L’anno è incominciato male per gli operatori di Tlc europei, tra svalutazioni, dimissioni, conti in rosso e in Francia un rapporto parlamentare d’urgenza realizzato in soli due mesi lancia l’allarme: la guerra delle tariffe rischia di distruggere la filiera e l’Europa non può pensare solo ai consumatori se vuol contare ancora nell’Ict mondiale
Fa un certo effetto andare a rileggere le previsioni e gli impegni che, nel marzo 2000, erano indicati con l’Agenda di Lisbona, nel pieno della bolla Internet, quando l’Europa si proponeva di divenire l’area mondiale a più elevata crescita grazie all’economia dell’informazione. L’orizzonte era il 2010, naturalmente prorogato con l’Agenda 2020, che nel frattempo ha visto evaporare, con i tagli dell’euro-budget, anche il kick-off dei 9 miliardi di euro voluti, nel disperato tentativo di superare lo stallo, dalla commissaria olandese Neelie Kroes, tra le maggiori responsabili dell’euro-disastro ICT. Nell’Unione, che riesce a salvare giusto l’agricoltura e – nell’hi-tech – un po’ di aerospaziale franco-tedesco con qualche briciola italiana (il progetto Galileo, doppione del GPS), emergono tutti i limiti di un’impostazione dell’Agenda Digitale, tutta orientata solo alla domanda e ai nuovi servizi. Del resto, prima di occuparsi di Agenda Digitale, Kroes era stata (2004-2010), la commissaria alla Concorrenza, succedendo a Mario Monti. Oggi, l’Europa brilla per i prezzi sempre più bassi e per il ruolo più marginale delle sue aziende Ict. L’ultimo segnale d’allarme è la rinuncia di René Obermann alla carica di numero uno di Deutsche Telekom (DT). Obermann lascerà – a fine anno – l’esercito di 230mila dipendenti (tre quarti in Europa) e 56 miliardi di euro di fatturato per guidare il cablo-operatore olandese, Ziggo, 80 volte più piccolo per numero di addetti, 40 volte per fatturato, ma “solo” 10 volte per capitalizzazione di Borsa, ma di sicuro più gratificante. DT è l’esempio frustrante di un attore ingessato dentro un settore con scarsa possibilità di movimento. Controllata in maggioranza relativa dallo Stato (32% tra Governo e banca pubblica KfW), così come France Telecom (27% statale), deve portare le reti, dove la pressione politica lo chiede, ma ha poca possibilità di manovra, dalle tariffe all’organizzazione. Obermann, qualche mese fa, aveva chiesto mano libera per mettere, invece della costosa fibra, la tecnologia vectoring sul già fortemente diffuso Vdsl, ma al pari del suo collega Patuano in Italia, attende risposta.
La filiera delle comunicazioni è a rischio
Se le difficoltà del settore colpivano prima i costruttori, oggi, la crisi colpisce con forza gli operatori. L’ultimo Mobile World Congress di Barcellona ha visto un medesimo segnale di affanno, a partire dagli interventi di Franco Bernabé, presidente di Telecom Italia e del GSMA, l’organizzazione internazionale degli operatori di telefonia mobile. L’Italia è un problema nel problema: in due anni il titolo di Telecom Italia ha perso il 50% (-20% DT) e i suoi azionisti devono svalutare gli asset, i maggiori operatori sono tutti con il segno meno anche e soprattutto nel mobile, dove il taglio delle tariffe di terminazione ha portato via qualche altro punto. Vodafone, che in Italia aveva – ancora un anno fa – una redditività invidiabile (Ebitda al 43%), in pochi mesi ha visto cambiare la lancetta del barometro. A giugno 2012, inaugurava la sua nuova mega-sede da 300 milioni di euro in grado di ospitare i tremila dipendenti dell’area milanese, a settembre il gruppo svalutava le attività per 7,4 miliardi di euro, due quinti delle quali, relative all’Italia. Ai primi di marzo, dopo due trimestri di ricavi in calo attorno al 10%, ecco la notizia: 700 tagli italiani. Wind, che negli ultimi anni è stata tra gli operatori mobili più brillanti, ha chiuso il 2012 con una flessione di tre punti, attribuita al calo delle tariffe di terminazione, mentre nel fisso, il management alterna segnali di disimpegno e richieste di “concorrere su basi di accesso paritarie” a una futura rete condivisa. Sempre sul fisso, gli analisti di Between avvertono: anche dove sono disponibili velocità più elevate sull’AdsL (20 Megabit), i clienti si fanno bastare i 7. Quindi: chi pagherà di più, per avere in futuro i 30, 50 o 100 Mega? Se in Germania se ne va il numero uno di DT e in Italia si discute di quanto reggerà il management attuale di Telecom Italia (intanto se n’è andato il numero uno dell’America Latina, mercato che a sua volta dà segnali di ingolfamento), la Francia non va molto meglio. A Parigi, tuttavia, sembra esservi almeno la consapevolezza della gravità di una situazione che si sta già ribaltando su tutta la “filiera”, concetto che sembra, invece, estraneo al dibattito italiano, anchilosato – com’è – sull’eterno braccio di ferro dello scorporo della rete, che ormai è pervaso di valenze politiche.
