Se ripartenza doveva essere, il settore della moda è ripartito alla grande. Per i big del fashion, il 2021 segna il ritorno ai livelli pre-pandemia, sebbene i marchi italiani avranno bisogno ancora di un anno per riprendersi del tutto a livello economico

La moda si lascia alle spalle la pandemia: rimbalzo nel 2021 e più attenzione alla sostenibilità. Questa è la sintesi del report realizzato dall’Area Studi di Mediobanca, che ha passato in rassegna i dati di 70 multinazionali e a 134 grandi aziende del settore in Italia. Nei primi nove mesi del 2021, i maggiori player mondiali, con un fatturato di almeno 1 miliardo di euro, hanno visto un rimbalzo del giro d’affari del 32% grazie alla Cina (+38% escluso il Giappone) e all’America (+37%, trainata dagli Stati Uniti) mentre il mercato europeo è andato all’inseguimento (+25%), penalizzato da flussi turistici ancora limitati.

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Lo studio di Mediobanca evidenzia che un importante contribuito è arrivato, anche nell’anno scorso, dalle vendite online (+25%) che hanno raggiunto oltre un quarto del giro d’affari complessivo. Ma altre tendenze si stanno imponendo al di là di quelle che sfilano sulle passerelle, prima fra tutti la crescente attenzione alle tematiche ESG (Environment, Social and Governance), con la sostenibilità che è divenuta parte fondante delle strategie del mondo fashion. Parlando di vendite, il ritorno nei negozi fisici non ha intaccato l’ascesa del digitale. L’IT ha dato nuovo modo ai brand di integrare molta più innovazione nell’esperienza in-store, per aumentare l’interazione dei clienti e renderla più famigliare con la tecnologia, che si tratti di pagamenti automatici o di chiedere ad un assistente se sugli scaffali è presente la propria taglia.

Il digital è un canale di vendita sempre più importante e consente alle aziende di adattarsi rapidamente ai picchi e alle richieste dei clienti, garantendo che ogni fase della catena sia più efficace, rapida ed economica. Dalla gestione della catena di approvvigionamento lungo supply chain integrate alla logistica della consegna dei prodotti, dalle app al marketing, gli strumenti digitali permettono ai marchi di lavorare in modo più intelligente, per costruire un modello di business più resiliente. Ovviamente, gran parte del merito va ai software di nuova generazione, naturalmente intrisi di intelligenza artificiale in grado di studiare i trend, analizzare i dati e trasformarli in operatività. Nuovi sviluppi sono dietro l’angolo. I colossi della moda investono in startup digitali a suon di milioni di dollari per cogliere le nuove opportunità di business. E molti brand sfilano alla Metaverse Fashion Week.

LO SCENARIO VISTO DA IDC

«Lo shopping omnicanale ha subito un’accelerazione, e con esso un aumento degli acquisti online con un numero ancora maggiore di resi, soprattutto nel settore dell’abbigliamento, dove i tassi si sono aggirati intorno al 35-40%» – ci spiegano Ornella Urso, senior research analyst e Filippo Battaini, research manager di IDC Retail Insights. «Il recente evento sul retail “NRF Big Show 2022” ha affrontato una miriade di temi, tra cui lo shopping ibrido, che ha visto un boom importante da quando i consumatori chiedono e si aspettano di poter navigare, acquistare e ricevere merci in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo. Le esperienze ibride resteranno ancora determinanti e si evolveranno in molti modi, compreso il metaverso. I consumatori, a meno che non siano giocatori, non spendono ancora veri soldi per vestire un avatar. La maggior parte si muove comunque tra l’online e l’offline e attende che molti brand accolgano questi viaggi ibridi omnicanale senza soluzione di continuità».

