La tecnologia corre più veloce della capacità dell’uomo di comprenderne impatti e sviluppi. Un’asimmetria nota a filosofi e scienziati come Kuhn, Feyerabend, Foucault, Latour, Gadamer che sull’argomento hanno scritto pagine preziose per aiutarci a comprendere le complesse relazioni tra scoperta e impatto sociale delle innovazioni scientifiche e tecnologiche.
Oggi il nuovo giocattolo che abbiamo tra le mani si chiama intelligenza artificiale generativa. Una tecnologia dirompente, dal potenziale immenso. Nei confronti della quale, tuttavia, persino chi ha contribuito a svilupparla mette in guardia dai pericoli di non poterne prevedere lo sviluppo. Come spiega Nello Cristianini nel saggio “Machina sapiens – L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza” (Il Mulino, 2024), non solo ogni rete neurale ha caratteristiche uniche, ma dalla quantità e qualità dei dati che diamo in pasto all’AI derivano le possibilità che dalla tecnologia emergano nuove capacità. Una delle proprietà più sorprendenti delle reti neurali infatti è di continuare ad apprendere durante ogni sessione di training, con sviluppi impossibili da prevedere anche da parte di chi le ha ideate.
L’AI Act di cui scrivemmo meno di un anno fa da queste stesse pagine, approvato dal Parlamento di Strasburgo, ci fa giustamente sentire orgogliosi come europei della nostra capacità di arrivare prima di qualsiasi altro nel cercare di prevenire gli usi distorti derivanti dall’utilizzo improprio della tecnologia. Uno sforzo impegnativo ma al tempo stesso essenziale. Un passo avanti enorme rispetto a quanto per esempio non siamo riusciti a fare con il cambiamento climatico dove invece stiamo inseguendo per rimediare ai danni fatti. La primazia in campo legislativo lascia aperti molti scenari. Solo a distanza di tempo e anche per effetto di quel che avverrà in altre aree geografiche sarà possibile misurare l’efficacia del tentativo di regolamentare una tecnologia e un settore in rapidissima evoluzione. Non dimentichiamo però l’effetto domino provocato dal GDPR, oggi il framework di riferimento per tutti i paesi democratici attenti alla tutela dei dati personali. Lo stesso potrebbe ripetersi con l’AI Act, un modello a cui guardare e possibilmente migliorare. L’Europa infatti – come denunciano Amnesty International e altre organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti civili – con l’AI Act ha creato un pericoloso precedente, escludendo dal campo della regolamentazione i settori difesa, sicurezza e intelligence, e al tempo stesso istituzionalizzando così delle eccezioni al perimetro di sicurezza e protezione dei diritti in favore e in nome della sicurezza dei singoli stati nazionali.
Si poteva dunque fare meglio? Senz’altro sì. Ma è un inizio promettente. Ora la palla passa ai singoli stati nazionali che dovranno agevolare la diffusione della tecnologia nella società e tra le imprese, senza annacquare i principi stabiliti a Bruxelles. Se davvero vogliamo che l’intelligenza artificiale sia il motore dell’innovazione di questo secolo, la sfida è di riuscire a democratizzare e diffondere tutto quello che di buono – ed è già tantissimo – oggi è possibile fare. Dotando le misure legislative che seguiranno dei fondi necessari per spingere la diffusione della tecnologia non solo nel sistema industriale. Punti sostanziali, poco negoziabili, su cui vorremmo tanto non rimpiangere l’efficienza e la lungimiranza dell’Europa.