Un hub di interazioni personalizzate, sistemi, prodotti e canali per valorizzare l’esperienza e la relazione con il cliente. La continuità tra fisico e digitale rappresenta il futuro del retail per connettere ogni punto e area di business in una unica piattaforma. Con la partecipazione di Design Holding, ITReview, Leroy Merlin, Manetti & Roberts – Bolton Group, Rinascente, Sole365, Sopra Steria, Veritas Technologies
Come sta cambiando il mondo retail? In quale modo la tecnologia e il digitale possono aiutare la crescita della customer experience? Quale importanza assume la conoscenza delle abitudini di acquisto? Il mondo del retail sta cambiando in modo notevole il proprio approccio al cliente. Il cliente non è più anonimo (o forse torna a non essere più anonimo), non compra solo più andando in negozio, non vuole più un servizio mordi e fuggi. Il cliente desidera essere “conosciuto”, avendo sempre meno tempo a disposizione, oltre a essere aiutato nelle scelte di acquisto. È diventato “omnichannel”. Naviga il cyberspazio, vede articoli sui siti di e-commerce e poi compra in negozio. Non sempre in questo ordine. Il cliente vuole ricevere offerte ed essere al corrente di promozioni, ma non vuole essere “disturbato” a caso. Chi vende deve riuscire a coniugare riservatezza, discrezione, cura e attenzione passando per una offerta di servizi online e fisici che si compendiano e si integrano in quello che molti hanno imparato a chiamare il mondo “phygital”. La tavola rotonda di Data Manager dedicata al mondo retail ha affrontato questi temi evidenziando l’importanza della tecnologia a supporto di questo nuovo “processo di vendita” grazie al contributo di Design Holding, ITReview, Leroy Merlin, Manetti & Roberts – Bolton Group, Rinascente, Sole365, Sopra Steria, Veritas Technologies.
INNOVAZIONE NEL RETAIL
Chi vuole fare innovazione nel retail non può prescindere dal ragionare su tematiche di gestione del dato, di livello di conoscenza del cliente e di attivazione di servizi. Ognuno di questi aspetti è supportato da applicazioni informatiche. Il cliente tende a non volere essere più anonimo ma soprattutto l’azienda lo vuole conoscere sempre meglio per essere in grado di fornirgli servizi, oltre che prodotti. Il cliente cerca sempre meno la soluzione “mordi e fuggi” ma pretende con vigore di trovare nel minor tempo possibile quello di cui ha bisogno, prodotto o servizio che sia. E questo è realizzabile solo se l’azienda a cui si rivolge conosce le sue abitudini e le sue propensioni di acquisto e cioè, usando una parola sempre più abusata, facendo tesoro della sua profilazione. Inoltre il cliente è diventato “omnichannel”. Prima curiosa su internet, poi va sul marketplace a verificare le recensioni di altri clienti, poi va in negozio e talvolta torna a comprare sul sito di eCommerce cercando l’offerta migliore del momento. Inoltre, il cliente vuole sempre rimanere informato sulle opportunità, sulle offerte, e quindi il canale marketing (ormai ce ne sono parecchi) diventa opportunità di ascolto, presenza, suggerimento e coinvolgimento.
Il cliente vuole essere conosciuto ma non pressato. Conoscerlo va bene ma non troppo sennò diventa diffidente. Il cliente vuole essere aiutato e guidato sul canale online e su quello fisico, senza soluzione di continuità. «In Leroy Merlin abbiano codificato i diversi modelli di vendita – spiega Simone De Giuseppe, leader digital business solutions di Leroy Merlin – in base al contenuto di consulenza e di servizio, dai più semplici, quelli pick-and-pay, a quelli più complessi, per esempio i progetti di ristrutturazione di interi spazi della casa. Ovviamente, questo è fattibile solo se si hanno a disposizione enormi quantità di dati per comprendere bene qual è il comportamento di acquisto, a seconda dei vari prodotti che si vanno ad implementare». In Leroy Merlin oggi ci sono tre modelli di business, quello tradizionale, quello omnicanale – e quindi l’integrazione dell’ecommerce non solo nella vendita ma anche nella parte di servizi offerti con tutti gli incroci possibili – e infine il modello a piattaforma.
