Alle radici della crisi e oltre il keynesismo da quattro soldi. Come si governa il cambiamento in un momento di transizione energetica e digitale? «Solo un nuovo cluster di innovazioni schumpeteriane può rimettere al centro l’impresa»
Tra il 1948 e il 1952, l’European Recovery Programm (ERP), il piano di ricostruzione europea, concepito da Washington per la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, mise a disposizione del “paziente malato” 13 miliardi di dollari pari a 150 miliardi di euro di oggi, quasi tutti a fondo perduto. Passato alla storia come Piano Marshall, il programma portò l’Italia fuori dal tunnel della guerra verso la crescita accelerata del “miracolo economico”, a condizione che gli italiani ne facessero l’uso migliore e non per tappare i buchi del bilancio corrente. «Una clausola che se non ci fosse – chiosò l’allora Presidente Luigi Einaudi – gli italiani dovrebbero pretendere da loro stessi». Oggi, la strategia di ripresa e resilienza per rilanciare l’economia italiana dopo la pandemia stanzia 221,5 miliardi, tra PNRR e fondo complementare, che potrebbero arrivare a quasi 240 nei prossimi dieci anni. Un terzo a fondo perduto e due terzi da restituire con un tasso di interesse prossimo allo zero.
Di questi fondi, quasi 50 miliardi sono destinati alla digitalizzazione, l’innovazione e la competitività con un occhio particolare alle PMI. Da ogni crisi possono nascere nuove opportunità di crescita. Che queste opportunità siano per tutti distribuite allo stesso modo non è detto. Se avessimo imparato anche una sola lezione da tutte le crisi passate, non saremmo a questo punto. Il PNRR avrà un ruolo straordinario anche nel colmare il divario tra Nord e Sud, che ci trasciniamo praticamente dall’Unità d’Italia. Un gap storico che neanche l’operazione gigantesca della Cassa per il Mezzogiorno è riuscita a risolvere. Abbiamo la possibilità di cambiare il nostro Paese. Un’occasione irripetibile che non va sprecata e che rappresenta la chance per uscire dallo stallo della mancata crescita. Il rischio è che il PNRR passi come un fiume in piena, lasciando tutto com’era prima. Questa volta senza più alibi per nessuno.
ALLE RADICI DELLA CRISI
«La crisi che si è abbattuta sulle economie mondiali non deve trarci in inganno: è profondamente diversa da tutte le altre» – spiega Giulio Sapelli, economista ed esperto di organizzazione aziendale, allievo di Franco Momigliano. L’abbassamento dei profitti e dei salari, le alte rendite finanziarie, le frequenti bolle speculative e politiche restrittive avevano già esacerbato la crisi mondiale del 2008. «La pandemia è una discontinuità che fa esplodere le contraddizioni che non vedevamo o nascondevamo sotto il tappeto. La pandemia è una crisi esogena che colpisce nello stesso momento domanda e offerta, ma anche la vita umana, mettendoci di fronte al drammatico enigma della morte, di fronte al quale non abbiamo più una cultura spirituale e religiosa che ci possa sorreggere». Questo shock crea risposte convulse e disvela che il meccanismo capitalistico non si basa solo sulla relazione tra capitale e lavoro per la produzione di merci e servizi: «Ma è relazione di persone e scambio di cultura. La pandemia ci ha svelato il valore delle relazioni umane. La pandemia – continua Sapelli – ha provocato una crisi da contaminazione che ha bloccato contemporaneamente domanda e offerta». Le catene mondiali della logistica delle spedizioni e delle infrastrutture sono state sottoposte a una doppia pressione: «Quella deflattiva già in atto e quella dell’aumento dei costi con consumi energetici in crescita». Per Sapelli – «solo un nuovo cluster di innovazioni schumpeteriane può rimettere al centro l’impresa, con la razionalizzazione dei processi grazie a tecnologie innovative, collaborazione, relazioni umane e crescita delle persone». Abbiamo tanti soldi da spendere. Sta a noi adesso, dimostrare di fare le riforme. Le previsioni del governo sono realistiche. Come si governa il cambiamento in un momento di transizione energetica e digitale? E per quanto durerà la spinta propulsiva del PNRR? Come ha detto il presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi, le risorse saranno sempre poche se non si usano o si sprecano. Abbiamo un debito al 160 per cento del PIL. L’unica strada è la crescita. Il problema non è il debito pubblico, o meglio non solo, ma la quantità di stock accumulato, che tradotto significa infrastrutture fisiche e digitali che aumentano la produttività totale dei fattori. E qui sta il vero nodo della questione. Il piano Marshall salvò l’Europa, il PNNR salverà l’Italia? «Con le dovute differenze, bisogna fare come la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, e usare le virgolette» – risponde Sapelli. «Perché quel momento dopo la guerra rappresentava il punto di massimo incrocio tra il capitalismo Nord americano e l’Europa in ricostruzione. Gli stati europei che non si erano ancora costituiti nell’Unione economica vedevano negli USA il modello di un nuovo sviluppo. Oggi, le condizioni sono molto diverse. E forse, stiamo vivendo il punto più basso delle relazioni positive tra Europa e Stati Uniti. La mutualizzazione del debito e il ricorso al mercato internazionale dei capitali rappresentano certamente una spinta che crea valore. Con il piano Marshall, arrivarono anche l’innovazione tecnologica, la cultura dell’organizzazione e dell’implementazione strategica, per generare un cambiamento che era forse più importante dei capitali».
