La tavola rotonda – prima di una serie di incontri che Data Manager intende promuovere per coinvolgere nella narrazione delle tecnologie anche il mondo “demand side” – per analizzare il modo in cui le aziende investono in ICT e il ruolo del CIO come cerniera del cambiamento
Un confronto aperto tra i CIO di importanti aziende e il mondo dei fornitori ICT per individuare le aree calde dell’investimento tecnologico in Italia. Ma non solo questo. Alla tavola rotonda organizzata da Data Manager in collaborazione con UniCredit Business Integrated Solutions, sono state affrontate le nuove filosofie infrastrutturali che ruotano intorno al data center di proprietà, la sua virtualizzazione, la crescente spinta verso il cloud ibrido. Con l’aiuto di Aused, storica associazione dei responsabili IT, sono stati analizzati la spesa in infrastrutture e soluzioni e il ritorno di tali investimenti in termini di business. A fronte di questi dati, Data Manager ha sollecitato pareri sulla performance e il rapporto cost/benefit delle tecnologie, chiedendo ai partecipanti di esprimersi sull’allineamento tra queste ultime e i rispettivi obiettivi di business.
Lo scopo è da una parte individuare gli eventuali punti di corrispondenza con le simmetriche strategie di marketing e vendita delle aziende fornitrici o – viceversa – i punti in cui le reali aspettative del cliente non vengono indirizzate appieno; dall’altra, si tratta di chiarire meglio le attuali strutture di costo dell’informatica, il loro impatto sui costi complessivi aziendali, eventuali spazi di riallineamento rispetto alle aspettative di “risparmio” conseguibili e soprattutto il rapporto tra gli investimenti tecnologici e i loro effetti in termini di razionalizzazione o la capacità e i ruoli di governo dell’innovazione.
Ai partecipanti alla discussione, Data Manager ha chiesto di analizzare una serie di tematiche, partendo dalle aree di servizio, o i nuovi progetti per i quali oggi le rispettive aziende richiedono una copertura tecnologica. A questa prima disamina, si è aggiunta una discussione sulle strategie legate al data center e alle tendenze verso il cloud computing e i modelli privato e ibrido, specie in relazione con le passate attività di outsourcing delle infrastrutture e dei servizi orientate alla trasformazione dai tradizionali investimenti in capitale ai cosiddetti costi variabili dell’informatica.
Spesa IT: CIO a confronto, il video degli interventi durante la tavola rotonda #newITspending
Un breve accenno, in virtù della presenza al tavolo di figure con responsabilità finanziaria, è stato fatto anche riguardo ai nuovi strumenti software di corporate performance management e della business intelligence considerati come ideale terreno di convergenza tra efficientamento, prestazioni e la competitività delle operazioni aziendali.
In apertura della tavola rotonda, Carlo Delia, consulente di Aused, ha presentato i risultati più salienti dell’inchiesta che l’associazione conduce da diversi anni sui costi dell’informatica nelle aziende italiane. L’associazione è nata nel 1964 per riunire i responsabili dei sistemi informativi delle aziende e oggi vanta circa duecento membri. All’indagine, molto dettagliata, partecipano circa trenta delle centocinquanta imprese associate, «un campione piccolo» – ha riconosciuto Delia – ma rappresentativo soprattutto dei diversi ambiti industriali nel manifatturiero e di quel tessuto medio-imprenditoriale in cui si identifica il grosso dell’economia Italiana. «Tanto che i risultati ottenuti sono perfettamente allineati con quelli rilevati da analisi più estese, come quella effettuata dagli Osservatori del Politecnico di Milano».
Che cosa dicono le cifre?
