«Non abbiate paura»

Il coraggio di sapere e il coraggio di raccontare. La morte di Rita Levi Montalcini e il dovere dei giornalisti di cercare la verità. Il saluto di Data Manager alla scienziata

Rita Levi Montalcini è stata una donna eccezionale che rimarrà nella storia del nostro Paese, non solo per le sue ricerche che le valsero il Premio Nobel per la Medicina nel 1986, ma soprattutto per l’esempio di vita e per il suo impegno civile. La morte è un destino comune. Arriva presto o tardi per tutti – uomini e donne – e non è una questione di merito. Per qualcuno arriva come premio o liberazione. Per altri può essere un trionfo.

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La morte della scienziata ha avuto una eco mediatica fuori dal comune, che impone qualche riflessione. Sulla Rete si sono rincorse le sue frasi celebri, in un crescendo di “copia e incolla”, Facebook in testa. Twitter – come sempre – ha anticipato la notizia ufficiale. Data Manager, a vent’anni dal Nobel, ha incontrato e intervistato Rita Levi Montalcini nel maggio del 2006, in occasione della prima edizione di BergamoScienza.

Quando abbiamo appreso la notizia della sua morte ci siamo interrogati sull’opportunità di uscire subito con un editoriale dedicato. Poi – mentre l’onda dell’emotività cresceva – e la valanga dei messaggi si riversava sulla Rete – abbiamo preferito aspettare, non per spirito di contraddizione o cinismo. Abbiamo deciso di prenderci un po’ di tempo per riflettere in silenzio, del resto la notizia era già stata data e non c’era più nulla da aggiungere.

A distanza, di pochi giorni, dopo che la frenesia emotiva era cessata, vogliamo fare alcune considerazioni nello stile di Data Manager.

Dopo venti anni di nani, principesse e ballerine, la capacità di provare empatia per una signora che ha dedicato la propria vita alla ricerca scientifica, indossando abiti eleganti e castigati, è un segnale che fa sperare per il futuro. L’istinto condizionato a reiterare messaggi di qualunque genere – sull’onda dell’emotività e della velocità che non lasciano spazio all’approfondimento critico – però – porta dentro di sé il tarlo della deriva populista e plebiscitaria e non si può considerare un segno positivo di modernità, anche quando sono i social network a fare da cassa di risonanza.

Forse, accanto alle dichiarazioni e alle note stampe di politici e rappresentanti della società dell’informazione, avremmo gradito di sentire, anche qualche voce più critica, proprio nello spirito della ricerca della verità, cui Rita Levi Montalcini – con metodo scientifico – ha dedicato la sua intera esistenza. Forse nei prossimi giorni, quando saranno rese note le sue ultime volontà, potremo sapere finalmente la verità sul caso Cronassial, che resta un’ombra, che la scienziata in vita, non ha mai voluto raccontare fino in fondo.

Certo, se il fine giustifica i mezzi, Rita Levi ha fatto molto per i giovani, le donne e la ricerca scientifica in Italia. Il suo ricordo e il suo valore non potranno essere scalfiti anche quando, fra qualche anno, qualcuno farà piena luce su alcuni fatti, che ancora oggi restano difficili da raccontare.

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Vi riproponiamo l’intervista che Rita Levi Montalcini volle rilasciare nel 2006 a Data Manager per la rubrica Fuori Pagina (giugno 2006).

Rita Levi Montalcini e i nuovi “magellani”

Il progresso scientifico al servizio di un mondo migliore.

«Il nostro Paese continua ad avere un deficit di competitività e l’urgenza vera è quella di creare un circolo virtuoso tra ricerca, innovazione e impresa»

A distanza di quasi cinque secoli, dall’impresa di Ferdinando Magellano, che con la sua flotta tracciò la rotta commerciale per le Indie circumnavigando il Globo, la rivoluzione digitale ha moltiplicato le rotte nello spazio sconfinato della Rete. Il premio Nobel, Rita Levi Montalcini affida alle nuove generazioni, i nuovi “magellani”, il compito di sfruttare al meglio gli effetti dello sviluppo tecnologico, ponendo alcune questioni fondamentali sul concetto stesso di progresso scientifico e tecnologico. («Un mondo migliore è possibile soltanto se non sarà più eticamente accettabile la convivenza di una minoranza di super-privilegiati, a fronte della dilagante sofferenza della maggioranza del genere umano».

