Tempo, spazi, tecnologie e persone. Dallo smart working all’intelligent workplace, il cambiamento del modo di lavorare coinvolge tutte le aziende e richiede di affrontare velocemente e in modo integrato il processo di trasformazione digitale dell’organizzazione e lo sviluppo di competenze qualificate. Il punto di vista di Npo Sistemi, Nexthink, PwC, SAS, De Agostini, Regione Emilia Romagna e Solvay
Diverse ricerche confermano che una buona fetta dei decision maker a livello mondiale, e parliamo del 30-40% dei manager di aziende medio grandi e attive in diversi settori, hanno eletto i nuovi modelli di lavoro ibridi come parte integrante delle comuni pratiche aziendali, grazie a postazioni di lavoro sempre più interconnesse e a spazi digitali intelligenti. Il paradigma “hybrid working”, affermatosi con la pandemia, è ora destinato a consolidarsi ulteriormente negli anni a venire. Gli analisti di IDC, per esempio, prevedono che il 65% delle grandi organizzazioni considererà, già entro il 2025, la presenza online e virtuale della forza lavoro alla pari della presenza fisica in ufficio. Gli investimenti per ciò che viene definito “Future of Work” hanno conosciuto un sostanziale salto in avanti negli ultimi 24 mesi (l’incremento di spesa fra il 2023 e l’anno precedente è stato del 19%) e che gli stessi andranno a superare quota 1,5 miliardi di dollari (su scala globale) entro il 2026.
L’impatto di questa trasformazione del modo di lavorare ha importanti quanto inevitabili ripercussioni sulle persone: i professionisti del “new normal” sono chiamati a essere flessibili e ad adattarsi rapidamente ai cambiamenti, affrontando un processo di evoluzione che richiede la disponibilità di team dinamici e riconfigurabili, pronti a rispondere alle sollecitazioni del mercato (e della propria organizzazione) in qualsiasi momento e luogo, sia in sede che fuori sede. La crescente adozione di pratiche di lavoro più automatizzate, supportate da tecnologie come l’intelligenza artificiale, va quindi letta come un’opportunità per incrementare la produttività degli addetti e per abilitare processi più agili e, nondimeno, anche per potenziare il livello di attrattività dell’azienda per i talenti e per elevare la fidelizzazione e soddisfazione dei propri lavoratori (oltre che dei propri clienti).
L’attenzione degli addetti ai lavori si sta spostando oltre la fattibilità dei modelli di lavoro flessibile, per concentrarsi sulla loro implementazione strategica. In altre parole, la vera questione è “come” trasformare il lavoro e non “se” procedere con questa trasformazione. E il catalizzatore di questo nuovo passaggio evolutivo è il rapido progresso e l’integrazione delle tecnologie più innovative, a cominciare dall’intelligenza artificiale e dall’AI generativa. Questo balzo in avanti comporta però delle sfide. Ne citiamo un paio. La prima chiama le organizzazioni a tenere il passo del cambiamento, superando le difficoltà di reperire figure che possiedano deep e soft skill, ovvero sia competenze tecniche e abilità umane necessarie per operare nel complesso ambiente di lavoro odierno. La seconda è duplice e riguarda la gestione di team geograficamente dispersi e impegnati in attività interconnesse e l’imperativo di assicurare un’assistenza IT adeguata in un panorama costellato da rischi per la sicurezza e da una miriade di applicazioni, piattaforme ed endpoint.
Ed è proprio questo il contesto in cui l’apporto dell’automazione, e dell’intelligenza artificiale in modo particolare, diventa evidente. Le nuove tecnologie digitali non solo semplificano le attività ripetitive come la codifica, l’inserimento dei dati, la ricerca e la creazione di contenuti, ma migliorano anche le opportunità di apprendimento all’interno dei flussi di lavoro. La promessa di questi strumenti risiede nella loro capacità di facilitare le operazioni quotidiane e di aumentare in modo significativo l’efficienza dello sviluppo e dell’applicazione delle competenze sul posto di lavoro. Per questo motivo, secondo le proiezioni di IDC, le imprese sfrutteranno lo sviluppo di competenze tecnologiche personalizzate per ottenere incrementi di produttività in grado di generare ricavi aggiuntivi su scala globale pari a mille miliardi di dollari entro il 2026, grazie soprattutto alla GenAI e a piattaforme e soluzioni di automazione avanzate. Le imprese dovranno insomma cambiare pelle, consapevoli della necessità di fondere i concetti di “spazio” e di “luogo”, perché il significato stesso di questi due concetti sta progressivamente cambiando in relazione alle nuove modalità di collaborazione da remoto. E dovranno inoltre considerare come priorità l’upskilling e il reskilling delle competenze digitali delle persone.
