Alla ricerca di un nuovo equilibrio tra resilienza, innovazione e sostenibilità. Oltre la paura del cambiamento. WeChange IT Forum 2024: il coraggio di prendere posizione. La vera trasformazione nasce dalla capacità di interpretare il presente e reinventare il futuro
Nona edizione di WeChange IT Forum. E tempo di bilanci. È stato un anno sfidante, tanto per usare una di quelle parole che in realtà sono una scorciatoia. Ma più grande è la sfida, più grande dovrebbe essere la capacità di sfruttare l’innovazione per affrontarla. Le stime al ribasso della crescita, il rallentamento della locomotiva tedesca, il debito pubblico che raggiunge nuovi massimi preoccupano le imprese. Cresce il PIL nell’area OCSE, ma nonostante le buone performance, l’Italia resta indietro rispetto ai Paesi del G7.
A seconda di chi li misura, i macroindicatori del mercato ICT italiano sono buoni: cloud, intelligenza artificiale, sicurezza e i big data trainano gli investimenti. Sebbene tecnologie come l’IoT siano considerate strategiche per la transizione green, la maggior parte delle imprese si trova ancora in una fase di sperimentazione, frenata da ostacoli come i costi elevati, la mancanza di competenze interne e la complessità di integrazione. Un paradosso si annida un po’ ovunque: i CIO considerano l’IT delle loro aziende all’avanguardia, ma poi a microfoni spenti solo pochi la ritengono pronta ad affrontare i rischi futuri. Manca la percezione generale dell’urgenza. L’intelligenza artificiale risolve molti compiti complessi e crea qualche problema, soprattutto energetico: dopo molti discorsi, oggi l’attenzione si è spostata dalle regole alle fonti di energia per l’alimentarla. Geopolitica e tecnologia sono inseparabili. La cybersecurity sopravanza gli scenari bellici e da voce di costo diventa base fondante di tutto: anche del welfare.
La paura del cambiamento
In questi anni, abbiamo descritto l’IT come la cassetta degli attrezzi per governare il cambiamento. Davanti alla triplice sfida della transizione energetica, digitale e green le imprese si sentono in trappola. Le persone hanno paura del futuro e le imprese sono fatte di persone. Dati Censis alla mano, le principali paure riguardano i rischi ambientali, i problemi strutturali irrisolti, la rottura delle catene di approvvigionamento, la mancanza di energia e acqua sufficienti, il debito pubblico, le minacce digitali. Le imprese reagiscono alla paura del futuro come le persone: si bloccano, spesso facendo le scelte sbagliate perché tra scegliere e decidere c’è una differenza: non sostanziale ma esistenziale.
La paura è un circuito bioelettrico che non è regolato dall’intelligenza programmata. La paura del cambiamento genera fuga dal cambiamento e ci sentiamo in trappola. La paura condiziona le scelte. La paura educa all’impossibilità e alla rassegnazione. Con un’altra scorciatoia, abbiamo raccontato che l’IT è il motore della modernizzazione, della crescita e dello sviluppo. Ogni motore per funzionare ha bisogno di energia e intelligenza: l’energia delle persone, come inesauribile riserva di problem solving oltre gli schemi programmati e come materiale grezzo da plasmare, l’intelligenza delle cose connesse che ci svela le relazioni nascoste della complessità attraverso i dati in un mondo che abbiamo descritto senza confini. A un certo punto però – abbiamo scoperto che non siamo mai stati veramente moderni. Parliamo di collaborazione e di mettere le persone al centro, ma sotto la superficie le logiche rimandano all’autunno caldo degli anni 70. La tecnologia ha disarticolato completamente le dinamiche classiche tra capitale e lavoro. Gli asset immateriali dell’economia digitale sono dannatamente materiali: energia per alimentare i data center, materie prime per costruire nuova capacità di calcolo, confini per sentirsi sicuri dalle minacce. I fronti di guerra che si espandono lo dimostrano. Ma il conflitto più grande è dentro di noi, tra il mantenimento del presente e la scommessa sul futuro.