Ho incontrato Rita Levi Montalcini, in occasione dei lavori del comitato BergamoScienza (di cui è presidente Onorario). In quell’occasione, le sue parole mi avevano colpito. Nell’auditorium del seminario vescovile di Bergamo, accanto al celebre neurologo e scrittore Oliver Sacks, di fronte a una platea gremita di giovani, aveva esordito dicendo: «Non abbiate paura di essere voi stessi». Quelle parole, pronunciate con una voce chiara e senza tempo, credo siano rimaste impresse nella memoria di tutti. Rita Levi Montalcini è il simbolo di una vita dedicata alla ricerca. Chi più di lei può personificare il motto kantiano “Sapere Aude”? La sua vita è sempre stata improntata proprio alla luce di quell’obbligo morale. «Il coraggio di servirsi del proprio intelletto».

Rita Levi Montalcini. Donna e scienziato. Donna per un tiro del destino («Trovavo umiliante essere nata donna»). Scienziato per vocazione. Una vocazione, quasi religiosa. Nasce a Torino il 22 aprile del 1909. All’età di vent’anni entra nella scuola medica dell’istologo Giuseppe Levi. Inizia così gli studi sul sistema nervoso che avrebbe proseguito per tutta la sua vita. Si laurea nel 1936. Costretta dalle leggi razziali del regime fascista, nel 1938 emigra in Belgio. Nel 1947 accetta l’invito a proseguire le sue ricerche al dipartimento di zoologia della Washington University (nello stato americano del Missouri), dove rimane fino al 1977. Nel 1952 scopre il fattore di crescita nervoso noto come NGF. Per circa trent’anni, si dedica alla ricerca su questa molecola proteica che le vale nel 1986 il Premio Nobel per la medicina insieme all’americano Stanley Cohen.

Qual è il suo rapporto con la tecnologia?

Ritengo che quando la tecnologia ha come fine l’uomo sia sempre positiva. Ho sempre lavorato tanto nella mia vita. Un tempo, mi alzavo alle quattro o alle cinque, ora un po’ più tardi. A causa dei problemi alla vista, invece di scrivere registro. Non leggo quasi più e non guardo la televisione. Ma meglio aver un buco negli occhi che nel cervello. Non le pare?

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Quando ha deciso di dedicarsi alla ricerca?

Ricordo che quando avevo vent’anni, volevo andare in Africa a curare i lebbrosi.

Poi mi sono dedicata alla ricerca scientifica. Ho cominciato a dedicarmi allo studio del sistema nervoso per un fatto più estetico che scientifico. Da giovane ero affascinata dalla bellezza della cellula. Oggi, grazie alla Fondazione Levi Montalcini sono in parte ritornata al mio progetto giovanile. Abbiamo consegnato 800 borse di studio a ragazze africane meritevoli. Il futuro del loro Paese è nelle loro mani.

Qual è il suo giudizio sullo stato della ricerca in Italia?

Non mi piace ripetere cose che sono state già dette. La realtà è che in Italia bisognerebbe mettere mano al sistema dei finanziamenti. I fondi sono distribuiti a pioggia e non sul merito di progetti già definiti. La riforma Moratti non ha cambiato le cose…

L’Italia è un Paese povero di petrolio e materie prime, ma ricco di potenzialità creative…

Questo è vero anche se non in tutti i settori è così. Spesso l’industria italiana preferisce importare prodotti dall’estero, piuttosto che rispondere con un’offerta nuova collegata ai progressi della scienza e della tecnologia. Il nostro Paese continua ad avere un deficit di competitività e l’urgenza vera è quella di creare un circolo virtuoso tra ricerca, innovazione e impresa. Bisogna però anche comprendere che progresso non significa solo comfort e migliore qualità della vita, ma soprattutto migliore utilizzo della conoscenza.