Secondo gli analisti di IDC, per migliorare il processo di logistica inversa, i rivenditori hanno bisogno di maggiore organizzazione. «A differenza della logistica in avanti, i prodotti che vengono restituiti tornano come singoli articoli, in condizioni sconosciute, spesso lontano dal luogo in cui sono stati acquistati o dove si trova il grosso dell’inventario. I dipendenti che gestiscono i prodotti restituiti non sempre hanno una comprensione dei processi di attenuazione specifici necessari per la rivendita. Per esempio, le azioni richieste per l’abbigliamento sono molto diverse da quelle per un telefono cellulare. Questi processi possono essere accelerati tramite applicazioni che offrono flussi di lavoro specifici per prodotto, guidando un dipendente del magazzino o del negozio al dettaglio attraverso i compiti necessari per riportare quel capo più rapidamente alla rivendita, attraverso un canale secondario. Questo non è solo importante per la redditività, ma anche una componente chiave per costruire un’economia sostenibile e circolare».

A marzo, CB Insights ha rilasciato la nuova classifica Retail Tech 100, che comprende le 100 aziende di tecnologia B2B per il retail più promettenti al mondo. L’edizione 2022 include startup e futuri leader di mercato, che stanno ripensando l’esperienza del retail, dividendole in 13 categorie tra cui il delivery a guida autonoma, lo shopping iper-personalizzato e molto altro. «Sotto ogni punto di vista, questo è stato un anno rivoluzionario per tecnologia dedicata al retail. Abbiamo visto finanziamenti da capogiro in questo settore, che hanno fatto crescere aziende attive in tutti i comparti, dal delivery istantaneo dei generi alimentari, alla tecnologia per la supply chain» – ha dichiarato, in occasione della condivisione della classifica, Brian Lee, SVP dell’Intelligence Unit di CB Insights. «Via via che il mercato del retail evolve, siamo felici di vedere come le aziende di Retail Tech 100 continuino a rivoluzionare il modo in cui i consumatori fanno acquisti». Attraverso un approccio basato sull’evidenza, il team di ricerca di CB Insights ha selezionato le Retail Tech 100 tra più di 7.000 organizzazioni, basandosi su diversi indicatori, tra cui attività brevettuale, relazioni commerciali, profili degli investitori, analisi del sentiment delle news, potenziale di mercato, scenario competitivo, forza del team, innovazione tecnologica e il punteggio Mosaic che, basato sull’algoritmo di CB Insights, misura il livello di salute globale e la potenziale crescita di aziende private, per aiutare a prevedere la loro evoluzione.

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Come ha spiegato Madhava Venkatesh Raghavan, CTO e co-fondatore di TrusTrace, in una recente intervista, una piattaforma nata per semplificare la tracciabilità della catena di approvvigionamento deve ottimizzare la visibilità della supply chain, per tutti gli attori coinvolti. «La tracciabilità può portare a una maggiore visibilità della catena di approvvigionamento, che può aiutare ad anticipare ed evitare il tipo di interruzioni che abbiamo visto di recente. Sapere da dove provengono esattamente prodotti e materiali è determinante, sia per dimostrarne l’autenticità sia per risalire ai singoli anelli che compongono il flusso industriale. Nessuno può dire che un maglione è al 100% in cotone biologico se non può risalire alle origini di quel cotone». Ci sono alcune catene di approvvigionamento in cui la tracciabilità è la norma. L’industria farmaceutica, un settore altamente regolamentato, vive di tracciabilità e di sistemi automatizzati di gestione e controllo. L’industria della moda è ancora molto frammentata e con una visibilità scarsa sulla supply chain. Il settore non ha ancora imparato a sfruttare pienamente soluzioni tecnologiche dall’intelligenza artificiale all’apprendimento automatico e piattaforme di IoT, che permetterebbero, dove applicate, di governare meglio le catene di approvvigionamento globali.