«Per quanto grande sia un’azienda – continua De Giuseppe è impossibile coprire tutti i bisogni del cliente in maniera autonoma e quindi occorre sviluppare un network di partner che lavorino assieme in un concetto di marketplace». C’è quindi un marketplace di prodotti e anche uno di servizi non erogati direttamente ma tramite una piattaforma tecnologica che aggrega i partner, indirizzando il modello di guadagno legato alla vendita diretta verso quello legato a commissioni. I servizi lasciano spazio all’innovazione, per esempio le consulenze a distanza che rassicurano il cliente che forse non avrebbe concluso l’acquisto e lo invogliano a fidarsi della professionalità dell’azienda grazie a una attenzione a 360 gradi rivolta non solo al momento dell’acquisto ma anche alla cura del cliente prima e dopo. «Oggi, c’è molta più tecnologia di quella che si riesce ad utilizzare» – sostiene De Giuseppe. «E quindi oggi la problematica si è indirizzata verso l’individuazione di persone con competenze specifiche per utilizzarla al meglio». Il tema centrale sono i dati, la loro analisi e la capacità di ottenere indicazioni di business, permettendo di correlare comportamenti, stili di consumo e profili per comprendere, per esempio, perché un preventivo non viene tramutato in ordine da un dato cliente. O per fornire informazioni preventive e immediate al venditore al fine di aumentare il tasso di conversione in ordini e servire meglio il cliente. «I dati – spiega De Giuseppe – devono essere orchestrati in modo efficace tra tutti i canali a disposizione. Questa è la vera scommessa che permette all’azienda di mostrarsi efficace ed efficiente al cliente». Gli algoritmi che possono essere attivati sono tantissimi e vanno utilizzati al meglio per migliorare l’esperienza omnicanale del cliente. «Il cuore del percorso di crescita per diventare una azienda data-driven è quello di riuscire a fare una analisi dei dati in anticipazione» – afferma De Giuseppe.
«Le tecnologie stanno migliorando permettendo di riuscire a fare queste analisi anche con una quantità di dati non enorme e con una qualità massima, anche se avere tanti dati buoni migliora l’autoapprendimento delle tecnologie di artificial intelligence e machine learning. Riuscire a qualificare il customer value del cliente è prerequisito per servirlo meglio dedicandogli il tempo necessario con riferimento alla sua profilazione. La conoscenza più approfondita del cliente cambia anche la professione del retailer, e nello specifico dell’addetto alla vendita, per offrire una experience più mirata e, per qualche verso, immersiva».
Paolo Ciceri, CIO di Rinascente, afferma che viviamo in un mondo che ha trasformato in retail ogni cosa. «Basti pensare ai curricula di ognuno di noi che oggi invece di essere su carta sono su LinkedIn che altro non è che un retail che vende noi stessi». Il concetto di retailer si è molto ampliato e questo implica che chi fa questo mestiere deve chiedersi quale sia l’elemento differenziale che il cliente gli riconosce. Il prodotto di Rinascente non è il prodotto che il cliente prende dallo scaffale e porta in cassa, ma è l’esperienza. «La Rinascente da sempre è fondamentalmente un luogo di entertainment» – continua Ciceri. «Non si dice: Vado a comprare in Rinascente ma vado a fare un giro in Rinascente». L’identità è quindi molto più importante del passato. «Il mestiere non è cambiato, ma siccome c’è molta più concorrenza si rischia molto. Se non si ha una forte identità, si corre il rischio di rimanere uno tra i tanti. Il mestiere del retailer va visto nella sua globalità». Molte aziende hanno creduto che l’elemento differenziante fosse la quantità di acquisti fatti e hanno investito solo su un canale, quello dell’eCommerce, causando prima un boom e poi la chiusura di migliaia di negozi fisici, con il conseguente licenziamento di migliaia di dipendenti. «Quindi bisogna fare molta attenzione – sottolinea Ciceri – nell’individuare la propria identità come retailer senza trascurare la capacità di raggiungere il cliente sviluppando tutti i canali».
