«La rivoluzione digitale rappresenta un’enorme occasione per aumentare la produttività, l’innovazione e l’occupazione, garantire un accesso più ampio all’istruzione e alla cultura e colmare i divari territoriali. Nonostante i recenti miglioramenti, l’Italia è ancora in ritardo in termini di adozione digitale e innovazione tecnologica, come evidenziato dall’ultimo aggiornamento dell’indice DESI, che vede in nostro Paese al 24esimo posto fra i 27 Stati membri dell’Unione europea, (UK esclusa s’intende, anche se i dati elaborati fanno riferimento al 2019). Il Governo intende recuperare il terreno perduto e rendere l’Italia uno dei primi paesi a raggiungere gli obiettivi recentemente illustrati dalla Commissione europea nella Comunicazione 2030 Digital Compass per creare una società completamente digitale».
Il paragrafo introduttivo sulla transizione digitale del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) la dice lunga sulle intenzioni di compiere in Europa – ma ancora di più in Italia – un doppio balzo in avanti, quantitativo e qualitativo, in una trasformazione tecnologica a livello sistemico. Le risorse impegnate dal Recovery and Resilience Facility, perno fondamentale del progetto NextGenerationEU, sono di 672,5 miliardi di euro, e arriveranno a 750 miliardi con altre forme di sussidio. Di questa torta, l’Italia potrà utilizzare 69 miliardi (il 70% in una prima tranche). Se l’Europa prevede di riservare almeno il 20% di queste risorse alla digitalizzazione, l’Italia, col 27% cercherà di fare ancora meglio.
Sarà davvero così? Nelle 270 pagine del Piano le intenzioni sembrano molto concrete e circostanziate, ma quanti analoghi progetti nel corso degli ultimi decenni avevano suscitato le stesse aspettative? Resta la fondamentale differenza di volume dell’impegno finanziario previsto e dell’esperienza accumulata in un’epoca abbastanza recente con le iniziative dell’Agenda Digitale per la PA e degli incentivi alla trasformazione digitale delle fabbriche e dell’apparato produttivo in generale: il cosiddetto comparto Industry 4.0. Incentivi che grazie al PNRR entrano ora in una seconda fase, ancora più strutturata (per la prima volta per esempio, le misure di defiscalizzazione, previste per chi investe in cambiamento, riguardano il software e la formazione).
In ordine cronologico le ultime due cover story di Data Manager – guarda caso – sono dedicate proprio a operatori nell’ambito dell’Industrial Internet of Things e della dematerializzazione, soprattutto nei settori dei servizi finanziari e della monetica. Insieme alla trasformazione digitale della PA e della Sanità, sono due aree fondamentali per la nostra economia ed entrambe possono fungere da ariete di un rinnovamento profondo. Nel mondo manifatturiero, dove l’intelligenza “embedded” delle macchine può diventare una leva insostituibile per la flessibilità e la qualità di una produzione sempre più “su misura”, le aziende italiane raggiungono già livelli di assoluta eccellenza, sia nell’uso, sia nella progettazione di macchinari intelligenti. Una trasformazione ragionata e pervasiva consentirebbe di imporre su scala europea e mondiale il dominio del Made in Italy nella spietata guerra della competitività. Lo stesso si può dire in senso generale per la dematerializzazione. Le vere parole chiave di questo sogno sono tuttavia scuola, formazione, cultura. Perché gli effetti più dirompenti del cambiamento emergeranno dalla nuova relazione che sapremo stabilire tra l’intelligenza dell’uomo e quella delle macchine o del software. Ed è su questo fronte che Data Manager intende impegnarsi. Come ha sempre fatto e anche di più.