Ibrida e smart, la nuova flessibilità del lavoro combina modelli di organizzazione e produttività. Quando, dove e come, ridefiniti dalla tecnologia che permette di accedere ai dati e ai sistemi aziendali in modo sicuro e protetto, migliorando le competenze e work-life balance. Con la partecipazione di Lexellent, Gruppo CAP, Luisaviaroma, Enel, DF Sport Specialist, ACI Informatica, TeamSystem, Adobe, SAS, AIDP
Il mondo è cambiato, non c’è dubbio. Le aziende lo hanno fatto anche loro. Non tutto è avvenuto o avverrà senza scossoni, ma il vantaggio competitivo che se ne potrà trarre sarà sicuramente superiore a quello che si è perso, se valorizzato nel modo corretto. Qualcuno soffrirà del cambiamento, probabilmente saranno principalmente i capi intermedi a doversi confrontare con questo tsunami, ma saranno anche loro che ne trarranno i massimi benefici, se sapranno utilizzare la delega vera, quella che è stata obbligatoriamente utilizzata nei periodi di lockdown quando il controllo “visivo” non poteva essere esercitato. Lo stesso accadrà per i lavoratori che sapranno “usare” la delega per dimostrare il proprio potenziale, per far emergere quelle conoscenze nascoste in ognuno che, a conti fatti, definiscono il valore di un’azienda, più che il mero profitto misurabile come la capacità di estrarre valore tangibile da ogni dipendente.
Occorre attivare un colloquio tra azienda e lavoratori che porti a concordare quando e dove lavorare “da remoto”, facendo accettare all’azienda il riconoscimento che è necessario valorizzare la cooperazione dei propri dipendenti, portando vantaggi sia alla sostenibilità della vita dei lavoratori che alle esigenze dell’azienda. Il vero nocciolo della scommessa sta proprio nella messa a valore delle capacità di ognuno, in un paradigma organizzativo molto più collaborativo e meno gerarchico, che valorizzi le capacità di ciascuno mettendole a fattore comune dell’azienda. E questo dipende in larga misura dalla capacità dei capi di fare a meno, per essere seguiti, di un esercizio del potere legato alla posizione gerarchica o al ruolo.
La tecnologia svolge in questo processo un ruolo fondamentale di abilitatore e strumento di unione. La tecnologia dovrà dimostrare di essere efficiente, efficace e soprattutto alla portata di tutti. La scommessa non è facile, né scontata. Solo la collaborazione tra l’area organizzativa delle aziende e l’area tecnologica potrà rendere un’eventuale imposizione un valore fondamentale per lo sviluppo sostenibile, sia a livello sociale che economico e produttivo, delle aziende del futuro. Non esiste una tecnologia ben fatta o male fatta: esiste solo una tecnologia che aiuta l’uomo a raggiungere i risultati che si è prefissato, sfruttando le diversità e le necessità del momento con un occhio rivolto al futuro. La tecnologia è presente, ma deve essere implementata e integrata nei processi aziendali in modo da consentire il controllo di tutte le variabili in gioco in questo processo di cambiamento. Non è il momento di avere paura di cambiare!
Il modello lavorativo classico prevede la presenza fisica dei dipendenti nei luoghi di lavoro, con un controllo diretto da parte del datore di lavoro. La pandemia ha invece imposto un cambiamento totale di paradigma, svuotando gli uffici e portando molti lavoratori a svolgere la propria attività da casa. Come hanno affrontato le aziende questo cambiamento? Chi ha sofferto di più, i capi o i lavoratori? La tecnologia è stata in grado di supportare efficacemente questo periodo? Si è trattato di un esperimento di massa che ha prodotto risultati diversi, ma che ha permesso di mantenere accesi i motori dell’imprese, in molti casi utilizzando soluzioni già esistenti.