Ma mentre immaginiamo un futuro dove ogni flusso sia nativamente digitalizzato, abbiamo bisogno già adesso di sistemi intermedi che possano aiutare a digitalizzare le tracce cartacee. Ed è qui che l’intelligenza artificiale può entrare in gioco. Non solo per la sua capacità di assimilare i dati in modo intelligente, ma anche di supportare soluzioni che eseguono automaticamente la convalida di tali dati, migliorandoli grazie alla correlazione delle informazioni da più fonti. Un procedimento composto da tre, semplici, passaggi: classificazione, estrazione, convalida. In primo luogo, l’AI riconosce e identifica un documento inviato da qualche parte nelle catene di approvvigionamento e lo classifica in modo intelligente come, per esempio, un ordine di acquisto, un audit di struttura o una certificazione. Poi, identifica le informazioni chiave in base ai metadati. Durante l’elaborazione delle fatture, il sistema acquisisce informazioni, comprese quelle su parametri non direttamente collegati alla realizzazione di uno stock ma fondamentali per il benessere aziendale: condizioni di lavoro, salari equi, diversità e altro ancora. Una volta estratti gli oggetti corrispondenti dai documenti di supporto, i dati vengono convalidati e collegati ad altri all’interno dei sistemi aziendali esistenti, per consentire alle imprese di agire su di essi, per previsioni, analisi, report normativi e altro. Paradigmi che non saranno più solo un’opzione quando la Commissione Europea trasformerà in legge il programma Product Environmental Footprint (PEF), che richiede ai brand, anche quelli del fashion, di calcolare e divulgare l’impatto ambientale dei prodotti in vendita, tracciando le origini di ognuno attraverso le catene di approvvigionamento. Scopo del PEF non è solo assegnare punti di sostenibilità alle aziende ma ottenere evidenze, quasi in tempo reale, su quanta conoscenza abbiano le imprese della loro supply chain, nel dettaglio, spostando il concetto di responsabilità a livello di prodotto.

L’APPROCCIO OMNICANALE

Secondo il Global Retail Core Processes and Applications Survey di IDC, nel 2021 l’esperienza del cliente, l’e-commerce e i sistemi di ottimizzazione in negozio sono state le sfide più complesse da affrontare per i rivenditori. Allo stesso tempo, l’aumento dei ricavi, la redditività delle vendite online e la fidelizzazione sono gli obiettivi da raggiungere nel 2022 e negli anni a seguire. Stando ai dati dell’indagine IDC, il 43% dei rivenditori del settore fashion sta pianificando di implementare l’analisi e la misurazione delle performance promozionali nei prossimi 12 mesi. Il 44% sta attualmente implementando la ricerca visiva e la gestione degli ordini B2C come applicazioni di e-commerce. La collaborazione dell’ecosistema e l’ottimizzazione delle consegne dell’ultimo miglio sono tra le priorità per le innovazioni della supply chain, mentre i rivenditori stanno puntando al miglioramento del valore del brand, affinché si rafforzino le relazioni con i clienti.

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Per esempio, H&M offre ai consumatori un programma di fedeltà basato sull’iscrizione a H&M member e H&M Member Plus: un programma a due livelli a cui si può accedere dopo aver raccolto 300 punti. I clienti possono accumulare punti quando optano per scelte ecologiche. I vantaggi dell’iscrizione H&M Member Plus includono spedizione e resi gratuiti, accesso speciale a collezioni limitate e anticipato alle collezioni in saldo, con offerte a sorpresa. «L’esperienza del cliente su misura è un must. A causa della pandemia, i rivenditori del fashion hanno affrontato una trasformazione inaspettata, con gli acquirenti che comprano di più attraverso i canali online. La customer experience è diventata il più grande vantaggio competitivo e il principale fattore di differenziazione per mantenere e far crescere la base di acquirenti» – fanno notare Urso e Battaini di IDC Retail Insights.

«L’esperienza in-store è il principale elemento di diversificazione. La realtà aumentata e la realtà virtuale possono essere utilizzate per progettare esperienze di shopping uniche in negozio e invogliare i clienti a tornare. L’innovazione di successo si ottiene attraverso la partnership. I fornitori di servizi IT giocano un ruolo fondamentale nel guidare l’innovazione nel fashion retail».

