Secondo gli esperti, l’Internet delle Cose è un paradigma tecnologico dal potenziale applicativo sconfinato, in grado di incidere su competitività delle imprese, efficienza delle pubbliche amministrazioni e qualità della vita. Ma vediamo se è veramente così
Entro il 2020, 50 miliardi di macchine, apparecchi, oggetti, interconnessi si scambieranno informazioni e ordini. Queste cose saranno molto più numerose degli esseri umani. Ma sarà utile? Dicono di sì (ci lavorano dal 1999) enti di prestigio non dediti alla fantascienza. Fra questi: IEEE (Institute of Electrical and Electronics Engineers), CISCO (azienda leader mondiale in tecnologia delle reti informatiche), Telecom Italia, CSIRO (Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization).
Le tecnologie IoT di comunicazione fra oggetti e sistemi utilizzano collegamenti a radio frequenza (da quelli a corto raggio – tag RFID – a quelli moderni) e connessioni via Internet con protocolli IP e IETF. Si mirava a integrare fra loro i controlli automatici di strutture diverse (industrie, edifici, città, trasporti, sanità, agricoltura, ambiente) e renderne accessibili a distanza i sensori a operatori e pubblico. Software distribuiti “creano così una continuità virtuale fra oggetti fisici, l’ambiente e le loro rappresentazioni su Internet”. Le parole precedenti sono fra virgolette perché le cito da una pubblicazione IEEE, che non chiarisce in dettaglio cosa accada. Dà per scontato che i sistemi di controllo interconnessi siano intelligenti (smart), cioè contengano funzioni di intelligenza artificiale che migliorano le loro prestazioni.
Ambiente Intelligente
IoT somiglia molto ad AmI (Ambiente Intelligente): un ciclo di studi sulle nuove tecnologie integrate per collegare ogni attività umana in modo continuo passando da ogni ambiente a ogni altro. Ci cominciò a lavorare dal 1998 la Philips appoggiata a ISTAG, Information Society and Technology Advisory Group della Commissione europea, che ci investì 3,7 miliardi di euro. Lo scopo: definire scenari di informatica e comunicazione al 2020. Questi ambienti amichevoli verso l’utente (user-friendly), faciliterebbero le interazioni fra persone, circondandole con interfacce intuitive incapsulate negli oggetti e capaci di rispondere a ogni domanda degli utenti. L’intelligenza sarà inserita in ogni oggetto e canale di comunicazione. Sono quadri idillici, ma non si sono visti grandi successi. Per disseminare conoscenze, vanno generati contenuti su misura per i destinatari. È pericoloso supporre che conoscenza e intelligenza siano definibili in modo univoco. Se una questione è opinabile, vanno comunicati i termini del dilemma, non risposte perentorie. Le controversie sono vitali per il progresso culturale. La bio-diversità delle teorie va conservata, eliminando le pseudo-culture.
Taluno dice: «Ci serve ben di più, che solo più tecnologia». È vero, ma non basta facilitare incombenze banali. Lo scopo ultimo deve includere anche obiettivi socio-culturali significativi che giustificherebbero impegni così ambiziosi e che andranno definiti meglio. Si dovranno coinvolgere industrie, scienziati, comunicatori.
Offrirebbe queste funzioni (dal 2014?) Google Glass: sono gli occhiali di Google connessi in rete, contengono una fotocamera e un dispositivo che mostra uno schermo virtuale da 25 pollici “sito” a due metri dall’occhio. Si comanda a voce: «Fai una foto» e «Manda la foto a xxx@gmail.com». Google Glass obbedirà agli ordini e risponde alle domande:
«A che distanza si trova il Campidoglio? Mostrami una mappa». «Porta ritardo il mio volo per Milano e da quale gate parte»? «Chi era Carneade»? «Che cosa è l’oggetto che ho davanti»? Se ti risponde: «Il Colosseo» – forse lo sapevi già o te lo poteva dire un passante. Se risponde: «Una sedia» – allora conviene rivolgersi a consiglieri più affidabili.