Poi, con un lento e graduale ritorno alla “socialità”, si è imposto il modello ibrido che nel periodo transitorio prevedeva il ritorno di parte della forza lavoro negli uffici, lasciandone un’altra fetta a continuare a lavorare da remoto. Secondo molti analisti questo modello ibrido rappresenta un punto di svolta che caratterizzerà l’organizzazione delle nostre aziende anche in futuro, con un vantaggio immediato in termini di sostenibilità ambientale e sociale. Considerando tutte le attività di un tipico giorno lavorativo, come collaborazione, condivisione di documenti, lavoro di gruppo, riunioni, presenza sul territorio e riunioni ibride, quali sono le problematiche tecniche e operative che emergono? Il lavoro da remoto può comportare rischi di sicurezza e richiedere una formazione adeguata per i lavoratori per riconoscere e prevenire tali rischi. È importante utilizzare tecnologie che consentano la salvaguardia dei dati tramite l’utilizzo del cloud, nonché strumenti per la manutenzione e l’assistenza a distanza. La virtualizzazione degli ambienti di lavoro può rendere più flessibile ed efficiente il lavoro da remoto, anche in condizioni di connettività inadeguate. Inoltre, un’infrastruttura di base adeguata alle esigenze del mercato del lavoro è essenziale per il modello di lavoro ibrido.
Infine, con l’avvento del lavoro ibrido, le modalità di lavoro all’interno della Pubblica Amministrazione potrebbero essere profondamente rivoluzionate. In particolare, le nuove modalità di lavoro potrebbero consentire una maggiore flessibilità e una maggiore attenzione alla qualità del lavoro svolto, piuttosto che alla presenza fisica dei dipendenti. Questo potrebbe avere un impatto positivo sulla capacità delle amministrazioni pubbliche di attrarre talenti e di mantenere dipendenti motivati e soddisfatti.
ORGANIZZAZIONI E CAMBIAMENTO
«Il cambiamento nelle modalità di lavoro ha causato sofferenza soprattutto nelle organizzazioni» – afferma Alessandro Montanari, CPXO di Luisaviaroma. «Il modo classico di intendere l’organizzazione aziendale è stato minato nelle radici». I manager abituati a gestire il lavoro e i propri team attraverso il costante “controllo visivo” si sono trovati improvvisamente privi di punti di riferimento e in parte anche del loro potere. Il sistema di micromanagement ossessivo, che spesso prestava poca attenzione alla performance effettiva, è stato improvvisamente stravolto. In altre parole, il capo doveva vedere i suoi dipendenti, sapere che erano sempre a sua disposizione e fornire direttive precise per ogni singola attività, con poche deleghe. «Questo manager o si è evoluto oppure è in crisi profonda perché ha perso i propri riferimenti» – insiste Montanari. «Questo modello non ha favorito lo sviluppo della fiducia reciproca, che invece è il vero fondamento del nuovo modo di lavorare».
In questa situazione, il lavoratore in smart working può sperimentare una sensazione di spaesamento. «Purtroppo, la maggior parte delle aziende ha affrontato questo cambiamento attraverso la formazione, l’engagement e il ridisegno dei processi, ma non dal punto di vista del change management, che invece è assolutamente necessario e prioritario» – sottolinea Montanari. «Quando si parla di smart working, si fa riferimento solo al benessere delle persone e all’impatto positivo in termini di risparmio energetico, ma raramente si associano i vantaggi di questo nuovo modello all’aumento delle performance e della competitività». Probabilmente, la mancanza di fiducia è alla base della difficoltà di misurare appieno la performance dei lavoratori in un modello organizzativo che non si basa sulla presenza fisica e sul controllo visivo dettagliato del lavoro svolto e del tempo impiegato. Il passaggio a una misurazione delle performance per obiettivi è stato difficile, poiché gli aspetti relazionali sono stati diluiti o persi completamente. Tuttavia, alcune aziende avevano già intrapreso un percorso di cambiamento del modo di misurare le performance, legandolo non solo alla quantità di lavoro svolto, ma anche al come e al perché viene fatto.
