Euforia generale del mercato e titoli azionari alle stelle. L’allarme di una nuova bolla impone di cercare nuove strategie di mercato. Ma i VC sembrano saper dominare l’esaltazione
Arriverà una nuova bolla, o forse no, o forse invece la stiamo già vivendo e ancora non ce ne siamo resi conto. Questi sono i dubbi che assalgono gli investitori e i banchieri appena aprono un qualsiasi grafico delle attuali quotazioni di mercato. Una cosa la possiamo dire con sicurezza. Ovunque c’è grande euforia, si avvertono tensione e agitazione. E a determinare questa sorta di ansia nevrotica sono i titoli azionari giunti ormai alle stelle. Per non parlare poi dell’incredibile quantità di capitali che si sta riversando nel settore hi-tech e della smania degli investitori di guadagnare sempre di più.
Non mancano poi le solite profezie negative provenienti da ambienti altisonanti. «Creeremo grandi bolle e queste bolle porteranno alla fine a grandi crash. Siamo all’inizio di una bolla sul credito, ma appena all’inizio. Tutti gli avvenimenti rischiosi che si sono manifestati nel 2006 e nel 2007 sono tornati allo stesso livello, se non peggiore». Questa è la visione prospettica di Nouriel Roubini, professore alla New York University e presidente di Roubini Global Economics.
«Forse, oggi non c’è una bolla nel mercato azionario americano, ma la strategia di uscita dalle maxi iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve sarà così lenta che non mancheranno i presupposti di una nuova bolla».
Corsi e ricorsi storici
Assisteremo veramente a una nuova bolla 2.0? In realtà i numeri e le statistiche degli investimenti dei VC dicono qualcosa di diverso. Non è sempre vero che i corsi e i ricorsi storici debbano necessariamente alternarsi. Talvolta, il passato non si ripete affatto o quantomeno ritorna con le vesti di un presente diverso che ha perduto ormai tutti i connotati del suo precedente. Ma procediamo con ordine. A marzo del 2000, abbiamo assistito alla fine della prima New Economy, ovvero allo scoppio della bolla finanziaria che aveva seguito l’avvento di Internet. Il periodo di euforia iniziale si era trasformato rapidamente in un tragico crollo dell’indice Nasdaq. Ma questo non era ancora abbastanza. Non avevamo imparato la lezione. Perché a distanza di otto anni, tra il 2008 e il 2009 ci siamo ritrovati a dover affrontare un evento ancora più catastrofico, una crisi sistemica, globale, quasi irreversibile. Quell’euforia si chiuse con un disastroso tracollo del Nasdaq. Il ricordo di quella catastrofe è stato quasi cancellato da un evento ancora più drammatico, la crisi sistemica. Tuttavia ogni crisi finanziaria consente di poter trarre un insegnamento sulla speculazione finanziaria, di poterne capire le ragioni in modo tale da riuscire ad adeguarsi alle logiche del mercato, sottoponendo il processo di costante distruzione e creazione della Silicon Valley a un’opera di continuo adeguamento. E sembra che i VC qualcosa abbiano appreso.
Allarme bolla?
Gli ultimi dati dimostrano come i membri della venture community americana non possano nemmeno competere con quell’assurda quantità di imprese finanziate, o di denaro messo in circolo all’inizio del secondo millennio. Nonostante, dopo la pubblicazione del rapporto MoneyTree – una joint venture di PricewaterhouseCoopers, la National Venture Capital Association e Thomson Reuters – con la rivelazione nello scorso mese degli ultimi numeri di investimento di capitale di rischio, alcune delle testate giornalistiche americane più importanti quali il New Yorker, il Boston Globe e il Los Angeles Time abbiano parlato della concreta possibilità del riaffacciarsi di una nuova bolla, non sembra ci siano i presupposti per un simile allarmismo. I numeri di investimento del primo trimestre del 2014 sono ben lontani da quelli che abbiamo visto nel 2000.
