Smart city, data management e la memoria del mondo
Un nuovo contratto sociale per mettere al centro i dati
Carlo Ratti nasce a Torino. Classe 1971, si laurea in Ingegneria Civile al Politecnico di Torino e studia in Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Nel 2002, fonda lo studio Carlo Ratti Associati e due anni più tardi crea il Senseable City Lab, mettendo insieme al Massachusetts Institute of Technology (MIT) un gruppo di ricerca composto da matematici, ingegneri, architetti, informatici e sociologi per esplorare quella che lui stesso chiama la «real-time city». Sull’onda dell’Internet of Things, si dedica al crescente sviluppo di sensori e di dispositivi elettronici portatili, insegnando agli studenti del MIT come lo scambio di dati e informazioni tra device e ambiente possa essere la base di un nuovo modo di progettare lo spazio urbano.
L’idea di progettare la città del futuro attraversa la storia della civiltà. In ogni epoca, la città riflette il rapporto tra l’uomo e la sua relazione con gli altri e con gli strumenti tecnici disponibili. Se la rivoluzione industriale ha trovato la sua espressione architettonica e la civiltà delle macchine ha avuto la sua esaltazione nella costruzione dei grattacieli sempre più alti, la rivoluzione digitale come cambierà il volto delle nostre città?
Le nostre case saranno in grado di comunicare con noi, mandarci segnali sul nostro stato di salute e informazioni sull’ambiente che ci circonda. Le separazioni tradizionali tra spazio fisico e spazio virtuale, tra luogo del lavoro e del tempo libero, tra alto e basso, tra centro e periferia saranno completamente ridisegnate. Così, periferico diventa sinonimo di tutto ciò che non è connesso – e centrale, tutto ciò che può essere collegato alla Rete.
Grazie all’ICT si possono utilizzare meglio le risorse delle città, per ridurre i consumi e far lavorare meglio le persone. Si può progettare la mobilità sulla base dei dati e rendere gli edifici più smart.
Alla malta e ai mattoni si sostituisce un impasto di fibre ottiche, capacità di calcolo, sensori e big data.
Questo impasto materiale e immateriale in gergo ha un nome e si chiama «smart dust».
Ma poiché gli esseri umani hanno subito la condanna del Terzo principio della Termodinamica, siamo sicuri che questa «polvere», per quanto «intelligente» non finirà per accumularsi sotto il tappeto?
Le nostre città si stanno già trasformando in computer estesi e le nostre case da unità storage stanno diventando produttori di dati disseminati da qualche parte sulla nuvola. La Rete diventa modello di progettazione e ogni access point diventa un punto di aggregazione di informazioni che spiegano stili di uso e bisogni. Estrazione, correlazione, archiviazione e interpretazione dei dati saranno funzioni integrate nei nuovi piani regolatori delle città.
«In un paesaggio popolato da sensori ubiqui e flussi costanti di dati – dice Carlo Ratti – il compito del progettista diventa allora trovare la soluzione creativa per produrre conoscenza utile o indurre comportamenti socialmente responsabili al servizio delle città». Il rapporto con i dati definirà il concetto di cittadini liberi. E dopo l’enfasi sull’experience di milioni di consumatori nel mondo che accettano di condividere dati e rete di relazione in cambio – più o meno consapevolmente – della migliore delle offerte possibili, nel futuro gli utenti dovranno fare i conti con le interferenze prodotte dalla «polvere intelligente» e saranno tanto più liberi quanto più saranno in grado di scegliere se e quali dati e informazioni condividere.
E forse, si comincerà a parlare di data monetization al contrario. Non solo. Il contratto sociale è alla base della nascita della società, che sostituisce le regole e i diritti all’insicurezza e all’instabilità dello stato di natura. Ma oggi che incertezza e sfiducia hanno scavalcato i recinti delle città e sono una costante della vita quotidiana – forse – c’è bisogno di un nuovo contratto sociale che metta al centro i dati. Nel 1965, in tempi non sospetti, prima della digitalizzazione ma anche prima dei floppy disk prodotti da IBM e del microprocessore Intel 4004, del Walkman di Sony e di Pac-Man, Italo Calvino scrive il racconto “La memoria del mondo”, in cui il misterioso protagonista, il signor Müller, trova il sistema di immagazzinare tutto il British Museum in una castagna e diventa parte di una organizzazione che ha lo scopo di salvare la memoria del mondo. Questa missione si trasformerà alla fine in un dramma. Forse, stiamo commettendo lo stesso errore e i dati finiranno per sommergerci? E siamo sicuri che la realtà non sia qualcosa di più della somma dei singoli dati che la compongono?