«La curva del rapporto tra costi dell’ICT e fatturato ha una punta intorno al valore del 2,5% e una punta inferiore allo 0,5%. Una forte variabilità, perché alla domanda su quanta parte dell’operatività aziendale viene coperta dall’informatica – la risposta varia da 80 al 100% – dato abbastanza sorprendente, considerando che la quota parte del fatturato è così variabile. Ci sono evidentemente fattori di tipo qualitativo ma anche organizzativo, gestionale». In media, il campione Aused spende circa l’1,2% del fatturato in ICT, una spesa su cui pesano in misura preponderante i costi di hardware e software (36,2%) e del personale (35,8%). Da notare, sottolinea Delia, la riduzione della voce di spesa associata alle attività di outsourcing e cloud computing, che passa dal 15,1% dello scorso anno all’attuale 13,4%. Un altro dato interessante riguarda la suddivisione qualitativa che alloca il 68% della spesa alle attività di gestione corrente e manutenzione del patrimonio ICT, «mentre circa il 26% degli investimenti è associato all’innovazione intesa come nuovi progetti. Quasi inesistente, almeno nel campione in esame, risulterebbe la spesa nella cosiddetta transformation». Complicato, anche individuare l’entità media delle risorse destinate in generale all’innovazione e alla ricerca e sviluppo. «Nella nostra indagine – ha infine osservato Delia – abbiamo chiesto di precisare i costi gestiti direttamente dai responsabili dei sistemi informativi, in quanto molto spesso quelli associati all’R&D vengono gestiti autonomamente, fuori dal bilancio dei CIO».
Nuovi modelli di business
Un primo commento ai risultati presentati da Aused è venuto da Paolo Chiaverini, responsabile della divisione Commercial Banking Mature Markets di UniCredit Business Integrated Solutions, per il quale sarebbe opportuno approfondire l’analisi della spesa anche in funzione dei sottosettori di appartenenza a causa delle forti differenze che possono caratterizzare gli investimenti tecnologici a seconda delle attività. «UniCredit è una banca commerciale – ha detto Chiaverini – una struttura dotata di una rete di negozi che in pratica vendono servizi informatici. Non ci riconosciamo nei trend appena definiti perché – se a fronte di fatturati che rimangono piatti, insieme alle marginalità del business – l’investimento in informatica è molto cresciuto, a livello di gruppo tra il 10 e il 15%: un rialzo legato proprio alla trasformazione necessaria per la digitalizzazione del nostro business e alla migrazione verso canali non fisici». Tra i driver di cambiamento, Chiaverini ha citato, insieme alla multicanalità e alla digitalizzazione, anche la trasformazione dei modelli di business di un gruppo che da puro fornitore di servizi bancari e crediti ai consumi diventa anche fornitore diretto, nei punti vendita fisici, di beni di consumo. Carlo Delia di Aused ha riconosciuto che nell’associazione non si trovano gruppi bancari e anche il settore del retail è rappresentato da aziende tradizionali: «In questo settore, la spesa in IT cresce dove aumenta la vendita attraverso canali Internet».
Deficit di trasformazione
A parte dunque i comparti e le eccezioni individuate da Chiaverini, la spesa media italiana in ICT langue ormai da anni intorno alla magra soglia dell’1% del fatturato aziendale, un livello che comunque si mantiene costante, pur considerando che le tecnologie dovrebbero costare di meno. Anche se secondo Delia quest’ultima considerazione potrebbe valere fino a un certo punto («c’è stata piuttosto una trasformazione nel modo di spendere, il personale affidato al CIO, per esempio, è aumentato di un terzo negli ultimi anni e l’incidenza dei costi di manutenzione è elevata, forse a causa dell’invecchiamento degli apparati installati»), si tratta pur sempre di una quota di investimento davvero minima, sicuramente inferiore a quelle cui sono abituate le economie europee. A proporre un confronto con la spesa informatica di altre nazioni è Claudio Monzini, country manager italiano di Serena Software, specialista di soluzioni per l’application lifecycle management. Monzini, che si occupa anche del mercato spagnolo, ha confermato la sensazione di arretratezza dello spending tecnologico italiano. «Siamo indubbiamente indietro, non rispetto alla Spagna. Ma è certo che siamo molto indietro nell’implementazione di soluzioni che rendano più operativa la parte di processo. In Germania, Regno Unito e Francia, le nostre filiali affiancano molte aziende impegnate nel cosiddetto “DevOps”, attivando quelle procedure che finalmente sono in grado di collegare lo sviluppo del software alle fasi di produzione». Come dire – ancora una volta – che la spesa resta ferma a causa di un deficit di trasformazione.
