Nuovi spazi di libertà e nuovi strumenti di democrazia diretta. La frontiera della costruzione del consenso passa attraverso il numero di contatti giornalieri e le strategie di social marketing o attraverso la trasparenza?
In questi tempi di profonda crisi economica, assistiamo a fenomeni quanto meno curiosi.
L’inefficienza dell’apparato pubblico e la conseguente crisi dell’attuale modello di rappresentatività politica hanno evidenziato l’esigenza di trovare nuovi modi per esprimere il proprio pensiero (e molte volte il proprio malcontento), al di fuori degli schemi classici di partecipazione alla vita pubblica. In questo senso, Internet potrebbe rappresentare – a detta di molti – la nuova frontiera per la costruzione del consenso e – se ben utilizzato – potrebbe – secondo taluni sociologi ed esperti di comunicazione – rappresentare un nuovo modello di democrazia diretta. Secondo altri – viceversa – tutto ciò evocherebbe preoccupanti scenari alla “Grande Fratello” di orwelliana memoria. Personalmente, non esprimo giudizi, ma mi limito a rilevare che l’idea della “democrazia del web” non è nuova ed esiste da quando c’è Internet. Certo, le cose sono un po’ cambiate da quando Internet era agli albori. Dai tempi di “The Well” (Whole Earth ‘Lectronic Link) – la prima comunità virtuale fondata nel web a metà degli anni Ottanta – a oggi – le cose sono un po’ cambiate. Allora, le parole d’ordine erano “libertà di espressione” e “creatività”. Il web era uno strumento nuovo che poteva essere utilizzato semplicemente per esprimere il proprio pensiero, senza necessariamente attendersi un ritorno in termini economici o di consenso politico. Ancora non si pensava che il numero di contatti giornalieri potesse essere direttamente proporzionato alla quotazione in Borsa o al successo elettorale (anche perché – a onor del vero – i numeri non erano ancora quelli attuali).
La democrazia del web
Oggi, l’idea della “democrazia del web” ha perso molti di quei connotati romantici e un po’ da “fricchettone new age” ed è decisamente più irreggimentata, più organizzata. Tende, insomma, a un qualche scopo: vendere, fare tendenza, influenzare il comportamento, organizzare il consenso.
L’uso dei nuovi device digitali – d’altronde – impone un cambiamento di linguaggio. Più diretto ma non per questo più affidabile: la dimensione “social” richiede una competenza comunicativa ben precisa e solo chi ne possiede gli strumenti diventa il “guru” del momento.
Assistiamo al proliferare di profili Facebook di leader politici, al continuo chiacchiericcio di tweet orientati all’intercettazione del maggior numeri di consensi, del maggior numero di voti potenziali. A volte, verrebbe quasi da pensare che un’idea o una proposta politica possano assumere una valenza diversa o migliore solo perché presentate attraverso il web, il che – alla fine – la dice lunga sulla bontà dell’idea o della proposta in sé. E il “popolo del web” sembra assecondare questa tendenza: in fondo cosa costa un “I like”?
Il web non è di per sé né buono né cattivo. E’ solo uno strumento di comunicazione di massa e in quanto tale può essere utilizzato per i fini più disparati. La differenza sta nei contenuti, a patto – quando si tratta di partecipazione alla vita pubblica – di non confonderli con tecnicismi da “content management”.
Peraltro, esistono anche molti altri modi – più neutri e più super partes – di utilizzare il web ai fini di una maggiore partecipazione democratica alla vita pubblica. Per esempio, sfruttandone non solo l’effetto moltiplicatorio (ossia, la possibilità con un solo click di parlare a milioni di persone in tutto il mondo), ma anche le funzionalità – per così dire – strettamente tecnologiche di analisi e di presentazione dei dati di fatto. Poi – una volta esposto il fatto nella sua assoluta evidenza – ciascuno sarà libero di trarne le conclusioni che più gli sembrano corrette. A questo riguardo, ho letto recentemente gli atti di un interessante seminario tenutosi nell’ambito del Geospatial World Forum che quest’anno si è tenuto a Rotterdam.