È il caso di Enel. «Questa modalità di misurazione delle performance in Enel era già orientata a un feedback individuale e ricorrente da restituire al lavoratore con l’assegnazione di obiettivi quadrimestrali da parte dei responsabili, che quindi stavano già modificando in modo strutturale la loro azione» – spiega Carlo Albini, direttore P&O Holding, Staff & Service Function di Enel. Certo è che la transizione ai modelli ibridi ha portato fuori dalla propria zona di comfort manager e middle manager causando una vera e propria disruption e inducendo velocità diverse di adozione da parte dei singoli responsabili anche in relazione alla cultura del Paese di appartenenza ed alla propria propensione al cambiamento. «Il cambiamento è avvenuto prima che si potesse impostare un piano organico di change management – sottolinea Albini – e quindi ci siamo trovati tutti a rincorrere un percorso di adattamento, lavorando anche sull’aspetto culturale. Infatti, l’approccio al lavoro ibrido che ci si può aspettare da un lavoratore europeo può essere profondamente diverso da quello atteso da un lavoratore statunitense».
Il lavoro a distanza ha “rotto” le ruotine classiche di interazione tra i singoli e il team. «Il feedback, anche se forzato in un setting online, è diventato un elemento di grande agevolazione». Con il ritorno alla normalità, l’aspetto relazionale è diventato un altro elemento da gestire e trasformare. Secondo Albini, il lavoro in modalità ibrida ha un elemento di ambiguità: «La presenza fisica non può essere solo un corollario dell’organizzazione delle attività. La presenza pianificata senza uno scopo chiaro legato alla relazione e al valore aggiunto dei momenti di interazione con i colleghi può diventare un elemento di tensione per la stessa organizzazione».
In questo senso, diventa importante che i responsabili forniscano un senso al ritorno in sede, che vada ben oltre il mero accordo sindacale. Montanari di Luisaviaroma afferma che lo spazio organizzativo è uno spazio relazionale, e quindi i social e le community sono importanti anche nell’organizzazione aziendale. «La formazione dei manager diventa cruciale per sopperire alla naturale fragilità ed imperfezione delle organizzazioni».
VERSO UN MODELLO UNIVERSALE?
«Ci sono ambiti in cui il lavoro ibrido è oggettivamente di difficile adozione» – spiega Maria Elena Bossetti, head of HR di DF Sport Specialist. «Basti pensare al mondo del retail e dei punti vendita dove sia gli addetti di negozio che i buyer centrali necessitano di una presenza fisica». In DF Sport Specialist, poiché i dipendenti degli uffici centrali, naturali destinatari di forme di smart working, godono già di vantaggi orari superiori rispetto ai dipendenti dei negozi che lavorano su turni sette giorni su sette, si è deciso di non adottare un modello di lavoro ibrido per nessuna categoria, al fine di garantire l’allineamento meritocratico. «Il total smart working porta la persona ad isolarsi, portando a problematiche comunicative e relazionali. Inoltre la vera professionalità si forma nell’ambito del rapporto con le persone e tramite il conflitto, aspetti importanti per la crescita della persona: per questo motivo la soluzione ibrida è l’unica attuabile in quanto va ad attenuare i potenziali effetti negativi dello smart working» – afferma Maria Elena Bossetti. La natura dell’e-commerce, anche grazie all’uso avanzato dei social che mantengono sempre attiva la connessione con il cliente, rende il lavoro adatto a un modello ibrido che consente di agire per obiettivi senza riferimenti a tempi e luoghi predefiniti. «Nel retail, i dipartimenti che gestiscono l’e-commerce e i social saranno i primi ad adottare formule ibride» – spiega Bossetti.
