Ora che le stagioni non ci sono più, anche il fine-stagione risulta poco credibile come stimolo ad abbozzare i consueti bilanci. Men che meno i propositi per il futuro, in questi tempi incerti. Rispettando tuttavia il calendario, è opportuno cercare di trarre qualche insegnamento da dodici mesi che hanno visto molti drammatici cambiamenti proprio all’inizio di un 2022 che ha fatto saltare tanti decenni di relative certezze sulla tenuta complessivamente pacifica dell’Europa.
Nel comparto tecnologico, malgrado l’incupirsi del cielo che all’inizio dell’anno sembrava azzurro per l’andamento della ripresa e del PNRR, ci sono stati buoni segnali. Le storie raccontate nella cover story e nel dibattito intorno alle tavole rotonde di Data Manager parlano di una digitalizzazione sempre più “convinta”. Il fatto che un’azienda agroalimentare non basata su processi industriali intensivi scelga un approccio Industry 4.0 per governare dati alla mano la forte dinamicità e la complessità del suo mercato di riferimento, dimostra che la cultura della trasformazione digitale del business è una realtà sempre più acquisita.
Lo stesso vale per i tanti esempi forniti dalle compagnie assicurative, in un settore che sta vivendo una intensa fase di adattamento alle esigenze di una società che mostra di apprezzare uno stile digitale di vita, lavoro e consumo. E non solo grazie alla complicità di un periodo caratterizzato da forti limitazioni della libertà di movimento dettate dall’emergenza sanitaria. I clienti acquirenti vogliono poter approfondire, scegliere e acquistare prodotti che – al di là della crescente multicanalità nella relazione – diventano sempre più innovativi proprio in virtù del software usato dagli assicuratori per rivoluzionare processi come la liquidazione dei sinistri o la valutazione e la gestione del rischio.
Mentre l’economia privata e ampie zone di quella pubblica lanciano segnali estremamente positivi sul fronte della digitalizzazione, quando sta per iniziare il 2023 continuano a essere piuttosto evidenti le lacune a livello sistemico. In gioco non ci sono tanto i rapporti del cittadino con la pubblica amministrazione e i suoi servizi, dall’anagrafe digitale allo SPID. Lo stesso sito dell’Agenzia Digitale conferma che il lavoro prosegue, con l’organizzazione di forum e seminari, o la pubblicazione di linee guida.
I dubbi riguardano piuttosto la capacità di affrontare attraverso l’innovazione problemi che pesano come macigni sull’intera collettività. A partire dalla gestione di un cambiamento climatico dagli effetti devastanti su un territorio che, tra incuria, inefficienze e illegalità, proprio non riusciamo a governare. Dopo l’ennesima conta di vittime di Ischia e le polemiche politiche sulla questione dei condoni edilizi, perché per esempio non cercare di spostare l’attenzione sul piano tecnico, in direzione di strumenti software che ci aiutino a individuare più velocemente le situazioni di rischio, gli abusi commessi e i possibili interventi?
Il problema di fondo è l’apparente mancanza di indicazioni strategiche, di organi di decisione e coordinamento e alla base di tutto di una volontà politica precisa e realmente super partes in materia di trasformazione (ma sarebbe meglio dire riformismo): insomma una guida partecipata al cambiamento capace di resistere alla volatilità degli esiti elettorali. La scelta di non ricreare la struttura del ministero per l’innovazione, che in questi anni non è sempre stata in grado di incidere in misura sensibile, può essere condivisibile: niente è meno efficace di una trasformazione digitale basata sugli slogan e le targhette sulle porte. Ma se persino i produttori di riso oggi si avvalgono della tecnologia, perché temi come sanità, scuola, territorio, infrastrutture, economia produttiva non possono essere governati in modo più digitale?