Tech Ahead, l’altra metà della storia

Mentre l’hi-tech globale si prepara a un’ondata di fusioni, il mercato italiano TMT cresce più del PIL ma resta “colonizzabile”

“Tech Ahead” significa intercettare le tecnologie e i modelli di business che guideranno la crescita, posizionandosi all’incrocio tra competenza, capitale e visione. Chi coglie questo momento, guiderà la prossima ondata di trasformazione. Negli ultimi nove anni, le operazioni di fusione e acquisizione (M&A) nel settore tecnologico italiano sono aumentate del 92%. Una crescita clamorosa, che però racconta solo metà della storia. L’altra metà è fatta di opportunità ancora inespresse, margini da colmare con il resto d’Europa e il potenziale – tutto da valorizzare – di un tessuto imprenditoriale vivo ma spesso prigioniero di sé stesso.

Secondo lo studio Tech Ahead sul settore Tech & Tech Services (TTS) in Italia e nel contesto globale di Clearwater e Roland Berger, il comparto tech in Italia ha registrato un tasso di crescita doppio rispetto al PIL negli ultimi dieci anni, con un valore di mercato stimato in 45 miliardi di euro. Una cifra importante, ma ancora lontana dai 700 miliardi dell’Europa e i 3.500 miliardi globali. Nell’aggregato Technology, Media & Telecommunications globale (TMT), si evidenzia un boom di attività M&A grazie al consolidamento dei player software, alla diffusione dell’adozione dell’AI generativa, alla stabilizzazione dei tassi di interesse, e alla disponibilità record di capitali. La somma complessiva del valore economico di tutte le operazioni di fusione e acquisizione concluse nel 2023 è di 496 miliardi di dollari. Il software rappresenta il 69% delle attività M&A in tecnologia. Perché è importante sottolineare il valore totale dei deal? In pratica,  perché rappresenta un indicatore chiave per comprendere la salute e la dinamica del mercato che riflette “l’appetito” degli investitori e delle aziende per operazioni strategiche di crescita o consolidamento.​

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L’Italia ha visto una crescita marcata dei deal M&A nel TMT, con forte impulso da parte del private equity. Tuttavia, i multipli di valutazione sono i più bassi in Europa: EV/EBITDA medio al 2025 = 9,1x (vs 24,4x nei Paesi Nordici), sulla base della selezione riferita alle prime società quotate in ogni paese esaminato a fine gennaio 2025. Manca un “campione nazionale” pure tech, e questo rende l’Italia vulnerabile a takeover esteri. L’apporto di capitali da parte del private equity rappresenta l’energia nel motore della trasformazione digitale.

Il 64% delle delisting di aziende TTS italiane (2022-2024) sono guidate dal private equity. Casi come Namirial, DGS, Impresoft, Lutech mostrano una strategia chiara di buy-and-build. L’obiettivo? Consolidamento nazionale ed espansione internazionale, che nel contesto attuale di riorganizzazione delle supply chain globali rappresentano l’unica via percorribile per rendere il sistema produttivo più resiliente. I leader italiani crescono a colpi di acquisizioni: Zucchetti ha fatto circa 200 acquisizioni in 10 anni; Sesa ha fatto 74 acquisizioni, puntando su integrazione software-hardware.

Reply invece non acquisisce in Italia da 15 anni, segno della saturazione del mercato interno. L’Italia si trova in una posizione strategica per il nearshoring, offrendo un mix competitivo di competenze tecnologiche, infrastrutture in evoluzione e prossimità ai principali mercati europei. In un contesto geopolitico sempre più incerto, molte aziende globali stanno rivalutando le proprie catene di fornitura, privilegiando la rilocalizzazione in Europa: una leva strategica per il rilancio dell’ecosistema tech nazionale. Il PNRR ha dato un impulso importante alla digitalizzazione, fungendo da catalizzatore per investimenti in infrastrutture digitali, cloud, AI e cybersecurity. Tuttavia, si tratta di un volano temporaneo, e il settore guarda già oltre: cresce, infatti, la richiesta di politiche strutturali e incentivi mirati per sostenere la competitività nel lungo periodo, anche come risposta ai nuovi dazi e alle tensioni commerciali internazionali.

