Ci si interroga sempre più spesso su quale potrà essere l’evoluzione del Cloud in ambiente enteprise
Su questo aspetto si confrontano due teorie. Da una parte quella che potremmo dire evoluzionistica, una sorta di processo darwiniano dell’informatica che dovrebbe progressivamente traslare investimenti e risorse on-site di derivazione tradizionale in ecosistemi tecnologici governati dal paradigma di applicazioni e servizi a consumo e on-demand implementati attraverso logiche di cloud pubbliche e private. Alla base di questa teoria, la convinzione che il processo di virtualizzazione di massa avviato presso la gran parte delle strutture IT aziendali, costituisca di fatto un passaggio intermedio propedeutico alla trasformazione globale delle risorse così come definito dal cloud.
Dall’altra una teoria che individua nelle nuove logiche di servizio una tendenza del tutto separata da quella che è stata finora l’informatica tradizionale. Una teoria del big-bang tecnologico che promette erogazione e fruizione di risorse alternative a quella attualmente esistenti. Se vogliamo esiste pure una terza teoria, quella che potremmo definire di tipo separatista, ovvero un processo attraverso il quale pezzi, anche importanti, di servizi e applicazioni non-core, sono progressivamente esportati in territorio cloud senza per nulla intaccare il vero capitale core informatico delle aziende.
Tutto questo per dire che se nella sfera consumer, aziende come Google, Yahoo!, Facebook, Amazon, Apple hanno ormai ampiamente dimostrato come il cloud sia diventato patrimonio comune di noi tutti, mentre nella sfera aziendale l’esito dell’innovazione è ancora incerto. Secondo gli analisti sembra verosimile che le grandi aziende manterranno intatti i propri asset tradizionali, si pensi per esempio all’installato mainframe delle grandi istituzioni finanziarie, ma si accosteranno al cloud per tutta una serie di applicazioni e servizi satelliti, tra questi quelli che hanno attinenza con il trattamento di grandi volumi di dati, ovvero quel fenomeno comunemente definito come Big Data, così come tutti quei servizi di rete che hanno che fare con il lavoro collaborativo ed esemplificati dalla comunicazione unificata, grazie alla quale le aziende sono nella condizione di superare i limiti della tradionale posta elettronica per accostarsi ad applicazioni di video conferencing e collaboration.
Guardando anche alle startup che nascono sull’onda della progressione cloud, ci si rende conto che gli investimenti tendono a puntare a soluzioni che non vanno a sostituire le applicazioni core, ma servizi complementari che rispondono a esigenze sinora inevase, in particolare nell’ambito dello storage. Probabilmente non esiste una netta sperazione nel modo in cui potrà evolvere il cloud nella dimensione azienda. Le tre diverse teorie qui menzionate – darwiniana, big bang, separatista – si incroceranno le une con le altre, soprattutto perché l’approccio agli investimenti futuri sarà condizionato dalla storia originale e specifica delle singole aziende. Tuttavia sembra sempre più allontanarsi l’idea di un cloud che metabolizza il DNA informatico aziendale.
Possiamo davvero rappresentare il cloud, così come avvenuto in passato in presenza di una mutazione centralizzata-distribuita delle risorse IT, come evoluzione fisiologica di un ambiente virtualizzato?