Le dimensioni contano
A questo proposito, l’analisi di Paolo Ciceri, direttore dei sistemi informativi di La Rinascente, è – se possibile – ancora più pessimista. «Nel settore retail, siamo indietro per un fattore che vale due, tre o addirittura quattro e se andassimo ad analizzare gli investimenti in R&D – non mappati da Aused – forse saremmo messi peggio. Un altro punto che emerge a mio parere è il fattore dimensionale. Un’azienda da un miliardo di fatturato in Italia è molto grande, ma diventa quasi piccola all’estero. Oggi, per fare trasformazioni importanti occorrono investimenti cospicui e un’azienda piccola non riuscirebbe a incidere sul cambiamento neanche investendo il 3% di fatturato». Massimo Pernigotti, CIO di Edison, haaggiunto però un elemento qualitativo alle osservazioni quantitative di Ciceri. E confermando la percezione del collega, Pernigotti ha osservato che le aziende europee sono più attente e investono in innovazione, spesso destinando più persone alla gestione di questi investimenti. Nel gruppo Edison, ha detto Pernigotti, si registra una stabilità degli investimenti come frutto di due fenomeni contrapposti: «Da un lato, l’uso della tecnologia come strumento di trasformazione dei processi specie in ambito commerciale e retail, ma non solo. Dall’altro, la necessità di finanziare la trasformazione con una pressione sull’efficienza. Le due cose hanno portato Edison a un budget ICT leggermente mutato nel corso degli anni, ma generalmente dello stesso ordine di grandezza».
Cultura driver del cambiamento
D’accordo con Pernigotti, anche Giancarlo Veltroni, che al tavolo organizzato da Data Manager rappresenta il mondo dei responsabili delle finanze aziendali in qualità di CFO di Randstad e di vicepresidente della associazione Andaf in Lombardia. L’invito del manager è stato quello di evitare eccessive generalizzazioni in una fase di cambiamento in cui l’investimento rappresenta una priorità assoluta in determinati tipi di impresa ed è molto influenzata dalla visione dimostrata dal management. «Nell’ottica della trasformazione, l’investimento fa parte del vantaggio competitivo» – ha affermato Veltroni. Lo dimostrano, secondo il Cfo, sia il fatto che nella sua azienda riveste anche un ruolo di responsabile dell’IT sia il fatto che i concorrenti di Randstad imitano il provider di servizi di lavoro interinale in investimenti che riguardano aree come «la digitalizzazione, il cloud computing e il mondo dei device mobili». Pesa, sulla decisione di investire non solo una questione di dimensione, ma anche di cultura complessiva.
Il valore dell’outsourcing
Un altro trend che l’indagine Aused ha messo in risalto è la contrazione delle curve di investimento in progetti di outsourcing, che sembra secondo Delia aver raggiunto livelli asintotici, per i quali i vantaggi in termini di costo non vengono più percepiti dalle aziende (sebbene l’esternalizzazione continui a comportare altri vantaggi, per esempio sul piano delle risorse umane e dei costi di personale). Luigi Pellegrini, direttore centrale operations di Lombardia Informatica, la società che accorpa l’erogazione di tutti i servizi informatici “consumati” dalla Regione Lombardia e dalle sue diverse entità, ha espresso un parere molto preciso al proposito. «Lombardia Informatica ha una componente di outsourcing molto elevata, la maggior parte dei servizi sono esternalizzati tramite gara e la nostra è una attività di progettazione prima e di gestione e controllo in seguito. In questa accezione, il valore di outsourcing è molto elevato». Quanto ai costi, secondo Pellegrini, a fronte della richiesta di una politica di efficientamento, la riduzione degli stanziamenti in ICT in Lombardia è percentualmente meno cospicua rispetto ai tagli richiesti oggi dal Governo sulle spese generali delle regioni. «Bisogna riconoscere che la Lombardia ha sempre creduto nell’ICT e noi cerchiamo di rispondere innovando sul “nexus of forces” definito da Gartner Consulting: cloud, mobile, social e big data».