Sono soprattutto i giovani a chiedere durante i colloqui di assunzione formule di lavoro ibrido – «forse perché hanno cambiato i loro valori e le loro priorità» – sostiene Montanari di Luisaviaroma. Tuttavia, è importante prestare attenzione ai rapporti interpersonali e alla necessità dell’essere umano di interagire fisicamente con i suoi simili e di socializzare. «Altrimenti, molte persone potrebbero sviluppare problemi comportamentali» – commenta aggiunge Bossetti di DF Sport Specialist. A livello organizzativo, è fondamentale definire le ragioni per cui è necessario tornare in sede per alcuni giorni. «Ma stare in ufficio solo per svolgere le stesse attività che si svolgono da remoto, senza attività socializzanti come meeting di confronto e progettazione, non solo è assurdo, ma anche controproducente» – avverte Montanari. «L’organizzazione del lavoro non si deve limitare a rispettare solo gli adempimenti normativi, ma deve creare le condizioni migliori per permettere ai lavoratori di ottenere i risultati migliori» – spiega Mauro Minenna, CEO di ACI Informatica e direttore del Dipartimento della Trasformazione Digitale sotto il governo Draghi. «Forse, i giovani non hanno cambiato le loro aspirazioni e priorità, ma pongono più domande su come la tecnologia può contribuire al loro raggiungimento senza dover necessariamente essere presenti in sede in modo continuativo» – sostiene Giorgia Sali, marketing business partner area clienti HR di TeamSystem.
I PILASTRI DELL’HYBRID WORKING
La richiesta di senso è la priorità. Una domanda alla quale le aziende devono rispondere. «Ciò che occorre fare è chiarire lo scopo per cui sia necessario tornare in ufficio» – sottolinea Albini di Enel. «Inoltre, occorre continuare a fare leva sulla fiducia nei colleghi. Come nel pieno della pandemia abbiamo fondato la resilienza delle nostre organizzazioni sulla fiducia nel fatto che ognuno di noi agisse da remoto per il bene dell’azienda, anche oggi nei contesti ibridi dobbiamo confermare e praticare questo valore (la fiducia) a tutti i livelli organizzativi».
L’elemento culturale e la leadership manageriale sono aspetti critici di questa evoluzione. «Si entra in una azienda per il brand e si va via per il proprio capo» – commetta Stefano Quaia, delegato di AIDP e direttore HR di SAS. La formazione del manager è l’aspetto saliente del cambiamento. La direzione HR può dare un fondamentale contributo attivando una stretta collaborazione con l’area IT per definire una strategia basata sui dati, al fine di creare un ecosistema relazionale che tenga conto dell’utilizzo delle nuove tecnologie. Le HR hanno la responsabilità di far collaborare le diverse funzioni, in primis l’IT e le operations, per definire l’organizzazione che si intende implementare in modo che abbia senso per tutti gli stakeholder coinvolti, anche perché – conclude Quaia – uno dei temi fondamentali del modello ibrido è quello della motivazione».
Secondo Michele Tessera, CIO di Gruppo CAP, che gestisce il servizio idrico integrato della Città metropolitana di Milano, se le persone non sono formate ed accompagnate in modo adeguato nell’adozione di nuove forme di lavoro ibrido – «possiamo mettere tutta la tecnologia del mondo, ma non si va da nessuna parte. Inoltre, non dobbiamo sottovalutare l’importanza del re-skilling delle persone in relazione alle nuove tecnologie che continuano a evolversi, per esempio le funzioni di intelligenza artificiale. La tecnologia non deve essere inserita in azienda a prescindere, ma solo quando necessario e sempre in sinergia con tutte le aree aziendali – IT, HR e linee di business – per accompagnare il lavoratore a sfruttarne appieno le potenzialità e a conoscere i suoi limiti».
IL NUOVO RUOLO DEL MANAGER
Il ruolo del manager in un ambiente lavorativo remoto, sia come individuo che come parte di un team, diventa ancor più complesso in quanto richiede abilità comunicative specifiche che spesso non sono state adeguatamente sviluppate. Queste abilità dipendono non solo dalle competenze manageriali, ma anche dalla predisposizione individuale. Ciò solleva la questione se un manager, oltre alla conoscenza tecnica e alle competenze manageriali, debba possedere anche competenze specifiche di comunicazione e di team building. «Il confronto tra aziende e manager rappresenta un’importante opportunità per affrontare i cambiamenti e le problematiche che il nuovo modo di lavorare sta portando con sé» – afferma il delegato di AIDP. L’Associazione Italiana che riunisce i direttori del personale svolge un ruolo fondamentale nella formazione dei professionisti HR di oggi e di domani, fornendo loro le competenze necessarie per guidare la trasformazione e sfruttare appieno le potenzialità del lavoro ibrido.