IL MESTIERE DI VENDERE
Il lavoro dell’addetto alla vendita varia in due direzioni: capacità di sviluppare relazioni di fiducia con il cliente e competenza in materia. «Innanzitutto – spiega Ciceri di Rinascente – l’addetto alla vendita deve essere in sintonia con il cliente che ha davanti. E tale sintonia vive del cambiamento digitale, soprattutto perché è il cliente stesso a essere diventato digitale». Oggi, un addetto vendita che non è in grado di colloquiare con il cliente “from anywhere” e “anydevice” – dall’utilizzo sapiente e fluido degli apparati mobili alla capacità di mostrare un video degli influencer, eccetera – non riuscirà a instaurare una relazione di fiducia e quindi probabilmente perderà anche la vendita. Il secondo elemento è legato alla competenza della materia. «Bisogna conoscere non solo il prodotto ma la storia del prodotto» – afferma Ciceri. Le risorse umane hanno il compito – onere e onore – di far crescere le persone, anche portando all’interno dell’azienda competenze specifiche sulle singole aree di prodotto in modo da aiutare la crescita di tutta la forza vendita. La digitalizzazione poi deve anche essere presente lato fornitore perché l’omnicanalità vede il retailer in mezzo – «come un hub tra chi vende e chi compra, e se uno degli attori non è digitale la somma totale non sarà digitale».
LA GRANDE DISTRIBUZIONE
Storicamente l’approccio tra punti vendita, catene della grande distribuzione organizzata e large discount è stato abbastanza diverso, passando tra due punti estremi: la conoscenza “sartoriale” del prodotto e attenzione estrema al cliente, e la grande massa di utilizzatori e di prodotti da vendere in punti di vendita fisici e con poca conoscenza degli stessi clienti. L’approccio – come spiega Pasquale Testa, CIO di Sole365, catena di ipermercati della Campania – è cambiato anche nella GDO. «Prima della pandemia la vendita online era un servizio aggiuntivo ma non essenziale che invece nel periodo pandemico e dopo è diventato un canale peculiare dell’offerta, con attivazione di servizi ad hoc». Sono cambiate le abitudini di acquisto dei consumatori. «Il canale online si è consolidato in aggiunta al negozio fisico. È il cliente che è cambiato e ha spinto l’evoluzione del comparto». Anche l’incremento dell’accesso agli strumenti digitali, in primis i social, ha attivato canali di comunicazione con il cliente, fino a poco tempo fa impensabili, che stanno portando anche nella GDO ad acquisire una maggiore conoscenza del singolo cliente permettendo analisi sempre più mirate su dati consistenti. «Sole365 è una GDO che non ha promozioni. Il cliente compra da noi soprattutto per la qualità del prodotto» – continua Testa. «E quindi non avendo una fidelity card, effettuare profilazioni è sempre stato impossibile, mentre oggi con le informazioni che ci arrivano dai social riusciamo anche a soddisfare meglio le esigenze di chi viene a trovarci in negozio, creando eventi o attivando servizi digitali in negozio, ad esempio il Wi-Fi aperto». Per Enrico Cantoni, direttore divisione Retail, Fashion e Industria di Sopra Steria, mixare algoritmi tradizionali con altri di AI o di machine learning – può aiutare a migliorare i risultati. «Per esempio, il rifornimento automatico a scaffale nella GDO per i cosiddetti “freschissimi” non segue logiche riconducibili a serie storiche e quindi adottare elementi di machine learning in questo caso può sicuramente aiutare».
RELAZIONE CONTINUA
Cosa è l’omnicanalità? Non c’è solo una definizione possibile. L’eCommerce non è solo la vendita tramite un sito web ma anche – e sempre di più – tramite il social, il cosiddetto eCommerce “conversazionale”, che può essere veicolato tramite servizi di messaggistica istantanea come WeChat o WhatsApp. Ogni retailer si deve quindi porre la domanda per trovare la risposta adeguata alla propria realtà. «In Rinascente – spiega Ciceri –abbiamo scoperto che l’omnicanalità non risiede nell’atto di vendita ma nella relazione continua con il cliente, che non può essere che trasversale su ogni canale». Occorre individuare il corretto modo di comunicare per ogni singolo canale. «Se vuoi attirare dei clienti verso la tua proposta di vini devi creare un evento che preveda per esempio dei percorsi di assaggio. Non basta dire: Vieni a trovarci perché abbiamo tante proposte enologiche» – esemplifica Ciceri. E se si è stati bravi a comunicare sui vari canali e a creare una relazione con il cliente che rispetti l’identità del retailer, allora forse l’esperienza potrà tramutarsi in vendita. Una delle sfide più impegnative è considerare l’informazione come parte integrante del prodotto. Su questo aspetto, il digital può rivestire un ruolo fondamentale» – conclude Ciceri.