Il duopolio dell’IT
Alla discussione sui costi si è agganciato l’intervento di Massimo Messina, head of Global ICT di UniCredit. Ricordando come circa due anni fa UniCredit ha affrontato un percorso di esternalizzazione molto rilevante, uno dei più ambiziosi in Europa, Messina ha voluto richiamare l’attenzione su una diversa prospettiva in tema di costi e investimenti, sottolineando come l’IT aziendale sia molto diversa rispetto all’esperienza monolitica del passato. «Oggi, abbiamo una informatica gestionale classica fortemente incentrata su efficacia ed efficienza, completamente reattiva rispetto al business. Poi c’è una IT trasformazionale che vede i ruoli invertiti, dove la tecnologia diventa proattiva e spesso dice al business che cosa fare. Questo duopolio vede ovviamente criteri diversi di allocazione dello spending e valutazione». Sull’It più innovativa, il peso della R&D si fa sentire maggiormente e la capacità di innovare, non solo nell’uso delle tecnologie ma anche sul piano più organizzativo, è differenziante. «C’è poi un altro aspetto che riguarda la maggiore variabilità dei costi. In passato, le aziende erano condizionate da “moloch” che comportavano periodi di ammortamento su cui tutti noi eravamo ingessati. Un esempio per tutti è l’investimento per gli adeguamenti all’anno 2000. La variabilità dei costi attuale implica molta più flessibilità nell’adattarsi a condizioni di mercato fluttuanti e a sua volta implica una governance dell’IT diversa, più illuminata».
Verso una nuova governance
L’intervento di Messina è stato subito raccolto da Francesco Maselli, direttore tecnico di Software AG, per rilevare con un certo ottimismo la presenza di strumenti gestionali indirizzati al controllo delle modalità di spesa e l’interesse che tali strumenti suscitano anche in Italia. «Con le tecnologie esistenti è possibile capire come governare le fasi di riduzione della spesa, misurando con precisione dove si spende e quali processi di reale innovazione siano legati agli investimenti fatti, arrivando anche a valutare l’impatto della singola applicazione o sistema sui processi di business». Le soluzioni analitiche di provider come Software AG, rappresentano una crescente attrattiva per i clienti aziendali e possono diventare uno strumento di navigazione che permette di indirizzare meglio i punti in cui occorre tagliare e liberare risorse per il cambiamento.
Spesa IT: la parola ai players del mercato
L’IT a due velocità
Il tema dell’IT a due velocità suscita diversi interventi sulla trasformazione e i suoi tempi. Paolo Fila, CIO di Citterio, ha evidenziato infatti come all’interno della sua azienda la priorità è legata ai tempi di implementazione dei cambiamenti piuttosto che all’entità del risparmio ottenuto .«Probabilmente un terzo dei nostri investimenti è legato ai progetti di cambiamento, ma il mio AD chiede soprattutto certezza nelle date di realizzazione». La dualità di cui parla Messina ha piuttosto, secondo Fila, una ricaduta anche sul diverso ruolo che il CIO deve assumere. «Una figura che deve fungere da traino, da driver del business e non da freno – ha esortato Fila – richiamando la necessità di coinvolgere i responsabili tecnologici nelle decisoni del board».
Marco Campi, CIO del Gruppo Marcegaglia, ha illustrato brevemente il piano di investimento che ha portato il gruppo dell’acciaio ad ampliare le piattaforma SAP ben oltre i confini dell’ERP. «Il driver – ha spiegato Campi – è l’individuazione di tutte le aree di miglioramento che riguardano tutta l’azienda». Per Campi, anche in una realtà molto articolata come Marcegaglia, un contributo molto importante è dato dall’aspetto di riorganizzazione interna. «Con una ventina di aziende partecipate, la spesa si riduce se è possibile dare una risposta più uniforme in termini di copertura amministrativa-finanziaria». Non solo. La conoscenza dei processi e dell’organizzazione, sia per Fila sia per Campi, deve permeare le relazioni tra IT e business: le figure apicali devono favorire un maggior scambio di competenze e sarebbe molto utile costruire dei tavoli “concertati” per condividere insieme le strategie.