La tavola rotonda “Intelligent Workplace” di Data Manager ha affrontato questi temi, riunendo un variegato panel di manager di vendor multinazionali come SAS, PwC e Solvay. Hanno partecipato anche tech provider e system integrator specializzati come Nexthink e Npo Sistemi, insieme a importanti aziende italiane come De Agostini ed enti pubblici come la Regione Emilia Romagna.
RIPENSARE L’EMPLOYEE EXPERIENCE
Riorganizzare il modo di lavorare della propria forza lavoro significa tante cose e una di queste riflette l’obiettivo di apportare un miglioramento sostanziale a quella che viene definita “employee experience”, e cioè la sommatoria di tutte le interazioni (esperienze, momenti d’incontro, percezioni e sensazioni che derivano dai contatti con una specifica realtà) tra dipendente e datore di lavoro che avvengono nel corso dell’intera vita professionale in una determinata organizzazione, dalla fase di recruiting all’onboarding fino all’uscita dall’azienda per cessazione del rapporto lavorativo. «Quello che abbiamo intrapreso è un viaggio e tutti ci stiamo ancora interrogando sul significato di lavoro ibrido e sul come far sì che questo concetto sia sostenibile nel tempo, sia per le persone sia per i risultati di business» – spiega Elena Panzera, VP di SAS nonché presidente del gruppo Lombardia e referente nazionale dell’area Innovazione e futuro del lavoro di AIDP (l’Associazione italiana dei direttori del personale).
La sostenibilità del modello ibrido è però il punto di arrivo del viaggio, e nel caso di SAS il percorso compiuto per raggiungere questo traguardo è stato articolato, essendo la società americana una multinazionale presente con strutture e persone in decine di paesi del mondo. «Abbiamo affrontato in modo serio questo tema per gestire le restrizioni imposte dalla pandemia, ma il concetto di lavoro ibrido nella nostra organizzazione è stato implementato molto tempo prima, a partire dal 2011. All’inizio – continua Panzera – adottavano il modello ibrido solo una volta o due volte al mese, anche se non c’erano dei limiti definiti. Poi, anche in relazione all’emergenza sanitaria, c’è stato un cambiamento molto significativo: la sfida che ci siamo posti era infatti quella di affrontare la situazione per ridisegnare in modo sostanziale e duraturo il modo di lavorare, non tramite policy rigide, ma attraverso linee guida flessibili. Non con regole, ma con principi da condividere e sottoscrivere. Consapevoli di dover gestire culture, abitudini e legislazioni diverse e di doverci mettere la faccia e la firma, dall’amministratore delegato alla prima linea dei manager».
Il risultato ottenuto è un manifesto di sette punti che abbraccia concetti chiave come la visione “customer first” (che mette al centro l’esigenza e la necessità della persona) e fa leva su nuovi paradigmi che abbandonano il classico concetto di lavoro come “job description”, spacchettando in una logica di design thinking ogni funzione in un insieme di attività da poter gestire, dove possibile, in modo flessibile. La flessibilità, non a caso, è un termine essenziale nell’ambito della tematica dell’intelligent workplace e nel caso di SAS si tratta di una “radical flexibility”, che ha abbracciato (e abbraccia) luoghi, tempistiche e modalità di gestione delle attività in relazione alla tipologia di lavoro svolto da ogni singola persona.
