L’eredità open di Papa Francesco

L’eredità open di Papa Francesco

La sinodalità come piattaforma: Papa Francesco, il CEO della fede che ha innovato la più antica istituzione legacy del mondo

La morte di Papa Francesco assume un significato profondamente simbolico. Il Lunedì dell’Angelo è un giorno di rinascita, di cammino verso il nuovo: il messaggio finale di un pontefice che ha vissuto il suo mandato come servizio e trasformazione. Non sono un vaticanista. Spero che queste mie riflessioni non suonino eretiche, o quantomeno blasfeme, all’orecchio degli esperti.

Dodici anni fa, il mondo saluta il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo», che si affacciava per la prima volta dalla loggia di San Pietro col nome inedito di Francesco.

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Jorge Mario Bergoglio, gesuita, argentino di origini italiane, arcivescovo di Buenos Aires, è il primo non europeo in oltre mille anni a sedere sul trono di Pietro. Ma è solo l’inizio. L’arrivo di Francesco innesca una trasformazione sistemica in una delle organizzazioni più complesse, globali e radicate dell’umanità: la Chiesa cattolica. Oggi, con il suo pontificato ormai agli atti, possiamo leggerlo anche come un case study di leadership trasformazionale. Un pontefice che ha saputo attivare la cultura della riforma, gestire il cambiamento in un ambiente legacy e ri-posizionare il “brand” della Chiesa per una nuova era.

Papa Francesco non ha cambiato i dogmi. Ma ha riprogrammato il software culturale della Chiesa. È stato il papa della semplificazione, del customer-care pastorale, della sostenibilità spirituale. Ha gestito la più antica “multinazionale” della storia con logiche più vicine alla leadership etica della Silicon Valley che al potere temporale dei papi rinascimentali. Se la Chiesa sopravvive da 2000 anni è perché sa quando è il momento di cambiare. Francesco è stato il “product manager” di questa riforma. Ora il mondo guarda a chi prenderà in mano il prossimo aggiornamento del sistema.

Dalla “Curia” al cliente: l’approccio customer-centric

Il primo gesto di Francesco è stato un segnale da manuale di disruption culturale: rinunciare all’appartamento pontificio e vivere nella Domus Santa Marta. Niente simboli imperiali, niente troni. Un “CEO” in grado di riposizionare la Chiesa dalla centralità mainframe alla logica as a Service.

La sua frase – «Come vorrei una Chiesa povera per i poveri» – non è solo una intenzione evangelica: è un mission statement. Francesco ha spostato il baricentro dall’organizzazione ai “clienti”, in questo caso le periferie umane, sociali ed esistenziali. Ha spostato il target della missione ecclesiale verso gli esclusi, i migranti, i non credenti, i giovani distanti dalla fede.

Riforma della Curia: ridisegnare il management

Nel 2022, con la Costituzione Apostolica “Praedicate Evangelium”, Papa Francesco ha lanciato la più profonda ristrutturazione della macchina curiale dagli anni 60. Ha accorpato dicasteri, semplificato gerarchie, aperto ruoli di governance alle donne, introdotto logiche sinodali nella cultura decisionale, passando – per dirla con il linguaggio del business – da un modello top-down a uno decentralizzato e partecipativo.

Le conferenze episcopali hanno avuto più voce. Il Papa stesso ha lanciato il Sinodo universale, un vero esperimento di ascolto globale con logiche di governance open-source. Con la sua morte, tutti i poteri decisionali centrali decadono. Non si possono prendere decisioni strategiche, nominare dirigenti, riformare strutture o firmare documenti magisteriali. I “dipartimenti” vaticani (dicasteri), che dipendono dal mandato papale, entrano in modalità “safe mode”. Nel linguaggio ecclesiastico, si parla di “Sede Vacante”, ma se lo traduciamo in termini di management e corporate governance, significa che tutti i poteri ordinari centrali vengono sospesi.

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Non esiste una figura come un COO o un “CEO ad interim” con pieni poteri: nel contesto della Sede Vacante, il Camerlengo di Santa Romana Chiesa ricopre il ruolo di amministratore delegato a tempo che si occupa esclusivamente della gestione ordinaria, della custodia dei beni patrimoniali, ma con compiti ben definiti che riguardano esclusivamente il mantenimento dell’istituzione in attesa di un nuovo CEO (Papa).