TRA FISICO E DIGITALE

L’industria della moda è stata colpita duramente dalla crisi pandemica. E anche l’attuale situazione geopolitica rischia di avere conseguenze sia sulla domanda che sul sistema di approvvigionamento globale delle materie prime. Tuttavia, se il sistema fashion, caratterizzato da un alto grado di creatività e permeabilità, a sua volta può creare opportunità prima assenti. La pandemia ha costretto i marchi a ripensare a come riaprire in sicurezza per presentare le loro nuove collezioni, spingendoli ad apprezzare le modalità con cui le tecnologie immersive possono costruire un ponte tra gli spazi fisici e digitali, per collegare i marchi con i clienti. I pionieri in questa direzione sono stati i marchi specializzati nei cosmetici per almeno due motivi. Il primo è che è più semplice scansionare il viso dei clienti di un corpo intero. Il secondo poggia sulle nuove abitudini di igiene ampliate dalla pandemia, per cui provare senza toccare è più rilevante per un rossetto che per un vestito. Aziende come MAC, Urban Decay, L’Oréal e molte altre, permettono oggi di usare siti e app per mimare l’uso di un prodotto sul proprio volto, per poi recarsi in negozio, oppure online, e acquistarlo. Un legame, quello tra pubblico digitale e mondo della moda che ha valicato, molto velocemente, altri segmenti. Per esempio quello degli eSport. Gli appassionati di videogame si stanno rivelando sempre più consumatori di prodotti alla moda, desiderosi di spendere sia in app che in prodotti reali. Un’evoluzione che ha creato opportunità di vedere un cluster commerciabile laddove non c’era. Uno dei primi brand ad avviare una collaborazione con l’industria del gaming è stato Louis Vuitton che a settembre 2019 aveva lanciato le skin Louis Vuitton per League of Legends. Per i poco avvezzi, in pratica si tratta della possibilità per i giocatori di acquistare abiti brandizzati per i personaggi a qualche decina di euro. Dopo il successo, a dicembre, Louis Vuitton aveva svelato una collezione fisica disegnata dallo stesso designer degli avatar, Nicolas Ghesquière, con prezzi da 170 a 5.600 euro.

Le inferenze e le contaminazioni tra settori non mancano e ne è la prova il rapper italiano Ghali, da sempre icona di un certo modo di vestirsi alla moda e metropolitano, che è divenuto testimonial di Valentino nel videogame Animal Crossing, divenuto di estremo successo nei mesi di lockdown. IL3X, brand di moda prettamente digitale, finalista del concorso “Forti Insieme” organizzato a fine 2021 da Pantene e Chiara Farragni, ha annunciato la piattaforma ARdrobe. Attraverso questa piattaforma, i clienti possono acquistare abiti digitali da indossare solo sui social media. L’idea è quella di condividere l’outfit preferito sui canali social, acquistando capi virtuali. È un dato di fatto che in alcuni casi i clienti acquistano abiti per condividere il loro sguardo sul mondo virtuale. IL3X ha avviato la prima collaborazione con Missoni, che ha presentato su Instagram mascherine di protezione, già in vendita nei negozi fisici, per declinare il proprio aspetto sulle piattaforme online, anticamera del trend del metaverso.