Il secondo caposaldo alla base del nuovo modello lavorativo della società americana è la capacità, da parte di ogni addetto dell’azienda, di mixare l’attività condotta in presenza con quella svolta da remoto in completa autonomia, rispetto alle funzioni da assolvere e agli obiettivi da raggiungere. Aumentare efficienza e produttività perseguendo un nuovo modello organizzativo e lavorativo è stato anche il principio seguito da un importante attore della consulenza a livello internazionale come PwC, una realtà che in Italia occupa, solo negli uffici di Milano, circa cinquemila persone. «I professionisti della nostra organizzazione – conferma Giulio Suppini, deputy CIO di PwC – sono abituati a operare in modalità ibrida, in quanto lavorano a stretto contatto con le aziende clienti e per questo è frequente che svolgano il loro lavoro direttamente dalla sede del cliente o, comunque, da remoto. La crisi pandemica ha rappresentato per certi versi il punto di svolta in cui si è concretizzato un cambio di modalità di lavoro e, contestualmente, con lo spostamento a Milano presso la nuova sede in CityLife, è stata un’ulteriore occasione in cui abbiamo portato a terra questa esigenza. Il grosso vantaggio che abbiamo avuto, oltre alla conoscenza del modello ibrido delle nostre persone, è nell’aver avuto a disposizione un’infrastruttura tecnologica, in termini di strumenti di collaborazione in particolare, in grado di supportare questo processo di trasformazione».
Il salto in avanti, come quasi sempre accade, non è però stato solo di natura tecnologica. In PwC è stato infatti affrontato un percorso di preparazione delle persone per aiutarle ad adattarsi velocemente a un modello che da tre giornate in ufficio e due giornate a casa è stato convertito in un modello completamente da remoto nel periodo di lockdown e si è infine consolidato in versione ibrida privilegiando il lavoro da casa, riprogettando le logiche di ripartizione degli spazi all’interno della torre a Milano di 30 piani che ospita il personale e riorganizzando i flussi delle salite e delle discese ascensori, il numero di scrivanie disponibili, le stanze per il co-working e le riunioni, e altri servizi generali. «Abbiamo effettuato – spiega Suppini – un grosso investimento in termini di risorse tecnologiche e dal punto di vista del building e dell’organizzazione logistica della azienda, rielaborando il piano di migrazione dalla vecchia alla nuova sede con tutto ciò che comportava in fatto di gestione degli accessi ai tornelli di ingresso e dei sistemi di sicurezza e di autenticazione, e intervenendo come area IT per rinforzare le apparecchiature per connettività, perché passare da mille a 3-4mila persone connesse alla rete e alle applicazioni contemporaneamente fa una differenza significativa. Il lavoro agile, nella sua accezione più estesa, porta quindi a considerare le persone come risorse attive all’interno di un contesto organizzativo che va oltre la sua dimensione fisica».
LA SERVITIZZAZIONE DEL WORKPLACE
Diversa, ma sempre e comunque riconducibile al tema della trasformazione organizzativa, è l’esperienza raccontata da Melania Testi, responsabile digital workplace, design & innovation di Regione Emilia-Romagna e nel 2019 in servizio al Comune di Bologna per seguire in prima persona un progetto di lavoro agile legato all’adozione dello smart working. «Era una sperimentazione che coinvolgeva complessivamente circa 300 persone, alle quali era assegnato il compito di testare il funzionamento di questo modello sotto vari aspetti, a partire da quello normativo per arrivare alle tecnologie digitali e agli spazi di lavoro. Parlando di digital workplace, mi ha sempre molto affascinato la definizione che ne davano gli esperti di Gartner, ossia un modo diverso e più efficiente di lavorare, e mi chiedevo come questo modello potesse essere applicato nella PA. Probabilmente – continua la manager di Regione Emilia-Romagna – ognuno di noi ha la propria idea di digital workplace: può essere una tecnologia, può essere quello che pensiamo possa abilitare effettivamente questa nuova modalità di lavoro. Personalmente, credo che, a prescindere dalle tecnologie e da tutti gli elementi che ci possono ruotare attorno, il cardine sul quale poi effettivamente i cambiamenti si innestano e succedono sono le persone. E se riusciamo effettivamente a tenere a bordo le persone, i progetti, anche se sperimentali, possono effettivamente diventare realtà».