«Il lavoro da remoto ha portato una rivoluzione nell’approccio alla sede di lavoro e ha sollevato importanti domande circa la necessità di lavorare in ufficio. I manager devono essere pronti a rispondere in modo chiaro e preciso alle richieste dei lavoratori e motivare il rientro in sede come un’opportunità e non un obbligo» – spiega Quaia. «Inoltre, la possibilità di avere una base comune per discutere delle normative di riferimento e interloquire con le istituzioni rappresenta un vantaggio che può facilitare la gestione del cambiamento e il successo delle aziende nel mercato attuale».
Occorre aiutare le aziende e i manager a gestire alcune problematiche indotte dal lavoro a distanza: la mancanza di comunicazione e di socializzazione, l’isolamento, il burn-out e il quite-quitting, in altre parole il fatto di fare il dovuto senza metterci nulla di più perché altri fattori – interessi, famiglia, spazio – vanno ad influenzare il tempo e l’impegno dedicati al lavoro.
È importante evidenziare – come rileva Albini di Enel facendo riferimento al recente report di Gallup sui livelli di engagement nei luoghi di lavoro – che la percentuale di quite-quitters pre-pandemia, quindi con lavoro classico in sede, risulta identica a quella del post-pandemia, quindi con lavoro ibrido.
Il rapporto tra lavoro e sfera sociale sta assumendo un nuovo significato rispetto al passato, grazie all’ibridazione delle modalità di lavoro che dimostra di poter influenzare positivamente anche la performance. La fiducia è il perno di questo spostamento che coinvolge anche altri temi cruciali della dialettica tra equità e meritocrazia, nonché tra diversità e inclusione. Come sottolinea Quaia, questa connotazione nuova richiede una maggiore attenzione da parte delle aziende per garantire l’inclusione e la giusta valorizzazione dei propri dipendenti, in modo da evitare disuguaglianze e discriminazioni.
La normativa, che nasce in epoche storiche diverse, viene adattata per regolare tematiche nuove e peculiari. Con tutti i limiti del caso. «La normativa rischia di essere un falso problema» – afferma Ugo Ettore Di Stefano, avvocato e senior partner dello studio Lexellent. «Le leggi ci sono in Italia, come a livello internazionale. La vera questione è la conoscenza. Occorre fare i conti con la normativa esistente, verificando le modalità di attuazione». Le aziende non si possono chiudere in sé stesse, ma devono confrontarsi, anche tramite le associazioni di categoria, e mettere in comune le esperienze, facendosi aiutare da esperti che siano in grado di interpretare la normativa e declinarla correttamente caso per caso. «La coesistenza tra lavoro in presenza e lavoro da remoto è un dato di fatto» – continua Di Stefano. «Per forza di cose, i due modelli coesisteranno. Il vero problema è che l’attuazione differirà da azienda ad azienda in modo significativo perché i modelli organizzativi sono diversi per svariate motivazioni». Le norme esistenti dovrebbero incoraggiare le aziende a riflettere sulla loro organizzazione interna e a partire dalla definizione di un modello organizzativo adeguato a raggiungere gli obiettivi di business, piuttosto che costringerle ad adattarsi a modelli prefissati che potrebbero non essere adatti alle loro specifiche esigenze. In questo modo, le aziende potrebbero sviluppare un approccio più personalizzato e flessibile, in grado di garantire una maggiore efficacia e sostenibilità nel lungo termine.