La svolta francese
Il tappo è saltato in Francia e l’elemento dirompente è stato l’ingresso, a inizio 2012, del quarto operatore mobile, Free, consociata del gruppo Iliad, che ha acquistato per pochi soldi una licenza che per anni nessuno voleva. Iliad l’ha pagata qualche centinaio di milioni di euro – invece dei miliardi pagati in precedenza dai concorrenti – e si è messa a fare una concorrenza tariffaria spietata, fino a 2 euro al mese per due ore di chiamate. I risultati sono stati disastrosi sui conti di France Télécom/Orange, Sfr e Bouygues Telecom. Tanto che a fine novembre è stata affidata in sede di Commissione parlamentare a una piccola task force la preparazione di uno studio sullo stato del settore. A febbraio, dopo una trentina di audizioni che hanno attraversato tutta la filiera, la relazione – preparata da due deputate di opposti schieramenti (socialista e UMP), ma di buona volontà e ottime conoscenze in materia di economia digitale – è arrivata all’Assemblea nazionale. E’ un rapporto choc (lo si può trovare all’indirizzo www.assemblee-nationale.fr/14/rap-info/i0704.asp) che, pur principalmente focalizzato sui temi delle reti mobili e sulla “rottura del quadro competitivo” dell’ultimo anno, ha due meriti. Il primo è quello di porre le telecomunicazioni al centro non solo di una prospettiva di generico “ammodernamento del Paese”, come avviene in Italia, ma di un quadro di politica industriale. Il secondo è quello di tornare a individuare una filiera. Il risultato è uno scenario che per gli addetti ai lavori non è una novità, ma che dovrebbe risvegliare la politica. Il prosciugamento dei ricavi degli operatori farà piacere ai consumatori, sottolinea il rapporto, ma finisce con il frenare gli investimenti, favorire i produttori low-cost, bruciare più posti di lavoro di quanti se ne creino, oltre a favorire la delocalizzazione di una serie di attività. Così, afferma il rapporto. “Mentre negli USA si pone uno stop all’ingresso massiccio dei produttori asiatici, invocando rischi per la sicurezza delle reti, l’Europa è divenuta il luogo di un violento scontro tariffario”, con “gli operatori europei che diversificano i loro acquisti e i produttori cinesi che mettono in atto una politica aggressiva di prezzi, mettendo sotto pressione i produttori “storici” . E aggiunge. “A rimetterci è anche la ricerca in Europa”. Non solo. Il rapporto, pur nei cauti giri di parole che la veste istituzionale impone, parla apertamente di prezzi praticati da Huawei e Zte “inferiori del 35% ai prezzi di mercato”, grazie anche a politiche di sostegno statale, in particolare “finanziamenti preferenziali”, anche se è difficile pensare che solo qualche punto dei tassi d’interesse possa giustificare questo divario. Dopo il contenzioso aperto tra gli editori e gli OTT (Google, Facebook e colleghi) e quello latente tra operatori e gli stessi OTT, che cosa ci prospetterà il futuro? Al Mobile World Congress di Barcellona sono emerse ancora parole per il consolidamento del settore, a cominciare probabilmente dal quadro nazionale. Ma un consolidamento degli operatori, sia esso societario o infrastrutturale, avrà come probabile effetto anche una pressione ulteriore sui produttori e – in questa ottica – un intensificarsi del braccio di ferro con i costruttori cinesi, Huawei in testa. Bruxelles è avvertita: deve dire se in materia, c’è ancora una politica industriale comune.