Nello stesso periodo anche Regione conduceva scelte analoghe: una sperimentazione attiva sullo smart working e il passaggio di tutta la architettura sul cloud prima che scoppiasse l’emergenza si sono rivelati di grande aiuto perché, grazie a un percorso di change management, ha permesso all’amministrazione di garantire che tutti gli addetti potessero effettivamente lavorare a pieno regime nel periodo del lockdown. «Avere tutti gli addetti attivi in remoto – spiega Melania Testi – ha cambiato molto gli approcci e il modo di vivere lo spazio di lavoro. Se ci pensiamo, inizialmente tutti eravamo orientati a un’occupazione di tipo centrico che ci richiamava al luogo fisico, ci faceva andare in ufficio e ci faceva stare lì. Quando poi improvvisamente tutto è cambiato e ci siamo trovati in periferia, ho subito notato l’importanza della funzione di collante esercitata dalla comunicazione digitale, che ha fatto in modo che tutti restassero a bordo e in collegamento e tutti avessero una risposta». La pandemia, in tal senso, ha aiutato a cogliere più velocemente le opportunità legate al digitale: la vera sfida resta la capacità di adattarsi a contesti mutati e in continuo mutamento. Regione ha scelto di utilizzare lo smart working come leva per la trasformazione digitale e organizzativa: dopo l’emergenza ha consolidato l’esperienza appresa e ha ripensato il proprio modello di lavoro, le sedi e gli spazi di lavoro, la comunicazione e l’esperienza digitale delle persone che si muovono in un ambiente di lavoro ibrido, dove lo spazio digitale diventa unico e integrato: pensato per facilitare le attività, connettere e fare crescere la comunità.
Il ruolo della tecnologia nel processo di trasformazione del modo di lavorare diventa particolarmente rilevante in organizzazioni di grandi dimensioni. Quando le strutture aziendali sono estese, distribuite fra più sedi operative e diversi paesi, la tecnologia non solo facilita l’adozione di nuovi modelli di lavoro, ma diventa anche un elemento centrale per garantire coerenza e efficienza operativa su larga scala. La gestione e l’integrazione di sistemi complessi, la comunicazione tra team distribuiti e la manutenzione di una solida infrastruttura IT richiedono soluzioni tecnologiche avanzate e ben progettate per assicurare che la trasformazione sia fluida e sostenibile. È il caso di Solvay, multinazionale belga con una radicata presenza in Italia. Roberto Carnevale, technical lead Infrastructure & workplace della società spiega il compito a cui è chiamato il reparto IT per supportare un modello secondo il quale si lavora da ogni luogo. «I nostri team erano già abituati a utilizzare sistemi di comunicazione digitale. Questo sicuramente ha aiutato la transizione verso una metodologia di lavoro che ci ha spostato alla periferia con l’esigenza di non modificare più di tanto gli equilibri interni. L’organizzazione IT di Solvay – aggiunge Carnevale – conta circa cinquecento professionisti e ha fatto da volano per abilitare tutta la popolazione aziendale, complessivamente 22mila persone (incluso il recente spin-off di Syensqo), all’uso degli strumenti tecnologici in una nuova modalità. Siamo passati da un modello secondo il quale agli addetti si forniva il PC e il telefono fisso sulla scrivania a un modello che si basa sulla connettività ai sistemi in cloud, in modalità servizio».
Da una visione server centrica basata su un centro di elaborazione dati centralizzato ed on-premise, Solvay è passata a una logica distribuita, facendo proprio il fenomeno del BYOD (Bring your own device) e trasformando il PC aziendale in un device configurato pezzo su pezzo per essere gestito in sicurezza anche da remoto. La pandemia ha accelerato un cambiamento che ha interessato tutta l’organizzazione, trasformandolo in uno standard necessario per gestire un ambiente di lavoro completamente virtuale. «Siamo andati nella direzione della servitizzazione del posto di lavoro e della dotazione hardware di ogni collaboratore, abbandonando la logica dell’asset fisico a favore di un modello che ha convertito in servizio sia il desktop che il workplace e ha portato in cloud applicazioni, file e documenti» – sottolinea Carnevale. «È stato un profondo lavoro di re-thinking della gestione del parco installato, che ha richiesto e richiede ancora un attento e meticoloso lavoro di accompagnamento degli utenti per aiutarli a superare il timore di entrare in una nuova modalità lavorativa, molto più fluida di quella precedente».