Frammentazione o universalità? «Il modello ibrido è una modalità di svolgimento del rapporto di lavoro attribuibile a svariate tipologie di personale, secondo un modello universale. La normativa c’è, bisogna conoscerla ed è necessario adattarla al contesto dell’azienda» – spiega Di Stefano. «Non occorre creare il modello migliore, ma individuare quelle procedure e policy che permettano alle aziende di adattarsi velocemente. La mancanza di normative specifiche spesso viene usata dalle aziende come scusa per non attuare certi cambiamenti organizzativi, ma siccome nell’ordinamento giuridico italiano vige la norma che tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso, se esiste la volontà di fare qualcosa la modalità giuridica di farla nella stragrande maggioranza dei casi si trova». Senza considerare – come commenta Montanari di Luisaviaroma – «che spesso le HR si nascondono dietro al fatto che se si permette un certo atteggiamento si crea un precedente». Il vero problema è l’interdisciplinarietà delle responsabilità aziendali – riprende Di Stefano. «E quindi la necessità di coinvolgere le funzioni per definire il contesto organizzativo corretto e la normativa di riferimento. Non è pensabile, per esempio correre il rischio di far redigere procedure organizzative ad una sola funzione causando possibili discrepanze con il modello organizzativo in essere o in adozione».
SINERGIE TRA HR E IT
La tecnologia ha avuto un ruolo salvifico durante la pandemia. «Il ruolo delle HR può solo trarre vantaggio da una tecnologia abilitante e funzionale al modello organizzativo» – afferma Montanari di Luisaviaroma. Anche la direzione IT deve essere coinvolta in quanto deve supportare adeguatamente il modello organizzativo. Secondo Michele Tessera di Gruppo CAP, la tecnologia è pronta a supportare il modello ibrido con un percorso che deve essere affrontato dall’azienda step-by-step sia da un punto di vista di awareness delle persone che di strumenti». La pandemia ci ha dimostrato quanto sia importante fare programmazione di adozione di nuove tecnologie in relazione alle nuove modalità lavorative. La tecnologia ha cambiato anche il modo di fare lo stesso lavoro di prima. «Fino a poco tempo fa, per cambiare la pressione di un pozzo di acqua dovevi recarti in loco, mentre oggi puoi governare tutto dalle centrali remotizzate oppure tramite app o applicazioni ad hoc» – spiega Tessera. «E questo ha portato a porre l’attenzione adeguata anche alla sicurezza sia tecnologica che fisica, nonché alla privacy dei dati».
La formazione e la cultura sono aspetti cruciali, soprattutto in un mondo del lavoro che sta subendo importanti cambiamenti e richiede maggiore attenzione ai dati che circolano sui dispositivi. È importante sottolineare che, per quanto riguarda la privacy dei dati, la normativa italiana è allineata con quella europea e che a livello internazionale sono in atto accordi adeguati. Il principio fondamentale è quello dell’accountability, ovvero la responsabilizzazione degli attori coinvolti nella gestione dei dati personali.
In altre parole – spiega Di Stefano dello studio Lexellent – «non viene più chiesto di fare un elenco dei documenti e dei dati che si raccolgono, ma una volta fatto, bisogna essere in grado di spiegare il motivo per cui sono stati raccolti, per quale finalità e per quanto tempo verranno conservati». E soprattutto, se i dati vengono anonimizzati, possono essere utilizzati in modo più ampio e per dare valore al dato stesso. Il concetto di accountability è ancora più importante nel contesto del lavoro ibrido, poiché – continua Di Stefano – «obbliga le aziende a porre le domande corrette rispetto alla propria organizzazione e agli scopi per cui raccolgono determinati dati».