ESPERIENZA UNICA E SUPPLY CHAIN
L’omnicanalità nel retail è un “must to have”. La tecnologia per attuarla esiste ma occorre alla fine realizzarla. Cantoni di Sopra Steria sostiene che il termine “omnicanalità” sia vecchio. E questo perché il termine è schiacciato nelle sue svariate declinazioni da tecnici. «Quello di cui si dovrebbe parlare è riferibile alla parola “commercio”, in altre parole indirizzare le esigenze dei clienti al meglio: vivere emozioni, avere dei servizi a valore aggiunto che ottimizzi le esigenze di tempo e di informazione per la scelta di acquisto più opportuna, e il tutto in modo fluido per il momento in cui si trovano, in negozio, da casa o in mobilità, senza una regola precisa». E’ più appropriato il termine “unified commerce” che esprime un nuovo commercio integrato fisico e digitale. La difficoltà di questo approccio non è tanto il front-end verso il cliente, la punta dell’iceberg che si vede, ma la gestione dei processi di backend, la parte nascosta dell’iceberg, che riguarda le operazioni di back-office e l’organizzazione, dalla gestione degli ordini, alla dislocazione degli stock e i relativi algoritmi di pianificazione, alla correlazione tra la pianificazione della domanda e quella della produzione. La dimensione della parte nascosta dell’iceberg dipende dal singolo settore di appartenenza e non tutti arrivano a dare importanza alle stesse cose nello stesso momento. Per esempio, la visibilità unica dello stock, esigenza imprescindibile da tempo nella GDO, è diventato più di recente una priorità nel settore del Fashion. «In qualunque ambito, con qualunque canale, si stia operando per attivare il modello di unified commerce – spiega Cantoni – è necessario che tutto quello che risiede nella parte sommersa dell’iceberg funzioni bene e sia connesso con la parte emersa, ad esempio con una vista integrata del planning. I clienti vogliono servizi che vanno dalla fluidità delle operazioni online alla consulenza nel negozio fisico con tempistiche adeguate e quindi la soluzione deve per forza essere pragmatica. Partendo dall’analisi di cosa vuole il cliente, bisogna declinare i servizi che vanno attivati e quindi anche le attività più tecnologiche da implementare, avendo un modello sottostante coerente e consistente: dai dati alla supply chain, dai metodi di pagamento alla tracciabilità del prodotto. L’addetto alla vendita deve quindi anche acquisire conoscenze cross-funzionali per servire al meglio il cliente, che sono frutto di una interconnessione tra i vari silos. Oltre alle consuete competenze di vendite e di prodotto, diventano un punto nevralgico di raccolta di informazioni di supporto al marketing e di orchestrazione dello stock, ovunque esso sia, per fare avere la merce al cliente e non perdere la vendita. La mappa architetturale applicativa deve quindi essere definita e costruita per essere efficiente, fluida e la più modulare possibile per inglobare, per esempio, nuovi canali come il metaverso, dove si può vivere una esperienza più emozionale ma alla fine deve portare alla vendita di prodotti anche nel mondo fisico attraverso un ecommerce».
Quindi – come spiega Cantoni – c’è un tema di modello in primis, anche organizzativo, e di tecnologia come abilitatore. «Implementare l’unified commerce porta dei vantaggi all’azienda perché, oltre a incrementare la relazione con il cliente e le vendite, può anche consentire una riduzione dei costi nella supply chain ottimizzandola, contribuendo ad eliminare gli sprechi, con un impatto anche sulla sostenibilità». Nelle aziende sta aumentando la consapevolezza che ottimizzare la parte nascosta dell’iceberg, per esempio la supply chain, è una necessità per fare in modo che il sistema sia efficiente, efficace e fluido. Non basta “dare una mano di bianco al negozio” per far sì che il cliente sia più soddisfatto e le vendite aumentino. «In ultimo – conclude Cantoni – non bisogna scordare il fattore umano. «Le aziende sono fatte di persone: il lavoro del change management non è affatto da sottovalutare soprattutto in un mercato come quello retail sempre molto versatile». La rivoluzione digitale della supply chain l’ha fatta Amazon facendo diventare credibile quanto prima si riteneva irrealizzabile sia in termini logistici che distributivi – come spiega De Giuseppe di Leroy Merlin.