Data Manager: Che cosa è una smart city?
Carlo Ratti: Parafrasando Calvino, forse è solo la capacità di dare risposte ai bisogni dei cittadini. Ma per fare un esempio pratico, la città intelligente è come la monoposto che trionfa al Gran Premio di Monaco di Formula Uno. Un team può arrivare a vincere una gara affidandosi solo al talento del pilota. Ma per vincere il campionato, bisogna affidarsi alla tecnologia, all’analisi dei dati in tempo reale, alla telemetria e a decine di sensori, che mandano le informazioni in tempo reale ai computer dei box dove i tecnici possono analizzarle e intervenire. Le smart city funzioneranno così, gestendo in tempo reale la mobilità urbana, distribuendo le risorse energetiche e monitorando lo stato di salute dei cittadini.
Nelle città governate dai dati e dalla rete di sensori e access point, avremo ancora il diritto di passare inosservati o di essere dimenticati?
Il diritto all’oblio dovrebbe essere garantito come la libertà di circolazione. E tutti dovremmo avere la possibilità di sapere in ogni momento chi, come e quando ha accesso a tutti i nostri dati. Le scelte che facciamo oggi costruiranno le città che abiteremo domani.
Come sarà la città del futuro?
Quando la tecnologia è pervasiva, ha la caratteristica di svanire. Nella città del futuro, la tecnologia sarà invisibile e lascerà spazio alla bellezza e alla natura. Perché quando la tecnologia diventa agile e leggera, scompare del tutto e possiamo tornare a occuparci di altre cose importanti per la vita della città e dei cittadini. La computazione distribuita permette di gestire in modo efficiente e completamente nuovo la mobilità, la logistica, i consumi. E questo modello non è funzione dello spazio al quale si applica, ma può essere adattato a ogni tipo di aggregazione urbana. Le città saranno liquide, reattive e capaci di adattarsi alle esigenze di chi le vive.
E saranno anche più sicure?
Il tema della sicurezza dipende dalle persone e non dalla tecnologia. La sicurezza nasce da qualcosa di diverso e non coincide con la difesa a posteriori dei confini di un’azienda o del perimetro di una città. La sicurezza nasce dalla progettazione di città più sicure, in grado di risolvere i problemi alla fonte, senza reti di telecamere per monitorare ciò che succede. Io credo in una città che costituzionalmente non sia criminogena, che non generi divisione tra chi la abita, alimentando lo scontro e la violenza.
Chi sono i padroni dei dati?
I dati sono di chi li utilizza. I fini per i quali vengono utilizzati dovrebbero essere sempre dichiarati.
In una giornata di studio sul tema dei big data che abbiamo organizzato proprio al MIT, Noam Chomsky ha detto che i governi, ma anche Amazon e Google, utilizzano la migliore tecnologia disponibile per controllare, dominare e massimizzare il proprio potere. Il paradosso è che controllo e protezione sono due facce della stessa medaglia. Chi ci protegge è lo stesso che controlla i nostri dati. La conoscenza è sempre stata una questione di potere.
Oltre le regole, chi controllerà i controllori?
Questo è il problema di fondo, che non è tecnologico ma tragicamente umano. Se vogliamo costruire una civiltà dei dati dobbiamo mettere alla base il merito, la legalità, i risultati. La trasparenza si delinea come un requisito imprescindibile. Nel futuro, gli utenti dovranno essere informati sulla tipologia delle informazioni raccolte e sul loro utilizzo.
Esistono dati buoni e dati cattivi?
Non credo che i dati si possano dividere in categorie etiche. Possono essere utili allo scopo oppure occupare solo spazio.
La stampa 3D è l’alba di una nuova rivoluzione industriale?
Diventare un maker è semplice, bisogna avere solo un po’ di conoscenza di hardware e software. Si tratta di un fenomeno nato dodici anni fa, nel sottoscala del MIT e oggi diffuso in tutto il mondo grazie ai Fab Lab. L’Italia ha una grande opportunità di agganciare questo nuovo treno che sta partendo. Ma per capire in che direzione va il mondo, bisogna avere anche una visione a livello politico. Nel momento in cui la produzione si automatizza, animando i laboratori come le botteghe artigiane di una volta, non solo si democratizzano i processi produttivi, ma si creano le condizioni economiche per il rilancio della manifattura in Italia e in Europa.