Scienza e tecnologia sono le due facce della stessa medaglia. Eppure nel corso del secolo scorso si è verificato uno scollamento…

La tecnologia ha acquisito una egemonia rispetto alla scienza. È vero. La tecnologia ha apportato cambiamenti culturali e sociali, spesso senza una riflessione di tipo etico.

Ma vogliamo incolpare la scienza di questo fatto? La scienza ha come principio la ricerca della verità. In realtà l’unica minaccia vera è rappresentata dall’uomo. Non sono pessimista, ma non posso che costatare che ci sono un sacco di persone sbagliate nei posti sbagliati. Ciò che risulta scientificamente possibile, non sempre è lecito sul piano etico. La ricerca deve andare avanti, perché non si può mettere il lucchetto al cervello umano. Ma le applicazioni tecnologiche della ricerca scientifica devono essere tenute sotto controllo…

All’inizio del Terzo Millennio gli scienziati rivendicano il diritto di intervenire nel dibattito sui valori, in passato esclusiva competenza della filosofia e della religione…

La soluzione dei problemi che affliggono il genere umano spetta in pari misura a tutti gli uomini, il rischio sarebbe quello di una tecnocrazia. La vera questione è quella di integrare la scienza all’interno di una cultura che ponga, al centro, l’uomo.

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La conoscenza è per definizione un bene. I rischi e i poteri connessi alla conoscenza derivano dal suo utilizzo. Controllare non significa proibire.

Lei si definirebbe apocalittica o integrata?

L’informatica ha potenziato la capacità degli scienziati in ogni ambito della ricerca e ha reso possibile lo scambio delle notizie e delle informazioni in tempo reale, di là dello spazio fisico del proprio laboratorio. Questo scenario apre nuovi orizzonti di collaborazione nella comunità degli scienziati è può rappresentare un progresso per l’intera umanità. L’impatto e lo sviluppo delle telecomunicazioni, le applicazioni tecnologiche come la telemedicina, il telelavoro, l’e-government, l’e-learning, il commercio elettronico possono essere un antidoto contro chi guarda alla tecnologia con troppo pessimismo…

Da scienziata, esiste una reale analogia tra cervello umano e computer?

Nonostante la velocità di calcolo e i software sempre più sofisticati di cui può essere dotato un computer, dal punto di vista strutturale e funzionale, l’intelligenza umana non può essere paragonata a quella di una macchina.

Una vita dedicata alla ricerca. Qualche rimpianto?

La ricerca è stata la mia vocazione laica. Non ho mai pensato né di sposarmi, né di avere figli. In qualche modo ho sempre trovato umiliante essere nata donna. Non ho mai ceduto al ricatto della paura della solitudine. La solitudine può essere un’ottima compagna di vita se non la si teme e la si impara a conoscere…

Dal ‘47 al ‘77 ha vissuto e lavorato in America. Ha mai pensato di restarci?

Assolutamente no! Devo molto agli anni vissuti in America. Ma quel mondo così materialistico non mi appartiene. In America si lavora bene e si vive male. In Italia si vive meglio, ma si continua a lavorare male. Ma ho fiducia che per le nuove generazioni le cose cambieranno…

Quando non lavoro cosa fa?

Lavoro. Una volta ero anche una brava cuoca. Non in senso tecnico, ma riuscivo a spacciare, a molti colleghi d’oltreoceano, una ottima cucina piemontese di pura invenzione. Ultimamente ho deciso di seguire più da vicino gli impegni che la mia carica di senatore mi impone…

Lei è religiosa?

Sono diventata ebrea con le leggi razziali, per il resto sono sempre stata una libera pensatrice. Le religioni con le loro verità incontestabili sono un freno al pensiero…

Qual è il segreto per una vita longeva come la sua?

Totale disinteresse verso se stessi. Dedicarsi completamente a migliorare il mondo in cui viviamo è un’attività che ti riempie la vita e ti mantiene giovane.

A chi sente di dovere qualcosa?

Devo molto alla mia famiglia. Professionalmente ai maestri che ho incontrato. Ai collaboratori che mi stanno vicino. Ma devo molto anche a me stessa.