«Aziende attrezzate per una supply chain B2B si sono dovute reinventare come B2C: un fornitore normalmente ha una catena logistico/distributiva costruita per essere efficiente nel portare il prodotto in negozio nel minor tempo possibile, senza in alcun modo interessarsi del servizio al cliente finale. Attivare una supply chain B2C – rimarca De Giuseppe – significa ribaltare la cultura esistente per andare a ricercare l’ottimizzazione della esperienza del cliente, cambiando i KPI del servizio». Dal punto di vista tecnologico, è opportuno crescere adottando strumenti di previsione della domanda e di approvvigionamento automatico, tecnologie complesse che svolgono un mestiere semplice. Altro aspetto è cominciare a occuparsi dell’ultimo miglio, per esempio, attivando sistemi di tracking sofisticati e precisi, gestendo informazioni che sono diverse su tutta la catena anche per la presenza di partner che non sono pronti per fornire dati che siano soprattutto di qualità. Anche il negozio diventa punto di partenza per il servizio di delivery al cliente finale che vive vicino allo specifico store diventando quindi esso stesso un magazzino logistico cambiando tutta la cultura pre-esistente. «L’offerta della spedizione più sostenibile è un aspetto importante che il consumatore sta sempre più chiedendo» – mette in evidenza Pasquale Testa di Sole365. «Il digitale favorisce inoltre il controllo sull’intera filiera dei prodotti che riempiono gli scaffali della GDO nonché l’interazione con il cliente, a garanzia di una sostenibilità a 360 gradi di quanto proposto. La potenza della digital transformation deve calarsi nella cultura aziendale, coinvolgendo tutti gli attori presenti: produttori, trasportatori, venditori».
L’ECOMMERCE
L’eCommerce cannibalizzerà il canale fisico oppure, come ormai sembra, il nuovo punto di equilibrio sarà una sinergia tra i diversi canali? «Oggi, l’80% dei clienti, almeno nel segmento “beauty”, cerca informazioni online prima di procedere all’acquisto. Il 60% condivide esperienze e cerca commenti sui social. Il 40% compra solo online» – spiega Lorenzo Savini Nicci, eCommerce manager della divisione Personal Care di Manetti & Roberts – Bolton Group, citando dati Nielsen. «Il cliente va cercato dove si trova. Se un cliente fa la spesa su un sito di prodotti agroalimentari biologici, io dovrò proporre la mia offerta bio su quel canale». Sarà quindi necessario per un retailer, soprattutto se come Manetti & Roberts non si rivolge direttamente al consumatore finale ma lavora tramite intermediari – distributori, negozi e GDO – rimettere sempre in discussione la propria identità per raggiungere il consumatore nei luoghi che frequenta, fisici o virtuali che siano, in un’ottica di offerta “complementare”.
Nel caso quindi di una offerta intermediata occorre quindi agganciarsi all’esperienza offerta da altri, cioè – come sottolinea Savini Nicci – «si diventa attori di uno show dove l’interprete principale è un altro, con l’obiettivo di emergere nella propria parte». Non solo. «Gli interlocutori però spesso viaggiano a velocità diverse. Facendo l’esempio della distribuzione nell’ambito del segmento beauty e personal care – continua Savini Nicci – i tre maggiori player nazionali non hanno sistemi di eCommerce adeguati e quindi non consentono al consumatore un’esperienza all’altezza della domanda». Uno dei compiti dei produttori è anche quindi quello di aiutare i distributori cercando di fornire loro tutti gli strumenti necessari per fare una proposition digitale, a partire dal linguaggio usato a seconda del canale di vendita.