Il Collegio dei Cardinali funge da board temporaneo, ma non può prendere decisioni dottrinali, strutturali o politiche. Può solo indire ed eseguire l’elezione del successore. È una governance pensata per evitare colpi di mano, derive di potere, o iniziative personali. È come se una impresa vision-driven avesse perso il suo fondatore, e ora fosse in attesa di capire se il nuovo leader sarà un continuatore (vision 2.0), un riformatore (reset) o un restauratore (rollback). Dal punto di vista di un investitore o di un portatore di interesse, potrebbe sembrare un sistema inefficiente. Ma qui, la lentezza è voluta: la Chiesa, con duemila anni di storia alle spalle, ha una gestione del tempo diversa. Non cerca efficienza, ma resilienza e coerenza.

Brand, comunicazione e UX spirituale

In un mondo dove fisico e virtuale sconfinano l’uno nell’altro, caratterizzato da hyperchoice e overload di informazioni, Francesco ha compreso che la narrazione conta. La sua comunicazione – gesti e frasi semplici, interviste spontanee – ha dato alla Chiesa il volto degli ultimi, credibile e accessibile.

Ha presidiato canali come X e Instagram (@Pontifex) con una strategia di contenuti pensata per l’era social. Il messaggio non era solo il contenuto spirituale, ma il tono e il contesto: compassione, umiltà, umanità.

ESG spirituale: “Laudato sì” e capitale etico

Con l’enciclica “Laudato sì” (2015), Francesco ha anticipato di almeno cinque anni il mainstream ESG nel mondo economico-finanziario. Ha posto la sostenibilità ambientale come tema teologico, morale e sociale, promuovendo un concetto di “ecologia integrata”. Oggi, molte multinazionali citano l’enciclica nei loro report CSR. Francesco ha trasformato la cura del creato da optional etico a obbligo spirituale, facendo del Vaticano un player riconosciuto nelle conferenze ONU sul clima.

Leadership in tempo di crisi

Dalla pandemia alla guerra in Ucraina, fino agli abusi nella Chiesa, Francesco ha guidato la Chiesa come un leader in crisi di reputazione: ha chiesto perdono, convocato tavoli, rimosso figure potenti. Durante la pandemia, la sua immagine in Piazza San Pietro, da solo e sotto la pioggia, è diventata uno dei simboli globali del lockdown: un’icona del dolore collettivo vissuto con compassione.

Forse, il lascito più innovativo di Francesco è l’idea di “sinodalità”: una piattaforma collaborativa, in cui ogni battezzato è “utente attivo” della fede. È come se avesse trasformato la Chiesa da un’organizzazione gerarchica a un sistema “cloud”, orizzontale, distribuito. Una Chiesa che ascolta prima, ma non rinuncia a insegnare.

Papa Francesco parla di algoritmi

L’intervento di Papa Francesco sul tema dell’Intelligenza Artificiale in occasione del G7, durante il semestre di Presidenza italiana, potrebbe sembrare, a prima vista, una nota laterale. Eppure, negli ultimi anni, il pontefice argentino ha saputo posizionare la Chiesa cattolica come interlocutore strategico nel dibattito globale sull’AI ethics. Un apporto paradossale, e proprio per questo prezioso: una delle istituzioni più legacy ha detto la sua sulla tecnologia più disruptive del secolo. E lo ha fatto con un framework che il mondo business-tech comincia finalmente a prendere sul serio: quello della responsabilità umana prima che tecnica.

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Dal pulpito al protocollo

Nel 2020, ben prima che ChatGPT o gli LLM diventassero mainstream, il Vaticano ha promosso – in collaborazione con Microsoft, IBM, FAO e organizzazioni internazionali di etica digitale – il Rome Call for AI Ethic. Una carta che punta a inserire nel codice delle tecnologie emergenti sei principi fondamentali: trasparenza, inclusione, responsabilità, imparzialità, affidabilità, sicurezza. Quella call è molto più di un documento, ma rappresenta il tentativo di fusione tra il linguaggio dell’enciclica e quello dei white paper, tra l’etica teologica e il design thinking. Francesco ha sostenuto che l’AI deve essere «algoretica», mix tra algoritmo e coscienza etica, ponte tra dottrina e governance digitale.

La dottrina incontra il futuro: bias sì, ma anche visione

È chiaro: il Vaticano ha il suo “grande editore” di riferimento, e porta nel dibattito sull’AI un “bias” preciso, quello della dottrina derivata dall’interpretazione autentica della parola di Dio. L’antropologia cristiana pone l’uomo al centro, creatura irripetibile e non replicabile da alcuna macchina. L’AI non è vista come creatrice, ma come “strumento” – da usare e regolare per il bene. Sottovalutando, tuttavia, il fatto che la tecnologia non è mai veramente neutra, ma capace di capovolgere il rapporto tra soggetto e oggetto.

