Immortalità virtuale, l’AI che ci renderà eterni

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Memorie digitali per alimentare schemi algoritmici di intelligenza artificiale in grado di perpetuare il nostro alter ego anche dopo la morte. Un presente continuo che ci renderà eterni o prigionieri di noi stessi e di pensieri che non abbiamo mai avuto?

Avevo più o meno 16 anni ed ero in un pub. Il solito pub. Aveva uno schermo grande per vedere le partite, ma quella sera facevano vedere un film. Titolo: Vanilla Sky. Ero fin troppo giovane, magari c’era trambusto e non avevo compreso a fondo il messaggio. Erano passati almeno 4 o 5 anni quando lo rividi. Molto probabilmente, erano gli anni universitari e quella volta mi colpì profondamente. Il protagonista, Tom Cruise, prima di suicidarsi aveva firmato un contratto con una società che gli permetteva di continuare a vivere in un “sogno lucido”. Il suo corpo era stato ibernato e la sua mente veniva caricata e si nutriva dei suoi ricordi più belli e dei desideri che avrebbe voluto realizzare. Ma alla fine, la sua mente aveva cominciato a fare brutti scherzi, il programma aveva alcuni bug. Dopo un centinaio di anni, il protagonista si trova a fare una scelta: continuare a vivere il suo sogno o risvegliarsi in una nuova vita reale.

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OLTREPASSARE I LIMITI FISICI

Grazie all’intelligenza artificiale si vogliono oltrepassare i limiti imposti dalla morte. Far tornare in vita, almeno in parte, le persone più care o manager di successo. E ci sono diverse startup che vogliono fare proprio questo. Ma prendiamoci un attimo di pausa. Quanti utenti Facebook, Twitter, Instagram muoiono ogni giorno? Eppure, quanti di loro hanno lasciato delle impronte? Ecco. Il mondo digitale, a differenza del mondo fisico, non sembra avere problemi di spazio. E continua a vivere. Come? Qualche anno fa, si è parlato tanto del progetto Augmented Eternity messo in piedi da Hossein Rahnama del MIT Media Lab. In cosa consiste? Sembrerebbe che Rahnama abbia conosciuto l’amministratore delegato di una grande società del mondo della finanza che avrebbe voluto continuare a lavorare dopo la morte. E così Rahnama ha pensato di creare un avatar digitale per il CEO, in grado di funzionare come “consulente virtuale”. Così, un futuro dirigente aziendale potrebbe accedere tramite chat all’applicazione di intelligenza artificiale, e facendo delle domande potrebbe decidere se accettare o meno un’offerta di acquisizione, basandosi sui suoi consigli “post mortem”. L’avatar digitale, creato da una piattaforma di intelligenza artificiale che analizza i dati personali e la corrispondenza, potrebbe rilevare che il defunto CEO aveva una cattiva relazione con i dirigenti della società acquirente. E mostrare dunque un aperto segno di disapprovazione. Può sembrare bizzarro. Magari lo è. Ma grazie ad Augmented Eternity si vuole creare una persona digitale, ridargli vita in modo da poter interagire con le persone care dopo la morte. Questo non è però possibile con la maggior parte delle persone attualmente anziane, perché hanno lasciato troppi pochi dati in giro per la rete. E sappiamo bene che le applicazioni di intelligenza artificiale per funzionare in maniera efficiente devono essere alimentate e formate da grandi volumi di dati, immagini, video, testi e anche voce.