Per Giorgia Sali di TeamSystem, il tema di fondo non è tanto abilitare il lavoro remoto tramite la tecnologia, ma piuttosto attivare un modo di lavoro ibrido che sia gestito sulla base delle prestazioni e degli obiettivi, liberato da vincoli di tempo e di luogo. «Il dipendente è considerato da due prospettive: innanzitutto come lavoratore, un tassello dei vari processi aziendali che vanno portati avanti. La tecnologia in questo caso viene a supporto con tutti i software gestionali in grado di supportare adeguatamente il nuovo lavoro ibrido. In seconda battuta, il lavoratore è visto come parte dell’organizzazione, cioè come persona che ha necessità di interfacciarsi con tutto l’ecosistema HR».
All’inizio della pandemia, le aziende si sono trovate impreparate ad esporre o adottare applicazioni gestite ed utilizzate da remoto in modo corretto ed efficace. «L’adozione di una tecnologia può essere considerata pienamente riuscita non solo quando si fa la stessa cosa con un sistema diverso, ma quando si cambia il modo di fare le cose con processi nuovi, meno frammentati e più collaborativi» – spiega Giorgia Sali. Come conseguenza positiva della remotizzazione forzata del lavoro, oggi l’Italia è uno dei primi paesi europei per utilizzo di applicativi in cloud all’interno dell’impresa. «Anche se l’implementazione tecnologica in Italia quasi sempre è frutto di un obbligo o di una emergenza» – commenta Sali.
«La sfida oggi risiede nel passare dalla contingenza indotta dalla necessità alla continuità. Anche le funzioni HR sono cambiate, passando dal ruolo di semplice gestore di paghe e presenze ad attore che si occupa del benessere del dipendente, dell’analisi delle performance, dello sviluppo e del mantenimento dei talenti». Sebbene sia vero che il numero di dimissioni sia aumentato notevolmente – come rileva Albini di Enel – ciò implica solo che si è creato un vero e proprio mercato del lavoro. «Inoltre, finalmente oggi si sta manifestando la differenza tra un’area HR adempitiva, che si concentra principalmente sul rispetto degli obblighi e della compliance, e un’area HR trasformativa, che aiuta ad interpretare e a cogliere le opportunità di trasformazione per l’azienda».
Una corretta attuazione del modello organizzativo richiede una collaborazione interdipartimentale tra IT, HR, Legal e le linee di business. È fondamentale che il rapporto tra IT ed HR sia di cooperazione e non di conflitto, poiché solo una stretta collaborazione tra queste due aree può portare all’adozione di nuovi modelli organizzativi. L’area HR non è più solo un mero gestore di dipendenti, ma ha acquisito un ruolo più ampio e strategico. In questo contesto – come spiega Giorgia Sali di TeamSystem – emerge il ruolo innovativo delle HR come motore per l’implementazione di sistemi e tecnologie a supporto dell’organizzazione. «Tuttavia, per raggiungere questo obiettivo, è necessario disporre di piattaforme capaci di assimilare i dati e soprattutto di interpretarli e integrarli tra di loro».
L’ITALIA È PRONTA?
Il lavoro ibrido ha aperto nuovi scenari, creando un mondo del lavoro non limitato dalla geografia e abilitando il reclutamento di personale senza la costrizione di dover abbandonare la propria residenza. Questo ha contribuito al ripopolamento di paesi soggetti ad un processo di emigrazione verso aree più idonee.
«In un paese con la morfologia dell’Italia, portare l’infrastruttura di base in tutti i luoghi e a tutti i cittadini rappresenta una sfida complessa» – afferma il CEO di ACI Informatica Minenna. «Questa situazione ha creato differenze nelle possibilità di utilizzo del lavoro ibrido tra i cittadini, determinando di fatto una suddivisione tra cittadini di prima, seconda o persino terza categoria».
