La crescita numerica dei lavoratori che grazie al cloud possono svolgere le loro attività lontani dalla sede aziendale spinge verso un modello di organizzazione più agile che richiede però nuove regole
È emerso dagli studi condotti nell’ultimo anno che alcune professioni già oggi possono essere svolte totalmente da remoto, mentre in un futuro prossimo per ogni lavoratore aumenterà l’attività che non richiederà la presenza fisica né in azienda né presso il cliente. Due le motivazioni di questa trasformazione. Primo: alcuni lavori verranno svolti più agevolmente dalle macchine. Secondo: l’oggetto del lavoro non sarà la produzione di un bene fisico ma un bene immateriale o un servizio.
Di fronte a questi risultati, si dovrebbe iniziare a riflette su come regolare, favorire e attrarre le forme di lavoro digitale. Con una precisazione: il lavoro digitale non è quello svolto dai “famigerati” riders che svolgono la loro prestazione prevalentemente in modo tradizionale e fisico, ma è quel lavoro la cui domanda cresce costantemente, che fornisce possibilità di flessibilità (per esempio, lavorare per più committenti) e richiede servizi e strumenti di lavoro diversi oltre a competenze qualificate. In sintesi, come indicato da diversi osservatori, il lavoro digitale rappresenta non solo un “lavoro pulito” ma anche una frontiera del lavoro in cui possono essere sviluppati servizi e prodotti immateriali con dinamiche di offerta, competizione e utilizzo differenti. Una volta individuato il perimetro del lavoro digitale, occorre riflettere su come costruire le condizioni per il suo corretto sviluppo.
Come in passato, il lavoro tradizionale è stato oggetto di una disciplina articolata, allo stesso modo il lavoro digitale avrebbe necessità di una cornice regolamentare adeguata che, senza esser eccessivamente invasiva, consenta anche di evitare “derive” come, per esempio, l’offshoring (vale a dire la possibilità di spostare il lavoro digitale ovunque senza costi). E questo perché fattori strategici per lo sviluppo di tale lavoro sono tanto le infrastrutture immateriali quanto la regolamentazione dei rapporti di lavoro. La recente esperienza dello smart working “semplificato” ha dimostrato come il nuovo lavoro digitale necessiti di regole adeguate alla flessibilità ad esso sottesa per cui, anche a livello normativo e contrattuale, si potrebbe immaginare uno sviluppo di questa tipologia contrattuale che consenta, per esempio, di lavorare per più committenti senza un rigido regime orario oppure di cambiare più agevolmente profilo professionale/mansioni e di ricevere una remunerazione commisurata al risultato raggiunto o al servizio prestato. In secondo luogo, a fronte di lavori che saranno prevalentemente svolti fuori dai tradizionali luoghi di lavoro, occorrerà garantire la presenza di servizi di assistenza, formazione e assicurazione coerenti con l’esigenza di assicurare un corretto bilanciamento tra tempo lavoro e vita privata.
Non da ultimo, al pari di quanto è oggi in previsione per attirare investimenti e per consentire la transizione ecologica, potrebbe rendersi opportuna l’introduzione di un regime fiscale agevolato per il lavoro digitale in ragione dei vantaggi in termini di costi ambientali e il minor utilizzo di infrastrutture pubbliche.
L’approvazione del PNRR con le sue sei missioni (digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per la mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute) offre a sua volta spunti per arrivare a determinare delle regole coerenti con l’evoluzione del mondo del lavoro. Se, allora, il lavoro digitale diventerà in futuro prevalente, occorre sin da oggi iniziare a costruirne le condizioni, anche normative, per accompagnarne la crescita in un quadro coerente che eviti l’instaurarsi di prassi incontrollate e controproducenti.
Avv.ti Andrea Savoia partner e Marilena Cartabia senior associate
UNIOLEX Stucchi & Partners – www.uniolex.com