Morfino, Clearwater: «Il futuro si costruisce oggi»

Clearwater è una delle principali realtà indipendenti di corporate finance in Europa specializzata nel mid-market. La divisione italiana è composta da 25 persone, e Marco Morfino guida il team di professionisti specializzato nel settore tech e tech services. L’ufficio italiano si inserisce in un ecosistema internazionale che valorizza le competenze verticali. Una strategia condivisa con gli altri hub europei di Clearwater (Germania, Francia, Spagna, UK, Paesi Nordici, Benelux), dove la specializzazione è la chiave per supportare la crescita delle aziende tech su scala globale. Ogni paese ha i suoi “omologhi” con cui Marco si confronta regolarmente, in un gioco di squadra internazionale fatto di scambi, confronti e strategie condivise. Ma il percorso che lo porta fin qui non è quello classico del banker. Morfino porta con sé un background  trasversale: prima imprenditore, poi consulente e manager. Nella prima decade degli anni 2000, crea una startup tech per la logistica, in tempi in cui parlare di cloud e collaboration nella supply chain era pionieristico. L’idea? Un sistema per orchestrare l’intera filiera: produttori, fornitori, spedizionieri, dogane, porti. Quello che oggi si chiamerebbe supply chain orchestration, Morfino lo disegna nel 2009. Poi vende la sua azienda, e si ritrova domandarsi: «E adesso?». La risposta arriva dalla finanza, ma con una mentalità da innovatore. Dopo una serie di visite in Silicon Valley tra il 2011 e il 2015, Morfino capisce che la trasformazione digitale sta per travolgere ogni processo aziendale. Il machine learning e il deep learning fanno i primi passi concreti, i social media ribaltano il marketing e la comunicazione, e il software – dice – «era ovunque, per tutto».

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Quasi nello stesso periodo, Morfino inizia a insegnare open innovation in Svizzera, affascinato dall’idea che negli Stati Uniti era già realtà: «Le aziende, anche le più forti, non possono innovare da sole». Oltreoceano, parla con i manager di Google, Facebook, Cisco, IBM che hanno a disposizione i migliori ingegneri del mondo, eppure investono in startup, collaborano, creano fondi evergreen di private equity e venture capital. Quando Morfino chiede il perché – la risposta è semplice: «Velocità. Integrazione per anticipare il mercato. E, a volte, sottrarre un asset ai concorrenti» – ricordando la leggenda della vendita di WhatsApp: un accordo da miliardi chiuso in pochi giorni, con Zuckerberg che scrive il prezzo su un tovagliolo, durante una cena, per evitare che l’app finisse a Google. «Facebook era già visto come il social dei boomer – racconta Morfino  – mentre i giovani stavano tutti su WhatsApp. Così se lo sono comprati per difendersi e allo stesso tempo hanno usato i dati per far esplodere anche Instagram».

Le critiche al private equity? Alcune possono essere vere: leva finanziaria, obiettivi a breve termine, pressione sui margini. Ma ci sono storie di grande successo. «Il private equity è speculativo. Ma non è un nemico”. Marco Morfino lo dice con franchezza, mentre scorre le ultime analisi pubblicate: il numero di operazioni continua a crescere, e anche se non tutte vanno a buon fine – com’è naturale in un mercato che genera 200 deal all’anno – il bilancio resta nettamente positivo.

Come quello di Lutech, per esempio. Prima dell’ingresso dei fondi, fatturava 130 milioni. Oggi, dopo 35 acquisizioni, ha raggiunto i 900 milioni di ricavi e oltre 120 di EBITDA. A guidarla, una figura chiave: Tullio Pirovano, manager con visione sistemica e una matrice precisa in testa – «verticali e capabilities» – per orientare ogni acquisizione. Certo, qualcuno può avere un’idea diversa di come e quali verticali e capabilities integrare, ma nel frattempo Lutech continua a crescere. E non è sola. È il caso di Engineering, TeamSystem, Impresoft, Namirial, Altea e DGS, che attraverso successive acquisizioni hanno consolidato la propria presenza e ampliato l’offerta tecnologica. «Parallelamente – continua Morfino – anche alcune aziende quotate in Borsa, come TXT, Sesa e Wiit, hanno perseguito strategie di crescita basate su acquisizioni mirate, rafforzando le proprie competenze e la loro posizione nel mercato. Un fenomeno analogo ha riguardato alcune aziende a conduzione familiare, tra cui Zucchetti, Almaviva, Deda, Avvale e Horsa, che hanno adottato modelli di espansione simili per accelerare il loro sviluppo».

Un altro caso da seguire con attenzione è quello di DGS. In meno di un decennio, è passata da 30 a oltre 300 milioni. Anche BIP, altra società di consulenza strategica con forte attenzione al mondo digitale, è arrivata al quarto giro di private equity. «Vuol dire che il valore si crea, e continua a rigenerarsi. Ma bisogna stare attenti: a un certo punto, non basta più la visione dell’imprenditore di partenza» – spiega Morfino.