Il Geospatial World Forum – per chi non lo avesse mai sentito nominare – è probabilmente il più importante appuntamento mondiale dedicato alla “geospatial community” globale. È qualcosa di più di un semplice evento di settore. È l’incontro annuale di chiunque si occupi di GIS, di IT geospatial in genere e di diavolerie simili: non solo, quindi, produttori di tecnologie, geo-service providers e produttori di dati, ma anche e soprattutto agenzie governative, “policy makers”, università, centri di ricerca, agenzie spaziali…
Tutti coloro che a vario titolo si occupano dell’informazione geografica e delle relative tecnologie si danno convegno (quest’anno erano presenti i rappresentanti di oltre 70 paesi) e per quattro giorni di fila discutono sullo stato dell’arte e sulle possibili ricadute socio-economiche della crescente diffusione dell’informazione geografica digitale.
Fra i vari seminari e sessioni parallele, una in particolare ha catturato la mia attenzione:
“Open Geospending. Mapping the spending of Public Funds”.
Trasparenza e controllo
In sintesi, si trattava di una serie di raccomandazioni rivolte ai governi e alle comunità locali a utilizzare gli strumenti Web-GIS per mappare, rendere pubblici e tenere sotto controllo le dinamiche della spesa e degli investimenti di denaro pubblico. Una sorta di cartografia della spesa pubblica finalizzata a mappare su quali territori, con quali fini e soprattutto con quali esiti siano stati investiti i denari pubblici. Riprendo l’idea e provo a rilanciarla in una logica di trasparenza nella prassi amministrativa degli enti locali del nostro Paese.
Si potrebbero utilizzare gli strumenti Web-GIS per dare evidenza a tutti coloro che fanno parte di una certa comunità geografica sull’utilizzo di quattrini pubblici da parte degli amministratori locali. La mappa della spesa pubblica potrebbe essere – proprio come le mappe di Google che siamo abituati a utilizzare – libera, aperta e disponibile a chiunque la voglia consultare e potrebbe riportare la collocazione geografica dei siti, delle opere e delle infrastrutture che sono state oggetto di spesa pubblica con l’indicazione di quanti quattrini sono stati spesi nel tempo per quello specifico intervento. Potrebbero essere introdotte – proprio come nei sistemi informativi territoriali normalmente in uso presso alcune amministrazioni pubbliche – le tematizzazioni del caso coincidenti con l’ambito di azione delle diverse ripartizioni pubbliche: trasporti, strade e viabilità, sport e cultura, verde pubblico…. I dati di base potrebbero essere estratti direttamente dal bilancio comunale che è un atto pubblico e i singoli interventi potrebbero essere rappresentati graficamente a seconda della tipologia: puntuali se il finanziamento riguarda un singolo edificio e/o un certo impianto; lineari se si tratta di una strada o di una linea di trasporto; areali ove i quattrini siano stati spesi a beneficio di una certa porzione di territorio (per esempio un parco).
Geo-spending review
A quel punto, sarebbe facile per chiunque valutare con immediatezza l’efficacia dei quattrini spesi dai nostri amministratori pubblici. Dopo aver aspettato per ore e ore l’autobus potrei scoprire – per esempio – che il Comune ha appena speso una “barcata” di quattrini per comperare nuovi mezzi da adibire al trasporto pubblico locale di persone, oppure – dopo aver fatto una bella passeggiata nei giardini pubblici, fra siringhe e cartacce – potrei venire a sapere a quanto ammonta la spesa annuale per la manutenzione di parchi e giardini nella mia città e trarne – magari dopo aver confrontato il dato con quello di altre città – le opportune conclusioni. Insomma, credo che ci sarebbe da riflettere. D’altronde – in un paese civile – non si capisce perché solo i cittadini e le imprese debbano essere soggetti a continui controlli da parte di un fisco occhiuto e intransigente senza che sia data loro la possibilità di sapere come vengono poi realmente spesi i soldi derivanti dal gettito tributario. L’idea – naturalmente – non è nuova e non è mia. In altri paesi, è realizzata in modi e con finalità differenti, ma è oggetto di una raccomandazione circa le “best practices”, che dovrebbero essere implementate a livello europeo per il controllo della spesa.
Ultimamente, non si fa altro che parlare di controllo e razionalizzazione della spesa pubblica ai fini di un suo contenimento: perché – allora – non pensare anche alla “geo–spending review”?
Giovanni Maria Casserà, amministratore delegato di GESP – Sistemi Informativi Geografici