«Il consumatore che ricerca prodotti online cerca informazioni diverse da quelle che l’esperienza in negozio può offrire. Su questo punto, i produttori devono accelerare e incrementare il proprio supporto alla rete distributiva». Nel futuro, l’esperenzialità diventerà sempre più enfatizzata. L’online offrirà enormi potenzialità soprattutto agli operatori più piccoli. Per esempio, si può superare facilmente in questo modo la restrizione dovuta alla disponibilità immediata di prodotti a magazzino o in negozio. Ci sono casi dove fisico e online si intrecciano e si compendiano. Parlando di canale solo online bisogna trovare il modo giusto per invogliare il cliente a comprare come farebbe in negozio, anche d’impulso. Esempi interessanti sono i virtual try-on, per provare un prodotto in modo virtuale e vederne l’effetto, oppure i live streaming con gli influencer che spiegano al consumatore come usare al meglio uno specifico prodotto.
«È l’apoteosi dell’acquisto d’impulso a livello online» – sottolinea Savini Nicci. «Ti fidi dell’influencer, ti faccio vedere un video, con un click da Instagram ti porto a comprare il prodotto sulla piattaforma eCommerce. E con soli tre click chiudi una vendita». Tornando al discorso della supply chain, cioè alla parte dell’iceberg nascosta, è necessario sottolineare che vendere a un distributore e vendere singoli prodotti portandoli a casa dell’acquirente sono due cose totalmente diverse che presuppongono una catena logistica, organizzativa e distributiva completamente diversa, che in una prospettiva di vera omnicanalità deve diventare complementare e sinergica a quella già esistente sfruttando la modularità e la duttilità dei sistemi ideati ed implementati. «C’è una prateria da colmare, con grandi investimenti da fare, ma questa nuova esperenzialità di vendita va vista come una grande opportunità» – conclude Savini Nicci.
LA CULTURA DEL DATO
Tutta questa evoluzione comporta sempre più la necessità di conoscere il cliente e, quindi, raccogliere e analizzare dati di profilazione. «La vera difficoltà sta nel creare la cultura del dato. Il problema non risiede nel reperirlo quanto nel saperlo leggere e interpretare» – spiega Andrea De Rossi, CTO di ITReview. Le persone devono essere capaci di usare le informazioni a seconda del contesto in cui si trovano e degli obiettivi da raggiungere. «L’approccio data-driven – continua De Rossi – poggia sulla qualità del dato e sulle competenze di chi deve usarlo per costruire le strategie. Serve, quindi, investire in tecnologie e soluzioni di analisi ma anche nello sviluppo di una cultura comune e condivisa, che permetta a chiunque in azienda di usare il dato nelle proprie attività». La Data Literacy deve diventare una priorità per le organizzazioni: soprattutto in un settore come quello Retail, in cui i dati proliferano, saper valorizzare tale patrimonio è strategico. Analizzare, ad esempio, i dati dello scontrinato o quelli delle fidelity card permette di approfondire i comportamenti e le abitudini di acquisto dei clienti e, quindi, di implementare iniziative o strategie per aumentare i tassi di fidelizzazione, migliorare l’esperienza d’acquisto e, non per ultimo, ottimizzare le performance economiche e finanziarie. Tuttavia, per riuscirci serve consapevolezza e fiducia nei dati ed è proprio il connubio tra tecnologia e competenze a rendere tutto questo reale. «In ITReview lo diciamo sempre: il dato comanda. Ma senza cultura è difficile comprenderlo e diventa, quindi, difficile essere data-driven» – conclude De Rossi.
