dati che servono a capire meglio il possibile impatto di questi motori di nuovo business sull’economia e che sono stati resi noti proprio in occasione della presentazione ufficiale del “PoliHub”. Il PoliHub – lo ricordiamo – nasce come “start-up district & accelerator”, una iniziativa voluta dalla Fondazione Politecnico per mettere a disposizione delle start-up italiane particolarmente innovative spazi appositamente realizzati, configurabili e scalabili in base alle singole esigenze e dotati delle più moderne facility e un ricco programma di formazione e di empowerment. La constatazione di partenza è che anche sul fronte dell’imprenditoria giovanile siamo molto in ritardo. Lasciando Stati Uniti e Israele nelle loro irraggiungibili posizioni di testa, in Italia si investe in start-up un settimo rispetto alla Francia, un quinto rispetto alla Germania e al Regno Unito e la metà rispetto ai Paesi del nord con PIL molto inferiori a quello italiano. Il ritardo è anche dovuto al relativo disinteresse “istituzionale” nei confronti di forme di investimento giudicate evidentemente a rischio troppo elevato da parte degli ambienti finanziari più tradizionalisti. Fatto è che in Italia, secondo l’Osservatorio start-up, sono poco più di una ventina gli investitori istituzionali realmente attivi nel dare sostegno a queste realtà. A questo dato si aggiungono un’altra decina di incubatori privati che, oltre a investire nelle giovani imprese (anche se mediamente meno dei primi), forniscono loro risorse e servizi a valore aggiunto di varia natura, dallo spazio d’ufficio al mentoring o alla consulenza. La quota più consistente degli investimenti, circa il 50% (ma negli USA si arriva al 60%) è destinato alle start-up che agiscono in ambito ICT, dove si è concentrato lo studio del Politecnico milanese. Se nel 2011, le operazioni di investimento in start-up ICT in Italia sono state 44 (il 41% è stato fatto da incubatori, il 39% da venture capitalist) per un totale di circa 27 milioni di euro, i primi 9 mesi del 2012 hanno registrato una tendenza stabile: 29 operazioni per circa 20 milioni di euro. Quasi il 50% delle operazioni fatte si riferiscono al comparto mobile (20 investimenti su 44 nel 2011 e 13 investimenti su 29 nei primi 9 mesi del 2012), mercato nel quale l’Italia ricopre una posizione di leadership a livello internazionale. Il comparto dimostra – dunque – una dinamicità interessante e alcuni casi virtuosi stanno registrando una forte attenzione a livello internazionale. Sulla base di un confronto “pesato” con alcune ricerche internazionali, l’Osservatorio sulle start-up del Politecnico stima che se venissero immessi nelle nuove imprese 300 milioni di euro per investment seed, si potrebbe avere, entro un decennio, un impatto sul PIL di circa tre miliardi di euro (pari allo 0,2% circa). Cento milioni investiti, un miliardo guadagnato, dunque, ma se vogliamo che il motore delle start-up giri a regime più alto, occorre creare un ecosistema in grado di generare un circolo virtuoso tra le sue diverse componenti: sistema formativo, sistema di comunicazione, sistema finanziario, sistema politico.
IMPRESE INNOVATIVE
Un lodevole sforzo normativo mirato proprio a rendere sistemica la tendenza all’innovazione nell’economia è l’ormai celebre decreto “Crescita 2.0” varato in ottobre e confermato il 13 dicembre con l’approvazione della legge di conversione. Insieme a diverse misure di svecchiamento (fatturazione elettronica, firma digitale, libri di testo elettronici) che si spera possano essere portate avanti, il decreto governativo affronta per la prima volta in maniera organica l’argomento delle “imprese innovative”. L’articolo 25 del documento ne descrive le caratteristiche; l’art. 26 istituisce opportune deroghe al diritto societario e riduce gli oneri di avviamento; l’art. 27 introduce strumenti di remunerazione finanziaria. Cambiano anche (art. 28) alcune condizioni che riguardano i contratti di lavoro subordinato e vengono introdotti vari incentivi all’investimento (art. 29). Con l’articolo 30 sono promosse sia formule innovative di raccolta di capitali (crowd financing), sia il sostegno all’internazionalizzazione del business e del finanziamento, un aspetto quest’ultimo su cui l’imprenditorialità italiana può fare leva per uscire da una situazione congiunturale interna sfavorevole e angusta.
Basterà tutto questo per stimolare la voglia dei giovani studenti e laureati di trasformare le loro capacità e le loro visioni in opportunità di business? Quello che si può sperare è che il nostro sistema di formazione superiore sia aperto ai dieci trend tecnologici che secondo Gartner caratterizzeranno il 2013: dispositivi mobili, applicazioni mobili e Html5, personal cloud, app store per l’impresa, Internet delle cose, IT ibrida e cloud computing, big data “strategico”, analytics direttamente convertibili in azioni di business, informatica “in memory” o in tempo reale – e infine – il tema emerso anche durante le nostre conversazioni con le aziende, quello degli ecosistemi integrati.
Per Stefano Mainetti (Politecnico di Milano), più che la specificità delle singole tecnologie conta la propensione generale alla trasformazione. «La carica innovativa dipende dalla reale necessità di cambiare e di evolvere dalla situazione di partenza, piuttosto che dal potenziale innovativo di una tecnologia o di un’applicazione». Ma c’è di più. «Le tecnologie sono fattori abilitanti e l’attuale pervasività dei dispositivi mobili sempre connessi e dotati di molti sensori non può che rappresentare un enorme potenziale. Nella nostra attuale situazione dobbiamo assolutamente confidare che – in questo 2013 – crescita e pervasività procedano di pari passo».