SOLUZIONI PER IL LAVORO IBRIDO
La ricerca della soluzione perfetta per abilitare la trasformazione digitale e il percorso verso l’intelligent workplace non può che avere come soggetti protagonisti i provider tecnologici che lavorano quotidianamente al fianco delle imprese percependone e interpretandone le esigenze. Il racconto di Roberto Viggiani, head of Digital Workplace Services di Npo Sistemi, parte dal presupposto che la missione e l’obiettivo di un system integrator debba essere quella di semplificare il modo di lavorare, abilitando nuove modalità per gestirlo attraverso le tecnologie. «Il nostro compito – racconta Viggiani – è accompagnare le aziende nel viaggio per realizzare la propria strategia, anche nell’ambito della riprogettazione degli spazi di lavoro. Ciò che facciamo è trovare la soluzione per rendere più semplice e più sostenibile un processo di evoluzione e crescita di un’organizzazione, partendo dall’esaminare le sue reali esigenze».
Oggi gli aspetti da considerare sono molteplici: dalla riduzione e riqualificazione degli spazi di lavoro, sempre più piccoli e adattati ai modelli ibridi, alla crescente servitizzazione dell’IT, fino alle nuove modalità di erogazione dei servizi di supporto. Mentre le postazioni fisse si trasformano in accessi remoti tramite SIM mobili, anziché attraverso la rete aziendale protetta, diventa fondamentale garantire un supporto IT che risponda a tutte le esigenze. Di conseguenza, anche il modello di servizio diventa ibrido, con una componente che rimane in azienda e continua a operare all’interno del perimetro aziendale e l’altra da remoto. Questo cambiamento nella modalità di assistenza riflette una nuova impostazione dell’IT, che deve collaborare strettamente con altre funzioni aziendali, come le Risorse Umane, per adottare una strategia unificata e convergente.
«Il nostro approccio – continua Viggiani – è orientato ad anticipare e rispondere alle nuove esigenze. Dobbiamo garantire un service desk sicuro e accessibile grazie anche all’attenzione continua all’acquisizione di nuove competenze e conoscenze: Npo Sistemi, oltre ad essere certificato ISO 9001, ISO 27001 e ISO 20000, garantisce che tutti i processi siano compliant e che anche tutte le figure manageriali impiegate nella progettazione ed erogazione del Servizio siano certificate ITIL®. Il valore aggiunto di Npo Sistemi è anche nell’automazione integrata nei processi di configurazione e aggiornamento valorizzando in quest’ottica le capacità dell’intelligenza artificiale di migliorare la produttività e l’employee experience attraverso, per esempio, assistenti virtuali come Knowledge Base Navigator. L’utilizzo di Conversational AI (Chat, Chatbot), o sistemi di automazione di tipo RPA (Robotic Process Automation) massimizza, infatti, la capacità delle strutture di Service Desk di qualificare, indirizzare e risolvere le richieste degli utenti con tempi di intervento ridotti e coperture di servizio H24, risolvendo in maniera automatica criticità come il reset password o lo sblocco account, così da favorire la riduzione dell’errore umano e velocizzare le attività delle persone coinvolte».
C’è consenso unanime riguardo a un aspetto cruciale della trasformazione dei modelli di lavoro e della riorganizzazione degli asset, degli spazi e delle risorse umane: la complessità della situazione da gestire. Tuttavia, non esiste una soluzione universale in grado di coprire tutte le esigenze. Quando si parla di Digital employee experience (DEX) si affronta un tema nuovo, che rimanda a un approccio strategico imposto dal lavoro ibrido e dalla riconfigurazione degli spazi di lavoro e il cui fine ultimo è quello di garantire un’esperienza digitale di eccellenza agli addetti di un’organizzazione, indipendentemente da come le persone svolgono la propria professione o da che tipo di workplace utilizzano. «La Digital employee experience rappresenta una disciplina nuova» – spiega Alamo Pizzini, senior solution lead Italia di Nexthink. «Perché nasce dal punto di vista del dipendente e dalla prospettiva di cosa sta succedendo al dipendente, attraverso dati oggettivi e dati soggettivi. L’obiettivo principale è garantire un’esperienza digitale di eccellenza per tutti i membri dell’organizzazione, indipendentemente dal modo in cui lavorano o dal tipo di ambiente in cui operano».