LA DISPONIBILITÀ DEL DATO
Il dato è la nuova ricchezza. Le aziende moderne dovrebbero basare la propria crescita e le proprie strategie di business non solo sul day-by-day ma sull’interpretazione attenta del dato stesso. Per questo motivo, il dato deve essere sempre disponibile e reperibile, al sicuro da “failure” tecnologici o da attacchi malevoli. Il report Databerg di Veritas Technologies per misurare la conoscenza del patrimonio aziendale legato ai dati mette in evidenza come tutti conoscano bene la punta dell’iceberg ma poco la parte sommersa, i cosiddetti “dark data”, dati a lenta modificazione, dati che non hanno un owner, magari lasciati da vecchi dipendenti, Una mancanza di conoscenza che si esprime sia in termini di dimensione che di valore e qualità. Questa parte sommersa, poco nota, apre il fianco agli attacchi malevoli. «Oggi più che mai sicurezza e compliance devono procedere di pari passo» – afferma Marco Coppini, channel sales executive di Veritas Technologies. «È necessario essere “compliant”, cioè sapere cosa c’è nei propri dati e di che tipologia sono, ma anche essere “sicuri” di che cosa si ha. Altrimenti, il rischio è di aprire il fianco a possibili attacchi. La disponibilità del dato con il journey-to-cloud che molte aziende stanno attivando è un altro fattore essenziale, ma va previsto a priori nelle sue forme e modalità, anche utilizzando algoritmi di AI per conoscere meglio come archiviare o utilizzare i propri dati. «In una società, e a maggior ragione in un business come quello retail che sta diventando data-driven, la disponibilità sempre e comunque del dato è un fattore imprescindibile – spiega Coppini.
Il fatto di gestire la multicanalità, così come l’eterogeneità dei repository dove vengono memorizzai i dati – in locale o su differenti cloud – apre alla possibilità di attacchi malevoli. Secondo una ricerca di Veritas su 1500 aziende europee, il 68% delle aziende italiane sta mettendo i dati sul cloud e di queste il 35% lo sta facendo con una politica ibrida, anche multicloud. I servizi gestiti sul cloud sono in media dieci. Tuttavia, il 61% delle aziende nazionali dichiara di non essere in linea con la crescita tecnologica del cloud. Inoltre, il 45% delle aziende intervistate ha subito un attacco e il 70% ha avuto uno stop e ha impiegato più di 5 giorni per ripristinare la situazione precedente. «Appare evidente – sottolinea Coppini – come esista un gap tra l’adozione del cloud e la resilienza dei sistemi informativi». Il backup è l’ultima risorsa e gli hacker prima di tutto vanno a cercare di compromettere questa funzionalità prima di andare sull’ambiente di produzione. La business continuity è quindi un fattore essenziale per le aziende moderne soprattutto perché i dati vengono spostati su ambienti sempre diversi. Oggi, più che in passato, le aziende stanno cominciando a comprendere come allocare gli investimenti per garantire la persistenza del dato, ma senza sottovalutare i rischi.
BUSINESS E REGOLE
Per vendere un certo prodotto occorre avere talvolta una duplice conoscenza: sia quella del venditore ma anche quella dell’acquirente. Questo aspetto è sempre più vero man mano che il prodotto proposto sale di gamma, e quindi anche di costo, andando a incontrare clienti sempre più esigenti con una proposta molto modulare e personalizzata. Questo è sicuramente il caso dell’offerta del Gruppo Design Holding che propone articoli nell’ambito dell’arredamento e dell’illuminotecnica tramite marchi prestigiosi del design italiano e internazionale: da B&B Italia a FLOS, da Louis Poulsen a Designers Company, da Fendi Casa a Maxalto e Arclinea. «L’elemento esperienziale e la sofisticazione dell’esperienza devono essere proporzionali a livello dei prodotti proposti» – spiega Matteo Bianchini, CDO del Gruppo Design Holding. In un business come quello di Design Holding che vede ancora la maggior parte del proprio fatturato provenire dal mercato B2B – guidato da professionisti del settore, architetti e designer d’interni, e dal cosiddetto “contract”, ovverosia grandi progetti per grandi opere quali l’allestimento di un hotel o di una nave da crociera – la volontà forte di crescita anche nel settore B2C, tramite un piano di apertura di negozi multibrand a livello mondiale, ha reso inevitabile definire una strategia volta a conoscere il proprio cliente in modo approfondito, anche perché lo stesso cliente può operare sia come professionista sia come acquirente diretto. «Un architetto in Europa ha aspettative diverse da un suo collega statunitense dell’area APAC» – spiega Bianchini. «Perché, per esempio, negli Stati Uniti un cliente per il 40% dei casi è intermediato da un architetto mentre in Europa è molto più facile che entri direttamente in negozio con le idee già ben chiare. Questo comporta che un cliente – che entra in un negozio di Dubai e vuole discutere, in quanto architetto, di un progetto per un condominio di lusso – “pesi” sette volte di più di un cliente singolo che entra nel nostro negozio di via Durini a Milano. Ed è quindi chiaro perché sia essenziale conoscere chi sta entrando nel nostro store, perché il servizio offerto sarà logicamente diverso».