LA NUOVA GUERRA FREDDA
La ricerca spaziale è al centro della competizione tra USA e Cina. «La guerra fredda è stata un momento eccezionale di sviluppo delle forze produttive perché ha indotto le spese militari non distruttive ma fondate sulle tecnologie per la conquista dello spazio» – spiega Sapelli. «Oggi, la nuova guerra fredda cino-americana ci porta in questa stessa direzione. Credo che la Cina sia sull’orlo di una crisi epocale. I problemi del mondo non verranno dallo sviluppo militare dell’imperialismo cinese ma dal suo decadimento. Così come Paul Dibb definitiva l’Unione sovietica “the incomplete superpower”, con un corpo enorme su gambe fragili – infatti è finita com’è finita – allo stesso modo la Cina si avvia verso un medesimo destino che però inizia dall’interno, con il fallimento delle società immobiliari, delle città progettate per 40 milioni di abitanti che sono disabitate, della strategia della Nuova Via della Seta – più militare che economica – del crollo dei grandi investimenti pubblici e della furiosa lotta interna al partito. Tornando al parallelo tra piano Marshall e PNRR, bisognerebbe dire che la Germania è il paese che ha avuto storicamente più vantaggi dalla ricostruzione del dopoguerra. E oggi, il 40% delle esportazioni della Germania sono in Cina. La strategia USA di ritornare con un ruolo di potenza nell’Indo-Pacifico, coinvolgendo Inghilterra e Australia ma mettendo al margine Germania insieme e Francia – mossa sicuramente sbagliata – dimostra che non siamo più nel mondo del Piano Marshall, bensì in un pericoloso momento di divisione tra Europa e Stati Uniti. E senza gli Stati Uniti il sistema capitalistico non può progredire».
CAMBIARE MODELLO
La crescita è sempre stato un problema, anche quando l’Italia cresceva ma il sistema perdeva progressivamente quota, come evidenzia l’andamento medio nei decenni dal 1950 al 2008. «Secondo l’interpretazione dell’economia classica, non quella neoliberista che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni –spiega Sapelli – la crescita registrata in Italia nei decenni successivi al piano Marshall era determinata da una politica dell’offerta. La prima Cassa del Mezzogiorno incentivava anche a debito gli investimenti che andavano in capitale fisso, creando profitto capitalistico e salario, e di conseguenza consumo». Progressivamente abbiamo adottato un’altra strategia che punta invece sulla domanda: «Si crea il consumo e questo a sua volta dovrebbe creare il moltiplicatore, ma questo è keynesismo da quattro soldi» – commenta Sapelli. «La crescita deve puntare soprattutto a contrastare la tendenza delle economie industriali verso rendimenti decrescenti attraverso la creazione di stock di capitali. Oggi, le imprese che creano lavoro hanno bisogno di competenze che non riescono a reperire. Il mercato del lavoro non è un autobus su cui si può salire spingendo, ma un treno con tanti vagoni. Per questo bisogna rimettere al centro la libertà di impresa, che crea lavoro, con il coordinamento di quello che rimane dello Stato regolatore». Qualcuno torna a parlare di IRI, ma anche quella è stata un’esperienza irripetibile – continua Sapelli. «Soprattutto mancano gli uomini che hanno fatto l’IRI. È un problema di classi dirigenti».