Il secondo fattore critico alla base della DEX è il tempo, o meglio il risparmio del tempo. «La Digital employee experience – continua Pizzini – è focalizzata sul saving di questa risorsa preziosa per il dipendente che di conseguenza può essere più produttivo e soddisfatto, lavorando meglio e con maggiore efficienza. La componente IT, in questo nuovo scenario, deve supportare l’utente e gestire un workplace che deve essere sempre ottimale. Il ruolo di un’azienda tecnologica come Nexthink è di aiutare le aziende a intraprendere un percorso per passare dall’essere un’organizzazione di tipo reattivo a un’organizzazione di tipo proattivo». Gli strumenti tecnologici necessari per migrare verso un modello di lavoro agile e ibrido sono ben definiti e includono applicazioni distribuite come servizio e soluzioni basate sul cloud. Tuttavia, l’elemento cruciale della trasformazione tecnologica e organizzativa rimane, invariabilmente, la gestione dei dati per avere un approccio proattivo nella gestione dei problemi e nella gestione personalizzata della employee experience. È fondamentale disporre di una piattaforma di osservabilità che vada oltre le semplici metriche tecniche – come il monitoraggio della CPU o i tempi di avvio di un PC – e comprenda il contesto operativo di ogni dipendente e il loro livello di esperienza con i servizi. La chiave è anticipare i potenziali problemi e sfruttare l’enorme patrimonio informativo aziendale per estrarre insights utili, risolvendo preventivamente i disservizi che potrebbero impattare su migliaia di dipendenti.
TRASFORMAZIONE CULTURALE
La tecnologia non è tutto. Come sottolinea Nicola Ladisa, HR & organization director Holding di De Agostini SpA, il lavoro ibrido, è anche un tema di organizzazione, di storia e di valori aziendali. «Il valore relazionale rappresenta una componente fondamentale. Per migliorare i processi di lavoro e le attività delle persone, bisogna superare pregiudizi e cambiare approccio. Il vero cambiamento trasformativo è culturale: il lavoro deve diventare agile sia nello spazio che nel tempo. L’obiettivo è passare da uno schema rigido spazio-tempo a uno più flessibile, incentrato sulla collaborazione e sull’adozione di nuovi paradigmi».
Nel cammino di trasformazione verso l’intelligent workplace, il ruolo dei leader delle risorse umane, dell’area IT e delle altre funzioni aziendali chiave può fare la differenza tra adozione di successo e fallimento. Questi leader, al fianco di CEO, guidano l’organizzazione attraverso il cambiamento. Ma come sta evolvendo il ruolo del leader? Come possono facilitare il passaggio verso ambienti di lavoro più intelligenti? E quali responsabilità aggiuntive devono assumersi? Secondo Ladisa, non esiste una lista di caratteristiche predeterminate per rispondere a queste domande, ma si tratta di seguire un metodo: è essenziale avere persone motivate, adeguatamente supportate e messe nelle condizioni di esprimere al meglio le loro competenze. La tecnologia gioca un ruolo chiave in questo processo, contribuendo a creare un ambiente di lavoro in cui ogni individuo può esprimere il proprio potenziale.
«Il leader – spiega Ladisa – deve affrontare il cambiamento in modo paradigmatico, abbandonando lo schema tradizionale basato su assertività, assegnazione di compiti e controllo, di cui la presenza fisica era pilastro, e abbracciando un modello che fa leva su fiducia e definizione condivisa degli obiettivi». Serve, in altre parole, una spiccata capacità di mantenere motivate le persone anche in una situazione di lavoro agile, tenendo ben presente che queste persone appartengono a generazioni diverse e vivono le dinamiche del lavoro ibrido e flessibile in modo diverso. Il cammino verso un ambiente di lavoro intelligente e connesso è ancora in corso, ma ha già fissato alcuni principi fondamentali per la sua corretta attuazione. Tra questi, spiccano il supporto cruciale degli strumenti digitali, la servitizzazione dell’IT per abilitare un modello di lavoro flessibile, la formazione continua dei lavoratori e il change management che attraversa tutta l’organizzazione. Ora, il focus si sposta sul superamento degli ultimi ostacoli, puntando a costruire relazioni professionali solide e collaborative tra generazioni diverse. Questo approccio garantirà una transizione fluida e produttiva verso un futuro lavorativo sempre più integrato e dinamico.
Point of view
Intervista ad Alamo Pizzini senior solution lead Italia di Nexthink: Digital employee experience continua
Intervista a Roberto Viggiani head of Digital Workplace Services di NPO Sistemi: Come semplificare il lavoro ibrido
Brother: Le nuove sfide della Printing Security