Grazie al PNRR sono stati attivati investimenti per svariati miliardi al fine di ridurre il gap di accesso alle potenzialità offerte dalla tecnologia tra i cittadini, includendo la copertura delle aree bianche, la connettività in banda ultralarga e il 5G. «Il tema della dotazione di infrastrutture adeguate e della conoscenza dello strumento tecnologico sono alla base di una pila logica per poter sfruttare in modo adeguato ed efficace quanto a disposizione» – spiega Minenna. Per esempio, la gestione di una riunione in presenza è completamente diversa dalla gestione di una riunione in modalità ibrida e richiede accortezze e modi di comunicare ed interagire completamente differenti. «Sugli strati superiori della pila si trova la modalità di organizzazione del lavoro, con un elemento ontologico sovrastante che porta a una vera e propria rivoluzione di senso». Sulla PA si generano due problemi. Il primo è legato al modo in cui viene misurata la prestazione, poiché nella PA si è rimasti ancorati al principio ottocentesco che sancisce che la prova materiale del dato è rimasta in capo al cittadino, anche se dovrebbe essere già nota per altre vie. In questi casi, la digitalizzazione non ha portato a un cambiamento di processo ma solo alla trasposizione del processo esistente con l’utilizzo di altri strumenti più tecnologici: basti pensare all’uso della PEC al posto dell’invio via posta o della presentazione di una data istanza allo sportello. Il secondo problema riguarda le competenze. Attrarre talenti nella PA oggi è una bella sfida anche se alcune iniziative si stanno attuando per cercare al di fuori dei canonici mezzi di recruitment. La mobilità interna alla PA, i criteri e le regole di assunzione sono radicalmente diversi dal privato. E questo costituisce un limite.
Secondo Minenna, la struttura della pubblica amministrazione italiana, con percorsi di carriera distinti per le diverse famiglie professionali e una formazione prevalentemente amministrativa, rappresenta un problema culturale che influenza anche l’adozione dello smart working. Infatti, si ha spesso l’errata considerazione che i dipendenti della PA lavorino poco e debbano essere costantemente controllati a vista. Questa mentalità, oltre a essere ingiusta verso i dipendenti in generale, può ostacolare l’implementazione di modalità di lavoro più flessibili e innovative. «Se non si garantiscono tutti gli strati della pila, dall’accessibilità delle tecnologie e della connettività alla capacità di declinarle in valore sui processi aziendali e sociali, diventa impossibile realizzare un vero nuovo modo di lavorare e vivere» – conclude Minenna, ribadendo che la vera sfida è abilitare le generazioni future a vivere meglio e in modo sostenibile senza bruciargli le possibilità a priori, ma fornendo loro le basi su cui poter innestare ulteriori innovazioni».
FORMAZIONE E CULTURA
La formazione continua è fondamentale per mantenere alta la fiducia tra dipendente e organizzazione sia pubblica che privata. In particolare, avere strumenti formativi adeguati a modelli di lavoro ibrido è diventato irrinunciabile. Grazie all’approccio innovativo e alla costante attenzione alle esigenze di formazione espresse dal mercato del lavoro, i sistemi di Learning management system si sono evoluti per rispondere alle nuove esigenze. «I dipendenti hanno cambiato le loro priorità. Le imprese hanno trovato difficoltà a trattenere i loro talenti ed attrarne di nuovi. Da qui, la ricerca spasmodica di strumenti che permettano ai dipendenti di crescere all’interno della propria posizione aziendale o variare la propria collocazione» – spiega Riccardo Tammaro, product sales specialist di Adobe.
«Il tempo dedicato alla formazione si è ridotto, spingendo i fornitori di soluzioni software come Adobe a sviluppare il concetto di micropillole formative» – continua Tammaro. «La diffusione delle abitudini di comunicazione sui social media ha spinto a sviluppare interfacce simili per migliorare l’efficacia degli strumenti digitali. I moderni Learning management system offrono numerosi vantaggi, tra cui la possibilità di sfruttare l’Intelligenza artificiale per suggerire nuovi percorsi formativi. Inoltre, grazie all’internalizzazione dell’offerta formativa, costantemente disponibile, gli utenti possono accedere a corsi di formazione di alta qualità in qualsiasi momento. Questi due aspetti dei LMS moderni consentono di migliorare l’apprendimento e di garantire una formazione continuativa e personalizzata».
Foto di Gabriele Sandrini
Point of view
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