Non è impossibile perdere il proprio dominio sul Web, mentre è difficile rubare il marchio di un’azienda o quello di un prodotto
Fino a qualche tempo fa solo James Bond sapeva riconoscere il valore del nome e il pregio che questo fosse riconoscibile. Quel «il mio nome è Bond, James Bond» doveva suonare come lezione per Mediaset e per tutti quegli altri che si sono visti scippare il nome a dominio o che hanno davvero rischiato di perderlo.
Il mastodontico broadcaster di Cologno Monzese ha recentemente dovuto rinunciare ad avvalersi dell’identificativo Web “mediaset.com” che, scaduta la registrazione, è stato fulmineamente carpito dallo sconosciuto Didier Madiba, ora destinato a diventare famoso come il centravanti Pak-Doo-Ik che segnò il gol del tanto storico quanto drammatico 0-1 dell’Italia-Corea ai Mondiali del 1966.
Chi digita l’indirizzo “mediaset.com” si trova così dinanzi alla vetrina virtuale di un’azienda americana, la Moniker Online Services con sede oltreoceano. L’ufficio legale del colosso televisivo ha tentato il ricorso al Wipo Arbitration and Mediation Center, rivendicando il diritto al dominio perduto e facendo riferimento alla peculiarità del nome coincidente con il marchio aziendale. Chi ha dovuto giudicare ha ritenuto fiacche le argomentazioni addotte e ha spiegato che i termini “media” e “set” sono estremamente comuni nel contesto tecnologico e che il loro utilizzo non possa risultare esclusivo, facendo intuire che – se davvero era così importante – doveva essere interesse del gruppo editoriale intervenire tempestivamente per rinnovare la titolarità del dominio. Nel provvedimento che ha dato torto al “biscione” è tra l’altro sottolineato che tutto l’interesse per quel dominio non trova riscontro nella realtà dei fatti: il sito Web “mediaset.com”, infatti, non è mai stato utilizzato (l’azienda ha preferito “mediaset.it”) e sulla relativa homepage ha sempre troneggiato il classico “under construction”.
Quel che è accaduto non è fenomeno nuovo. Si chiama “cyber-squatting” e viene equiparato alla versione virtuale (“cyber”) dell’occupazione indebita di un immobile (“squatting”). È la versione digitale dell’insediamento di centri sociali o altre aggregazioni in fabbricati abbandonati o incustoditi. Non è una novità nemmeno l’ingegnerizzazione di una simile manovra perché qualche anno fa un imprenditore sardo fece un’operazione sistematica per migliaia di nomi e cognomi prefiggendosi scopi speculativi.
Un brivido blu lo ha provato anche un’altra realtà di spicco dell’orizzonte tecnologico. Qualcuno ha pensato che si trattasse di un pesce d’aprile, ma sarebbe arrivato in ritardo perché lo spavento è stato preso nella mattinata del giorno 2.
Possibile che la vicenda riguardi uno dei leader della computer security? Possibile. Per 23 lunghissimi minuti, chi ha digitato “www.checkpoint.com” ha inavvertitamente calpestato un invisibile tappeto elastico che l’ha fatto rimbalzare a una pagina inaspettata. Il visitatore è stato reindirizzato sulla homepage di “Network Solutions”, storico provider che è “domain hoster” dell’azienda israeliana.
Nessun intervento hacker, nessuna violazione dei sistemi di protezione: è bastata una manciata di minuscoli disguidi a far temere il peggio.
Una mail di rinnovo del dominio giunta a una casella di posta elettronica sbagliata e un piccolo disallineamento temporale del server DNS sono bastati per creare il disservizio e accelerare il ritmo cardiaco…
Il solo pensiero di non esserci, di mancare all’appello, di non esser trovati, è sufficiente a far prendere in considerazione il problema dell’identità inequivocabile, sicura, immodificabile.
Se nemmeno mezz’ora di assenza dal Web è sufficiente a far star male, come ci si può sentire al pensiero che il proprio nome di dominio fino al 9 aprile 2017 sarà utilizzato da una sconosciuta ditta di supporti magnetici con uffici e magazzino nel lontano Delaware?