Il paradosso della crescita, la paura di perdere il controllo

Da startup a gigante, il salto è anche organizzativo. Ti ritrovi con una Ferrari che non sei più in grado di guidare. E allora serve la consapevolezza di fare un passo di lato. «L’imprenditore può diventare presidente, può restare la mente strategica e rimanere alla guida dell’azienda, ma serve qualcuno capace di tenere insieme la complessità organizzativa e multi-tecnologica» – spiega Morfino. La paura più diffusa delle imprese? «Perdere il controllo». Ma secondo Morfino è spesso solo un alibi. «Il fondo non vuole gestire. Non ne ha le competenze. E il suo peggior incubo è che il founder se ne vada. Per questo, nei contratti, possono comparire clausole che vincolano l’imprenditore a restare al comando. La governance operativa è sua». E poi c’è il fattore tempo: «Un fondo resta in media quattro anni. Cambiare management in corsa sarebbe un suicidio operativo. Ci vogliono sei mesi per cercare la persona giusta, altri sei per inserirla. I tempi si allungano, e i ritorni si allontanano. Per questo il fondo fa di tutto per tenersi stretto l’imprenditore». Si tratta di una danza a due: capitale e visione. Se i ruoli sono chiari, i risultati possono essere straordinari.

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Riconoscere e coltivare il talento

ll talento dei giovani italiani fa crescere le imprese in giro per il mondo. Ma spesso, le aziende italiane non hanno le leve giuste per attrarlo. «Prendiamo una realtà che fattura 100 milioni: da sola, difficilmente riuscirebbe a portarsi a bordo un top manager con esperienza da multinazionale. Eppure, quando entra in gioco un fondo, tutto cambia». Marco Morfino lo racconta come un piccolo meccanismo virtuoso: il management incentive plan. «Un sistema semplice e potente. Il fondo investe – diciamo, 100 milioni – e punta a uscirne con 200. Sopra quella soglia, i manager chiave iniziano a guadagnare in modo più che proporzionale rispetto al valore iniziale delle azioni , grazie a una sorta di incentivi o “sweet equity”: azioni gratuite, che si moltiplicano col successo dell’azienda». Il risultato? Un manager abituato a un ambiente “quotato”, che magari non guarderebbe mai una PMI, accetta la sfida perché sa che lì dentro c’è un obiettivo di liquidità all’orizzonte. E se l’azienda cresce, lui cresce con lei. «È un meccanismo che funziona, se usato con buon senso» – dice Morfino. «E può trasformare una piccola impresa in un magnete per talenti di alto livello».

La competitività dell’ecosistema tech italiano

L’attrattività dell’ecosistema tech italiano non è solo una questione di capitali o competenze, ma anche – e forse soprattutto – di contesto. E su questo, Marco Morfino non ha dubbi: «L’Europa, Italia compresa, è ancora troppo ingessata dalla burocrazia. Lo diceva anche il numero due di BlackRock. Rispetto a USA e Giappone, siamo più lenti, meno certi sul piano normativo». Ma poi aggiunge un contrappunto importante: qualcosa si sta muovendo, e il PNRR ne è la prova. «È debito, certo. Ma un debito virtuoso. Serve a modernizzare il Paese. E se la Pubblica Amministrazione farà bene la sua parte, il privato sarà costretto a seguirla». Con un ribaltamento, per una volta, è il pubblico a dettare il passo dell’innovazione. E in effetti, l’Italia ha già dato prova di saper guidare il cambiamento: dalla fatturazione elettronica, pionieristica a livello europeo, all’identità digitale, che ci consente di accedere ai servizi della PA con una semplicità sconosciuta in altri Paesi. «Sono innovazioni concrete, ma spesso non ce ne rendiamo conto perché arrivano gradualmente». Per colmare il gap rispetto ai benchmark internazionali, una leva fondamentale è l’incremento degli investimenti negli asset applicativi per rendere le aziende tecnologiche italiane più solide e attrattive per gli investitori – spiega Morfino. «In alcuni settori, come il software bancario o la fatturazione elettronica, l’Italia ha sviluppato soluzioni avanzate proprio per rispondere a un quadro normativo più complesso rispetto ad altri Paesi. Questo know-how rappresenta un vantaggio competitivo che, attraverso acquisizioni strategiche e un’espansione mirata in mercati esteri, può essere valorizzato e trasformato in un’opportunità di crescita internazionale».

La crescita esterna è determinante per la competitività, soprattutto in un tessuto imprenditoriale caratterizzato da aziende di piccole e medie dimensioni. «Le aziende italiane possiedono tutte le caratteristiche per internazionalizzarsi, ma per competere su scala globale devono espandersi in modo efficace, per questo è fondamentale acquisire legal entity in altri Paesi. Questo non solo agevola l’accesso ai mercati globali, ma rafforza anche la credibilità dell’azienda nei confronti dei clienti e partner esteri» – afferma Morfino. Tuttavia, per un’internazionalizzazione efficace, non basta un partner finanziario: servono competenze manageriali capaci di gestire operazioni cross-border, considerando le specificità culturali e operative dei mercati di riferimento. «L’esperienza acquisita nelle operazioni di M&A in Italia può essere un punto di partenza, ma operare all’estero richiede una preparazione aggiuntiva, che include un’attenta due diligence e una strategia di integrazione mirata. Solo così la crescita internazionale si traduce in un reale vantaggio competitivo, anziché in una mera espansione geografica» – aggiunge Morfino.