Le grandi innovazioni che possono cambiare il mondo arrivano dalla space economy e dal trasferimento tecnologico della ricerca spaziale: evoluzione dei razzi vettori, produzione di energia, tecnologie per le trasmissioni, analisi dei dati, applicazioni di robotica e intelligenza artificiale. Nelle intenzioni di Vittorio Colao, ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale con delega allo Spazio, il PNRR dedicherà grandi risorse per potenziare il ruolo del nostro Paese. «La conquista della Luna ha consentito uno spillover tecnologico che ha prodotto effetti positivi per tutto il mondo» – spiega Sapelli. «Gli studi sull’elettromagnetismo hanno aperto la strada ai moderni mezzi di comunicazione, compresa la possibilità di lavorare a distanza che ci ha aiutato moltissimo durante la pandemia. Gli investimenti in capitale fisso per la transizione energetica potranno sviluppare le nuove potenzialità delle forze produttive, ma bisogna stare attenti a non creare danni collaterali. Abbiamo bisogno di cluster innovativi e abbiamo bisogno di tempo. Le transizioni non avvengono dall’alto e non avvengono in pochi decenni. La fretta ci porterà inevitabilmente alla perdita di capitale fisso e a non raggiungere gli obiettivi».
RIMETTERE AL CENTRO L’IMPRESA
Il digitale fa due cose: elimina le barriere e crea nuovi spazi di mercato. Senza un piano di investimenti in infrastrutture, rischiamo di rimanere indietro. «Per una transizione energetica e digitale veramente sostenibile c’è bisogno di investimenti colossali» – afferma Sapelli. «Vediamo quello che sta succedendo al prezzo delle materie prime». Aumenta il costo del gas come quello del grano – «perché aumenta il prezzo del barile di Brent. Poi però aumenta anche il prezzo del carbone con la Cina che fa incetta sui mercati mondiali. È giusto puntare sulla decarbonizzazione ma bisogna avere la comprensione che c’è una società di transizione. Sotto la spinta delle Borse, si premiano solo i produttori di energia elettrica, dimenticando che l’energia elettrica non è una fonte ma un vettore. Il gas è l’unica fonte che può supportare questa transizione, in attesa di nuove tecnologie sostitutive, come l’eolico che però non produca Co2 per fare le pale, e come il fotovoltaico ad alta efficienza ma con pannelli smaltibili. Quindi c’è bisogno di fare tutto il contrario di quello che sta capitando oggi. Bisogna uscire dalla deflazione secolare». Possiamo chiamare inflazione l’aumento dei prezzi al 3-4 per cento? «Quando esistevano gli economisti, l’inflazione cominciava sopra i decimali» – afferma Sapelli. «La deflazione porta alla caduta del tasso di profitto capitalistico. Gli investimenti si fanno se il profitto aumenta e i salari salgono. Oggi, c’è chi parla di ritorno dell’inflazione, ma come si può dire una cosa del genere con i salari più bassi dell’ultimo secolo? L’inflazione da materie prime è transeunte, quella che può spezzare il meccanismo è l’inflazione da salari, quando i salari sono più alti della produttività. È sulla produttività che bisogna agire, mentre il pensiero mainstream va in tutt’altra direzione».
Bisogna puntare anche sul recupero di competitività del Mezzogiorno per far crescere tutto il Paese. «C’è un grande dibattito tra chi crede che l’investimento pubblico ben diretto e che non alimenta spreco di spesa sia la soluzione» – commenta Sapelli. «Io credo che bisogna agire con la mossa del cavallo con investimenti diretti a creare total factory productivity, produttività totale dei fattori, con infrastrutture fisiche e digitali. E poi c’è bisogno di aiutare la crescita delle piccole e medie imprese perché la forza del nostro Paese, ma anche di tutta l’Europa meridionale, è l’impresa familiare. La famiglia che fa attività economica: household economy, che non è affatto vero che non intercetta tecnologia, cambiamento e produttività. Abbiamo bisogno della grande industria ma dobbiamo supportare le PMI. Nella teoria dello sviluppo dell’impresa si dimentica il contributo di una grande donna, l’economista statunitense Edith Penrose, il cui lavoro per me è sempre stato un punto di riferimento: è improbabile che le grandi multinazionali possano impossessarsi di tutte le possibilità dello sviluppo economico. Grazie alle nuove tecnologie, c’è ancora spazio per lo sviluppo della piccola impresa».