Questione di feeling
Anche una realtà medio-piccola del settore agroalimentare come Sedamyl si inserisce nel dibattito. Aldo Ceccarelli, CIO della società, ha sottolineato l’aspetto critico della variabile temporale, spiegando che il contesto in cui l’azienda si trova a operare è determinante. Il fattore tempo, soprattutto in presenza di risorse di investimento limitate, può fare la differenza sulla felice conclusione dei processi di rinnovamento tecnologico. «Certe scelte dipendono però anche dalla qualità del rapporto che il CIO ha con la proprietà» – ha spiegato Ceccarelli e il suo non è stato l’unico richiamo alla fiducia, quasi al “feeling” che il top management deve avere con il proprio responsabile IT. Un tema molto caro anche al CIO di La Rinascente, Ciceri, per il quale è fondamentale, per sé e i suoi colleghi, lo sviluppo di «grandi doti di comunicazione».
L’idea della condivisione si riflette anche nelle modalità con cui, secondo Paolo Chiaverini, Ubis ha affrontato il recente intervento sui siti di Internet banking di tre filiali UniCredit, applicando «in modo integralista» i criteri dello sviluppo “agile”: «Tutti chiusi in una stanza, lavoro suddiviso in una ventina di sottoprogetti e consegna blindata in tre settimane. Alla fine, ogni singolo “pezzo” prodotto ha superato la logica del prototipo, mettendo davvero lo sviluppatore accanto all’utente finale».
Trasformazione e controllo
La parte finale della tavola rotonda è tornata a focalizzarsi sui ritardi accumulati dall’innovazione e sugli ostacoli da rimuovere (uno di questi, concordano tutti i partecipanti, riguarda le infrastrutture di sistema e la situazione di marcato digital divide). In una parola, su come rendere più fluida la trasformazione delle aziende. Claudio Monzini di Serena Software ha per esempio chiamato in causa le carenze sul piano dell’automazione delle procedure: «Pur essendoci molte aree di eccellenza, manca la percezione di un disegno strategico complessivo per digitalizzare i processi aziendali». E Paolo Ciceri di La Rinascente – dopo essersi soffermato a lungo sulle trasformazioni che il retailer (oggi di proprietà thailandese) ha affrontato per dotarsi di nuove modalità di gestione delle relazioni con i clienti in ambito social – ha messo sul piatto un’altra sfida per i CIO. «Dal punto di vista IT, la prima cosa da capire è la linea di demarcazione del tuo sistema informativo. Nel momento in cui i nostri clienti hanno in mano un “self media”, sono in grado di essere influenzati nel loro comportamento da fattori che non sono solo sotto il tuo controllo». Ciceri ha lasciato intravvedere insomma un futuro in cui gestire la complessità dei rapporti tra tecnologia e business richiederà una maggiore capacità di concertazione tra tutte le funzioni aziendali. Ma anche un cambiamento di mentalità in chi gestisce tecnologie che da fondamentale accessorio oggi tendono a identificarsi con ciò che le aziende fanno di mestiere – produrre e vendere – dentro un contesto dove anche chi acquista ha un’influenza decisamente superiore rispetto al passato.
Dare spazio all’innovazione
Vincenzo Spagnoletti, director of Data Center/Secure Power & IT Partners Sales di Schneider Electric, specialista di efficientamento energetico, dopo aver sottolineato l’importanza delle soluzioni che contribuiscono a dare valore alle infrastrutture fisiche risolvendo il disallineamento tra costi complessivi e ritorni sugli investimenti IT – ha sintetizzato in modo efficace un possibile motto dell’innovatore: «Forse, dovremmo iniziare a trattare l’IT sempre più dal punto di vista dello scopo, scendendo meno nel dettaglio. Come quando si acquista un’auto, senza preoccuparsi dei protocolli utilizzati dall’elettronica o della marca del freno. Questo consentirebbe di liberare il tempo che serve a dare spazio all’innovazione».