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I settori del tech italiano che stanno attirando maggior attenzione da parte degli investitori – in particolare quelli internazionali – si concentrano su ambiti ad alto potenziale di crescita e scalabilità – come spiega Morfino. In prima linea, troviamo naturalmente la Generative AI, protagonista di una vera e propria corsa agli investimenti a livello globale. Accanto all’AI generativa, si distinguono altri segmenti strategici come la cybersecurity, sempre più centrale in un contesto di minacce digitali in aumento; Performance Cloud e Managed Services, legati all’ottimizzazione e gestione delle infrastrutture IT esistenti; Data Analytics e Customer Intelligence, che abilitano decisioni data-driven e personalizzazione avanzata; SaaS e software applicativi verticali, capaci di garantire ricavi ricorrenti e alta marginalità. Inoltre, sono molto ricercate le soluzioni che contribuiscono a cambiare i processi di una industry. «Un esempio è lo sviluppo di piattaforme innovative in settori chiave come i pagamenti digitali, l’insurtech e la compliance, dove la tecnologia gioca un ruolo determinante nel ridefinire i modelli di business e migliorarne l’efficienza operativa».

L’innovazione si muove alla velocità delle idee e dei capitali

Morfino racconta anche un episodio emblematico. «Negli Stati Uniti, quindici anni fa, investivano milioni nel gaming. Quando chiesi il perché, mi risposero: I gamer di oggi saranno i manager di domani. E quando entreranno in azienda, vorranno interfacce intuitive, dinamiche. Se il software non è così, lo scartano a prescindere». Un’altra lezione che viene da oltreoceano è che l’innovazione nasce spesso ai margini, dove c’è spazio per la sperimentazione. Vale per la space economy come con l’AI. «Le startup spesso si muovono dove le regole non ci sono ancora, dove c’è un vuoto normativo, proprio perché si parla di innovazione» – commenta Morfino. Eppure, anche la norma – se ben fatta – può essere una leva. «La fatturazione elettronica lo dimostra: una spinta forte, guidata dall’alto. Ora la sfida è replicare quel modello anche in altri settori». Perché se è vero che l’innovazione corre più veloce senza regole, è altrettanto vero che senza direzione, può anche perdersi. Quando l’Europa ha varato l’AI Act, molti hanno sollevato dubbi.

Un passo più lungo della gamba – secondo molti osservatori. Marco Morfino lo guarda da una prospettiva ancora più ampia: «II capitale non aspetta, si muove più veloce delle persone. Se non riesco a innovare qui, vado altrove: in Giappone, nel Golfo, in Asia. Anche l’America, nel recente passato, ha dirottato verso l’India numerosi  investimenti, grazie alla forte spinta di innovazione presente in questo paese». La logica è semplice: dove ci sono velocità, intelligenza, capacità di innovazione, lì vanno gli investimenti. E se l’Europa diventa troppo lenta, troppo regolamentata, rischia di perdere il treno. Eppure, c’è speranza. «In Italia abbiamo imprenditori straordinari» – commenta Morfino. «Lo hanno dimostrato nella moda, nella meccanica, nel food. Hanno imparato a esportare, spesso combattendo contro un sistema non proprio semplice. Ora devono fare lo stesso nel tech».

Internazionalizzarsi – secondo Morfino – è una scelta obbligata. Anche per le startup: «Devono nascere con una vocazione globale. Il tempo delle aziende-famiglia, gestite come figli, è finito. È romantico, certo. Ma è anche un limite». Oggi, i giovani imprenditori sono diversi: «Meno legati al controllo, più orientati allo sviluppo». E il contesto gioca a favore: «Abbiamo ottime università, un costo del lavoro competitivo rispetto a molte capitali europee, e una qualità professionale altissima». La strategia è sempre più chiara: acquisire nuove realtà all’estero per presidiare i mercati chiave, ma consolidare in Italia le competenze tecnologiche. Un modello ibrido per consentire alle aziende italiane di espandersi globalmente, mantenendo al contempo il controllo su innovazione, sviluppo e know-how. In questo scenario, l’Italia si propone come una “fabbrica di competenze” ad alta specializzazione, capace di alimentare la crescita internazionale con talenti e soluzioni digitali Made in Italy. «Ma servono coraggio e convinzione» – conclude Morfino. L’Italia può davvero giocarsela: «Non da comprimaria, ma da protagonista».