Tuttavia, la sofisticatezza dell’emozione, offerta per tutte le categorie di potenziali clienti, deve essere portata al massimo anche grazie alla tecnologia che deve diventare un supporto all’eccellente conoscenza messa in campo da parte degli assistenti di vendita. «La parola CRM, e il concetto retrostante, devono entrare nella cultura di questa tipologia di aziende. Fino a oggi, si è sempre ritenuto che il prodotto fosse vendibile solo per la sua bellezza e qualità intrinseca, sottovalutando il valore della relazione» – insiste Bianchini. I dati possono non essere tanti oppure essere una valanga. In tutti i casi, vanno trattati e analizzati al meglio al fine di creare una esperienza ottimale per il cliente. Vanno quindi create tramite la tecnologia delle esperienze in grado di aiutare il cliente potenziale a sentirsi seguito e di visualizzare i prodotti non presenti nello store, con la configurazione desiderata, in modalità virtuale e 3D con risoluzione 4K, oppure contestualizzabile in realtà aumentata nel proprio ambiente di destinazione. «Occorre sempre porre molta attenzione agli aspetti innovativi che la tecnologia ci mette a disposizione, dal Metaverso come ambiente dove “vivere” una realtà parallela, all’utilizzo degli NFT come certificazione del prodotto e della sua provenienza tramite blockchain» – aggiunge Bianchini. Sembra impossibile vendere un divano da 20mila dollari online. Invece, tramite l’eCommerce che il Gruppo Design Holding ha aperto negli Stati Uniti, questo succede e, soprattutto, il legame tra fisico e digitale si è ribaltato e intrecciato. Il “phygital” è diventato realtà: l’acquirente curiosa sul sito dell’eCommerce, poi si reca in negozio per “toccare con mano” il prodotto ma ritorna ad acquistarlo online perché i servizi aggiunti sono per alcuni aspetti anche migliori di quelli attivabili nello store.
Quanto accade per il mercato di Design Holding è vero anche, e forse ancora di più, per altri business, basti pensare a quello delle calzature. «Allo stesso modo – aggiunge Savini Nicci di Manetti Roberts – chi mette a disposizione del cliente modalità di pagamento diversificate, per esempio con soluzioni dilazionate nel tempo o bonus particolari, sta avendo più successo di altri. La sperimentazione di diverse modalità sta portando all’acquisizione di dati che potranno essere interpretati anche per definire a livello di country o di business quale sia la modalità preferita dallo specifico cliente o dalla cultura prevalente di quella particolare area geografica. I servizi vanno costruiti intorno al prodotto creando un ecosistema di partner adattato alla geografia e utilizzando al meglio quanto ognuno ha già fatto. «Accanto alla sigla CRM – ricorda Bianchini – ce n’è un’altra: RFM. Recency, Frequency, Monitary Value. Bisogna comunicare secondo quello che il proprio cliente richiede. Nel caso di Design Holding, la frequency non è un tema al contrario di quanto lo sia per la GDO o altri settori».
CONCLUSIONI
Stanno nascendo figure nuove in azienda che hanno una conoscenza tecnologica approfondita ma lavorano a supporto del procurement e del business, un ibrido che aiuta entrambe le funzioni a muoversi in un mercato in continua evoluzione. Si sta modificando la figura dell’addetto alla vendita. Cambia il concetto di supply chain per supportare nuovi modelli di logistica e distribuzione. Il confine tra esperienza digitale e fisica diventa sempre più labile. La sostenibilità nel retail è un elemento imprescindibile dell’esperienza cliente, che richiede sempre più spesso servizi basati su tre livelli: ambientale, sociale ed economico. Non solo diminuzione di CO2 ma anche contenimento degli sprechi. Il dato è diventato il “padrone” dell’evoluzione aziendale: dove una volta imperava l’intuizione dell’imprenditore – oggi – governa l’interpretazione corretta del dato.
Foto di Gabriele Sandrini
Point of view
Intervista ad Andrea De Rossi CTO e fondatore di ITReview: Experience di valore grazie alla BI
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