Nello scorso 2013, i fondi di venture capital hanno investito complessivamente 29,5 miliardi di dollari in un totale di 4.401 imprese. Questi numeri sono enormemente più bassi rispetto a quelli del 2000, poco prima che la bolla delle dotcom esplodesse – nel dettaglio: 105 miliardi di investimenti, per 8.041 attività (i dati vengono dal National Venture Capital Association Yearbook del 2014).
E questo senza contare il fatto che i dati storici sugli investimenti non tengono conto dell’inflazione. Non solo, il totale dei capitali messi insieme nel 2013 è grosso modo equivalente a quello degli ultimi tre anni. E anche chi obietta che soltanto nel primo trimestre del 2014, i VC hanno investito ben 9,5 miliardi di dollari in giovani imprese, non può non riconoscere che complessivamente è stato meno di un quarto dei 39 miliardi di dollari che i VC hanno riversato nelle start-up nei primi tre mesi del 2000 .
A conferma della lontananza tra le bolle precedenti e la situazione attuale, si può notare come l’interesse per le offerte pubbliche iniziali delle aziende hi-tech stia progressivamente riducendosi. Tanto per fare dei nomi, le azioni di Twitter hanno perso più del 50% del loro valore da ottobre, quando la società ha debuttato sui mercati. Inoltre, Renaissance Capital, una società di consulenza e ricerca che si occupa di IPO, ha reso noto la scorsa settimana come non ci siano nuove aziende in rampa di lancio per maggio. Dovremmo quindi fare nostro l’insegnamento tratto dalla situazione attuale, attraverso l’analisi estremamente lucida e razionale che Jason Zweig (personal finance columnist) ha espresso in un recente articolo pubblicato sul Wall Street Journal. “Non basta essere lungimiranti riguardo alle tendenze del progresso tecnologico per riuscire a trasformare queste previsioni in guadagni di Borsa. Azzeccare il trend di crescita di un settore o di una nuova generazione di prodotti, può condurre a un errore molto banale: strapagare le azioni”.
Governare l’incertezza
La macroeconomia e l’individuazione della società vincente spesso non coincidono e bisogna fare attenzione. Ma poi, se anche dovesse arrivare una nuova bolla hi-tech, sarebbe davvero così devastante? William Janeway, managing director della società Venture Capital Warburg Pincus, ha sostenuto che bisogna distinguere tra le bolle non produttive, come per esempio la bolla Tulipano olandese e la recente bolla immobiliare, e quelle produttive, come la bolla tecnologica degli anni 90. «In un mondo d’incertezza cronica, Frank Knight e John Maynard Keynes sostengono che le bolle produttive sono l’unico modo che le società capitalistiche hanno per poter mobilitare risorse sufficienti per investire nelle tecnologie del futuro. Sebbene queste bolle inevitabilmente coinvolgeranno un sacco di rifiuti, allo stesso tempo, lasceranno in eredità molte tecnologie produttive alle aziende che altrimenti faranno fatica a trovare finanziamenti». Janeway ha presentato dati che dimostrano che, in tempi normali, i fondi di Venture Capital tendono a rendere i ritorni modesti e lottano per sollevare un sacco di soldi. È solo nei mercati caldi che gli investitori sono disposti a collocare ingenti somme d’investimento nelle prime fasi. Basti pensare ad Amazon, che, durante la bolla dot-com, ha sollevato più di 2 miliardi di dollari prima di generare flussi significativi. Una buona parte di quel denaro è stata sollevata in un prestito obbligazionario convertibile, un’offerta che ha avuto luogo poche settimane prima dello scoppio della bolla.
In ogni caso, quella che in questo momento può sembrare un’euforia foriera di una nuova crisi finanziaria, in realtà è relativamente di poco conto se messa a confronto con l’esaltazione generale che precedette le due grandi crisi del 2000 e del 2008. Possiamo allora dormire sonni tranquilli e confidare nel fatto che non si ripeteranno più gli errori del passato? Per il momento, sarebbe più opportuno stare all’erta e se proprio volete dormire comodi, mettetevi un cuscino sotto la testa, ma non dimenticate di mettere la sveglia perché è vero che ciò che accade nel mercato oggi è accaduto prima e accadrà ancora, ma lo dimentichiamo sempre.