La transizione energetica è troppo veloce e troppo costosa e quindi arretriamo. Parliamo di convergenza tra IT, OT e Business, ma le imprese italiane scontano i costi energetici più alti d’Europa sulla loro pelle in termini di competitività. I ribelli del Made in italy non vogliono rassegnarsi a un futuro di declino, ma si chiedono se avranno un futuro.
WeChange IT Forum 2024 diventa stand up edition
Ma cosa significa davvero? C’era una volta un direttore marketing di una grande azienda multinazionale che chiese al suo CEO: «Come possiamo creare un forte posizionamento nel nostro mercato»? Il CEO rispose: «È arrivato il momento di prendere una posizione decisa nella vita dei nostri clienti». Ecco, questo è lo spirito che anima l’evento di quest’anno. Non si tratta solo di idee condivise, ma di messaggi autentici, potenti e personali, che spaziano dalla tecnologia all’organizzazione, dalla società alle questioni più urgenti del nostro tempo. Un invito a essere critici, offrendo prospettive nuove per accendere la scintilla di riflessioni profonde. È la voce di chi non teme di lanciare uno sguardo audace verso il futuro, creando un dialogo che non si può più rimandare. L’Italia si trova a un crocevia tra passato industriale e futuro tecnologico. Ricorderemo quest’anno come l’anno di un nuovo inizio. E i nuovi inizi spaventano sempre. Verso quale direzione è ancora troppo presto per dirlo. Il futuro di un paese ha tre asset principali: lavoro, materie prime, capacità tecnologica. Io vengo da una famiglia di agricoltori – braccia rubate all’agricoltura, direbbe qualcuno.
A metà Ottocento, l’agricoltura assorbiva il 90% della forza lavoro. Oggi, grazie all’innovazione tecnologica, è uno dei settori che ha subito le trasformazioni più profonde, impiegando appena il 3% degli occupati. La tecnologia serve a ridurre le differenze che creano squilibrio. Per innovare bisogna imparare da certi errori fatali, guardando al futuro anche con gli occhi di uno straniero. Il vero potere è quello di abbattere le differenze, di ampliare le opportunità.
Il “come” vale più del “quanto”
Nella “splendida cornice” della narrazione talvolta stangante, ci ritroviamo a replicare frasi fatte che, a forza di essere ripetute, hanno ormai perso forza e significato. La performance resta una corsa a chi arriva primo. Ma il “come” vale più del “quanto”. La crescita del fatturato non basta a definire il successo aziendale. L’impatto sociale e la qualità dell’innovazione fanno la differenza. Qual è vera la natura della competizione: sottrarre un cliente che oggi appartiene a qualcun altro? Se il mio approccio si limita a questo, allora cosa sono? Un semplice predatore? E se lo faccio con il sorriso sulle labbra, mostrando sicurezza e charme, questo mi rende forse un leader? Oppure, sono solo una specie di “leader ridens”?
Forse la vera domanda non è cosa sono in questo gioco competitivo, ma come scelgo di competere. È sufficiente vedere il mercato come un’arena di conquista, o possiamo immaginare un approccio diverso, più costruttivo, che superi la logica del prendere e vincere a scapito di qualcun altro, delle regole e della sostenibilità sociale, ambientale, economica? Lo abbiamo sperimentato sul campo con l’indagine che abbiamo realizzato con BVA Doxa. Parlare di sostenibilità è più facile che metterla in pratica. La sostenibilità è una parola che sta bene con tutto. La parola etica salta fuori solo quando parliamo di intelligenza artificiale. La resilienza rischia di diventare sinonimo di ripristino, di ritorno al punto di partenza come nel gioco dell’oca, e non di evoluzione della capacità di assorbire l’impatto della discontinuità. La sicurezza non è una check-list. La tecnologia non è un bottone da premere. E tristemente, il sapore unico della libertà non è una bevanda zuccherata. Dobbiamo ripartire. Il backup di sistema non basta a rimetterci sul percorso giusto, ci vuole un upgrade. Cominciando da una domanda: Conosciamo veramente le nostre aziende?