TREND PER IL FUTURO

La prima Metaverse Fashion Week della storia si è tenuta dal 24 al 27 marzo. Gli avatar di grandi e piccole case di moda hanno presentato le collezioni Autunno-Inverno 2022/2023 sulla piattaforma di Decentreland. Molti considerano il metaverso solo un “gioco”, quasi come dispregiativo, eppure il cosiddetto “fashion gaming” sta vivendo una vera e propria età dell’oro nel guidare alcune delle nuove esperienze dello shopping. Un esempio è la società Avawear, guidata da Andrea Panconesi, CEO di LuisaViaRoma, e Marco Ritratti, head of digital marketing. Al lancio dell’app Mod4, due anni fa, oltre 200mila persone hanno cominciato a esplorare i sentieri della personalizzazione, scoprendo un nuovo modo di acquistare moda, tramite un canale di relazione innovativo. Oggi, il concetto alla base di Mod4 è consolidato e poggia sul voler sia promuovere la vendita di capi da uno store online che permettere alle persone di mostrarli sui social in maniera più accattivante ed esteticamente migliore. Lo stesso vestito che arriva a casa, e che magari si indossa con gli amici o per una sera importante, può diventare protagonista di una foto da postare dove si vuole ma in cui il proprio avatar prende forma, replicando l’abito nei suoi dettagli. Ma non solo: l’app consente di provare prima gli oggetti da comprare, per fondere del tutto le esperienze. Spingere l’approccio “phygital” finisce anche con il rendere il consumo di moda meno ansioso, rispondendo in maniera diversa al bisogno di gratificazione immediata. Creare un guardaroba ibrido con un mix di abiti fast fashion digitali e capi fisici di alta qualità e di lunga durata potrebbe essere una soluzione amica dell’ambiente, trasferendo verso il digitale parte delle necessità di consumismo.

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IL PARADIGMA DEL RIUSO

Secondo i recenti dati della Alliance for Sustainable Fashion dell’ONU, all’industria del fashion si deve tra il 2% e l’8% di tutte le emissioni di gas serra al mondo e circa il 9% della dispersione di microplastiche nei mari. Compito dell’alleanza è agire su tutta la supply chain, dalla materia prima alla manifattura di abbigliamento, calzature e accessori fino al consumo e allo smaltimento, per cercare di migliorare la situazione. Lo scenario non è certo dei migliori se si considera che la richiesta di poliestere è raddoppiata negli ultimi 15 anni e ha superato di gran lunga il cotone come materiale tessile più prodotto. Quest’ultimo è la seconda fibra più utilizzata, nonostante i materiali su cui si basa lo rendano poco sostenibile. Lo ha confermato anche l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile durante un’audizione al Senato della Repubblica sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. In un documento realizzato insieme alla Siena Advanced School on Sustainable Development, si legge come la produzione di filati e tessuti a partire da scarti organici presenti in Italia possa costituire una soluzione efficace per creare filiere innovative, dando vita a materiali di alto valore e completamente Made In Italy.

Insomma, enti e organizzazioni cercano di ridurre l’impronta del fashion sul Pianeta. L’impegno dei produttori nel migliorare il loro rating ESG, per farsi trovare pronti all’appuntamento dell’Agenda ONU 2030 sullo sviluppo sostenibile, può fare la differenza. Il nostro Paese, in tale scenario, gioca un ruolo molto importante. Basti pensare che se dal primo gennaio 2025, l’Unione Europea imporrà lo smaltimento di tessuti nella raccolta differenziata, l’Italia ha deciso di anticipare l’iniziativa di tre anni. Dal primo gennaio di quest’anno infatti, è in vigore l’obbligo di raccogliere in modo differenziato i rifiuti tessili. L’obbligo è stato introdotto dall’art. 205, comma 6-quater, del Dlgs 152/2006 “Misure per incrementare la raccolta differenziata”.

La misura si rivolge ai Comuni ma un’impresa privata può attivare la raccolta differenziata dei rifiuti tessili dei clienti presso i punti vendita, a seguito della costituzione di un sistema riconosciuto dal Ministero della Transizione Ecologica e basato sul principio della responsabilità estesa del produttore del prodotto. Al momento, la raccolta è strutturata solo parzialmente sul territorio nazionale e colmare i divari tra le regioni non sarà facile. Con l’obbligatorietà, verranno riciclati sia gli indumenti che altri materiali tessili, come la tappezzeria, le lenzuola, gli asciugamani. Per riconvertire il sistema e avviare una vera economia circolare nel fashion, saranno necessari altri investimenti. Un buon punto di partenza è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che ha previsto 150 milioni di euro per la costituzione di “textile hubs”, innovativi, impianti dedicati al recupero, a cui si aggiungono le somme previste per il miglioramento dei sistemi di raccolta differenziata e riciclo delle pubbliche amministrazioni.