Francesco ha ribadito: «Nessun algoritmo può decidere della dignità umana. Nessuna macchina può sostituire la coscienza». Una posizione che introduce la necessità di una architettura etica in una costruzione troppo tecnocratica. Se la disruption si consuma più velocemente della riflessione, il Papa ha giocato un ruolo da “chief ethicist” globale, inserendosi nel vuoto di visione lasciato da molte Big Tech, insistendo sulla necessità di governare prima di codificare, di discernere prima di ottimizzare.

Francesco e l’AI come “discernimento digitale”

Nel lessico di Papa Fancesco, l’AI è spesso trattata come una questione di discernimento: un termine chiave nella spiritualità gesuita, che implica attenzione, ascolto, tempo. Una forma di leadership riflessiva che si oppone alla logica della performance e dello sviluppo Agile. È come se Francesco suggerisse al mondo tech di rallentare, non per paura del futuro, ma per ritrovare il senso di ciò che si sta costruendo. Con il suo impatto sulla Rome Call, le aperture verso think tank globali, e la spinta per l’applicazione dell’AI al servizio della giustizia sociale, Francesco ha dimostrato che la leadership valoriale può influenzare anche l’architettura tecnologica.

Chi sarà il prossimo Papa?

Il successore di Francesco sarà un continuatore, un riformatore o un restauratore? La scelta di un nuovo papa è sempre frutto di dinamiche complesse: geopolitiche, spirituali, ecclesiali. Un papa dell’Asia o dell’Africa (dove la Chiesa cresce più rapidamente) potrebbe segnare il “ritorno alle origini” del messaggio evangelico. Un papa latinoamericano 2.0 (con un profilo diverso da Francesco) potrebbe incarnare l’idea di un nuovo “Pietro globale”.

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Ma partiamo dai fatti. Papa Francesco è stato il primo papa gesuita e il primo proveniente dall’America Latina. Il suo stile sobrio e dirompente ha diviso ma anche profondamente ispirato. Il Collegio cardinalizio, da lui fortemente rinnovato, dovrà scegliere il suo successore. Durante il suo pontificato, Francesco ha creato più del 70% dei cardinali elettori (quelli con meno di 80 anni), orientando il collegio verso una maggiore rappresentanza del Sud globale. Questa distribuzione non può non avere un impatto sulla formazione della maggioranza nel Conclave. Con 135 cardinali elettori provenienti da 71 paesi, la composizione del Collegio cardinalizio è oggi più diversificata che mai. L’Europa mantiene ancora la quota più alta con 52 cardinali, pari al 39% del totale, ma è ormai lontana dai tempi in cui deteneva oltre la metà dei voti. A seguire, l’America Latina e i Caraibi contano 24 elettori (18%), seguiti dall’Asia in crescita, con 22 cardinali (17%), che conferma il peso crescente del cattolicesimo asiatico nelle strategie del Vaticano.

L’Africa, con 18 cardinali elettori (13%), rappresenta l’altro baricentro in espansione. Il Nord America, nonostante la sua influenza storica e la capacità mediatica, registra 14 cardinali (10%), mentre l’Oceania chiude con 4 cardinali (3%). Questi numeri mostrano come il prossimo conclave si svolgerà in uno scenario sempre più multipolare, nonostante la brusca frenata della globalizzazione, in cui la voce delle “periferie” – come le ha definite Papa Francesco – avrà un peso determinante.

La storia recente ci insegna che le sorprese non sono rare: Giovanni XXIII, Giovanni Paolo I, lo stesso Karol Wojtyła (primo non italiano da secoli), e Francesco non erano i favoriti dai pronostici.

Un nome fuori dai radar potrebbe emergere, soprattutto se il conclave dovesse protrarsi oltre le tre settimane – segnale chiaro di una frammentazione interna tra i cardinali elettori. In uno scenario del genere, l’impasse potrebbe aprire la strada a un profilo inatteso, scelto come figura di sintesi tra le diverse anime della Chiesa.

Il prossimo conclave si annuncia, dunque, come un evento globale, profondamente segnato dal pontificato di Francesco ma aperto a un’ampia varietà di scenari. La Chiesa può scegliere di proseguire sulla strada della riforma e della sinodalità, oppure cercare un profilo più conservatore per stabilizzare le tensioni dottrinali interne. Naturalmente, l’azione dello Spirito Santo – per sua natura imprevedibile, insondabile e infallibile – lascia sempre aperta la possibilità di un papa “a sorpresa”.

Accanto alle analisi geopolitiche, alle strategie curiali e ai pronostici dei vaticanisti, in ogni conclave, aleggia l’imponderabile: l’elemento che sfugge a ogni calcolo e che, nella storia della Chiesa, ha più volte ribaltato gli scenari. Il successore di Pietro non è solo il frutto di un equilibrio tra correnti, continenti e visioni teologiche, ma anche il segno di una volontà che – per chi crede – opera oltre la logica del consenso.