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Ogni anno, 1,7 milioni di utenti di Facebook muoiono. Alcuni di questi account vengono cancellati, mentre altri restano in silenzio. Lasciando nel mondo digitale una miriade di dati che algoritmi di apprendimento automatico continuano ad analizzare anche dopo la morte dei proprietari dei profili. Per quale motivo? Dare persistenza a tratti di personalità. Ma le persone sono estremamente complesse e così gli algoritmi devono potere scegliere tra una miriade di personalità che dipendono anche di volta in volta dal contesto. Per esempio, una persona ha un tratto di personalità completamente diverso a lavoro o in famiglia. E si stanno immaginando tecnologie guidate da intelligenza artificiale in modo da adattare le varie conversazioni in base al contesto in cui ci si trova. Ma un chatbot, come quello di Augmented Eternity, ci potrà dare l’immagine di qualcosa di reale? A mio parere, almeno a livello simbolico – e non solo – decisamente no. E mi viene in mente il vecchio Egitto. Quello dei faraoni per intenderci. Immaginiamo di entrare in una piramide e di poter comunicare con Ramses II. Vi trovereste l’immagine olografica del più grande sovrano della storia dell’antico Egitto in 3D che vi accompagna durante il cammino. Con il quale interagire apertamente, facendogli domande sulla sua vita privata, le sue aspirazioni e così via. Questo perché il concetto di tempo, nel mondo digitale, assume un senso diverso. Sempre tornando al faraone, si avrebbero a disposizione probabilmente meno informazioni rispetto a quelle di un nostro caro congiunto o anche riguardo noi stessi. Basti pensare a tutte le informazioni che stiamo immagazzinando giorno dopo giorno sulla nostra vita. E non parlo solo delle attività sui social. Ma anche – e soprattutto – di immagini e video sul telefonino o sui vari hard disk. Secondo voi non sarà possibile in un futuro, più o meno breve, creare un’immagine molto realistica di noi?

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È vero, abbiamo migliaia e migliaia di sfumature comportamentali ma ritengo che la potenza computazionale arriverà al punto di riuscire non tanto a decifrarle ma almeno a classificarle. E qualora si riuscisse, in questo sarebbe molto facile integrarle tra di loro e contestualizzarle. L’unione di filosofia, psicologia e tecnologie guidate da intelligenza artificiale probabilmente riusciranno a definire un set di regole, una sorta di schema algoritmico base, dal quale partire. Per quanto mi riguarda, non è tanto – o non sarà – un problema tecnologico quanto di accesso a determinate informazioni sotto forma di dati.

ESSERE E MEMORIA

Perché far tornare in vita una persona defunta? E quali sarebbero i problemi dal punto di vista etico? «Ognuno soffre in modo diverso» – afferma Dale Atkins, psicologa specializzata in relazioni e gestione del dolore. «Per alcuni, avere una rappresentazione digitale della persona amata può aiutarli a superare il trauma, per riuscire a dire cose che non si sono mai permessi di dire, elaborando così il lutto. Per gli altri, che non vogliono convivere con il fatto che la persona cara se ne sia andata, può essere invece dannoso». Gli avatar digitali di persone defunte sollevano anche questioni etiche su se, come e chi dovrebbe “resuscitare i morti”. Rendere eterna la “mente” di Einstein – per esempio – potrebbe essere anche di grande utilità pubblica o scientifica ma di chi dovrebbe essere la decisione di riportarlo in vita?

Donare la propria mente, o i propri pensieri, a un chatbot è molto diverso dal donare il proprio corpo alla ricerca scientifica. Il bot, basato sull’intelligenza artificiale, continuerà a produrre nuove idee di cui non avremo più controllo. Chi dovrebbe essere responsabile di ciò che dice il bot o l’alter ego digitale? Diversi filosofi e innovatori si sono posti la domanda. E si sa, ogni qualvolta si parla di filosofia, di etica e di intelligenza artificiale le visioni si fanno sempre più offuscate. Ma magari è anche meglio così. Si tendono a mettere da parte i problemi eventuali come se non fossero ancora presenti. Non reali. L’ologramma, il chatbot è un software. Non è che un linguaggio di comunicazione basato sul passato. Potrà evolversi? Potrà creare? Davvero far tornare in vita Einstein sotto forma di intelligenza artificiale potrà dare un significativo contributo alla scienza? Io penso proprio di no. E di certo, non negli anni a venire. Cosa fare? La psicologia insegna ad accettare la realtà. I propri limiti. Ma non è facile. Ed è proprio grazie a questo “bug” che possiamo permetterci di sognare. Anche una realtà digitale dove i morti riprendono vita. Insieme alle nostre emozioni. In un continuo presente che fa vivere e rivivere tutto. Fuorché la morte.

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