Siamo alla fine di un ciclo e nel mezzo di una rivoluzione dai risvolti difficili da immaginare. Per la prima volta, le ragioni del business stanno convergendo con le ragioni dell’economia circolare. Il rischio più grave che stiamo correndo è di tornare al passato invece di imboccare la strada verso il futuro
È successo di nuovo. Prima, l’ICT con tutto il suo vocabolario di sigle e parole apparteneva al mondo delle imprese e delle grandi organizzazioni. Poi la consumerizzazione e la trasformazione digitale hanno rotto gli argini. Così l’innovazione tecnologica e tutti i suoi paradigmi sono diventati mainstream. Anche la politica, non sempre per mancanza di idee, ha attinto a questo serbatoio di argomenti. Adesso, sta accadendo la stessa cosa con i concetti di sostenibilità e resilienza. Il marketing si è impossessato di queste parole. Non c’è comunicato stampa che non faccia riferimento a queste due parole come requisiti fondamentali per il ritorno alla normalità. La mia non è una critica. Anzi, più se ne parla meglio è. Con buona pace di chi vorrebbe che questi temi restassero relegati ad ambiti ristetti e ideologici. A patto, s’intende, che queste parole, a furia di essere ripetute, non vengano svuotate di significato, abusate o ridotte a slogan. Le parole sono importanti perché sono pensieri che finalmente possono prendere forma.
NESSUNO SQUILIBRIO DURA PER SEMPRE
Il fondo di investimento sovrano della Norvegia, il più grande al mondo (oltre mille miliardi di dollari), pur avendo costruito tutta la sua ricchezza sul petrolio ha detto addio agli investimenti sugli idrocarburi. BlackRock, la più grande società di investimento, ha dimostrato grande interesse verso gli investimenti sostenibili, in particolare nell’area del climate change. Lo stesso Bill Gates ha lanciato un appello a tutti i leader mondiali nel corso del vertice sul clima, organizzato dal presidente americano Joe Biden, ponendo l’accento sulla cooperazione internazionale e investimenti in innovazione e nuove infrastrutture. I rischi che i cambiamenti climatici comportano per il mondo della finanza non possono più essere ignorati.
Un orientamento che sta facendo scuola, soprattutto perché i parametri ESG (Environment, Social e Governance) possono rappresentare un nuovo strumento di gestione del rischio per creare un futuro veramente sostenibile. Certo, sono abbastanza cinico da credere che ancora molti investitori non vogliono sapere da dove arrivano i loro rendimenti. Ma nell’era del rischio globale, dove si è scardinato il tradizionale trade-off tra rischio e rendimento, forse il concetto di sostenibilità può creare, se non una nuova consapevolezza, certamente una maggiore attenzione al proprio portafoglio titoli. Lo scorso anno, durante la pandemia, il prezzo dell’oro nero ha toccato valori negativi. Al global summit di Riyadh, il gotha mondiale degli investimenti ha tracciato le nuove tendenze della finanza sostenibile. Gli ESG stanno attirando centinaia di miliardi di dollari in fondi che si impegnano a valutare l’impatto ambientale, sociale e di governance degli investimenti. Non solo rendimenti ma un’attenta analisi sugli effetti che possono produrre. ll rapporto della rete di banche centrali e autorità di vigilanza finanziaria (NGFS) raccomanda agli istituti di attuare misure rapide in risposta alla crisi climatica.
Tra gli impatti tangibili sugli agenti economici e sul loro comportamento, il rapporto menziona l’aumento dei costi delle transazioni, la difficoltà delle banche a elargire credito, la fuga graduale degli investitori verso attività ritenute più sicure e il conseguente abbandono di asset meno sicuri. Il cambiamento climatico, secondo gli analisti NGFS, può influenzare l’operato degli intermediari finanziari e pone nuovi rischi alle operazioni di politica monetaria delle banche centrali.
Non solo. Secondo l’UNICEF, rispetto alle misure fiscali messe in campo per affrontare la pandemia, l’attuale risposta internazionale alla crisi del debito delle nazioni più fragili appare marginale. Il rapporto UNICEF rileva che questi Paesi, già gravati da povertà, hanno destinato nel 2019 una percentuale maggiore della spesa pubblica totale al servizio del debito rispetto a quella per l’istruzione, la salute e la protezione sociale messe insieme. Il rapporto rileva che un quarto dei Paesi a basso e medio reddito – che ospitano 200 milioni di bambini – è attualmente in difficoltà per i debiti o a rischio di sofferenza.
Il rapporto del Malala Fund, l’organizzazione non profit sull’educazione delle ragazze co-fondata dal Premio Nobel Malala Yousafza, stima che nel 2021, nei Paesi a basso e medio-basso reddito, gli eventi legati al clima impediranno ad almeno quattro milioni di ragazze di completare la loro istruzione. Il Girls’ Education and Climate Challenges Index creato da SAS conferma che l’istruzione delle ragazze è una delle strategie più potenti per ridurre l’impatto del cambiamento climatico. Quando l’accesso all’acqua è scarso, statisticamente sono le ragazze a essere chiamate a percorrere lunghe distanze per raccogliere l’acqua, stando quindi lontane dai banchi di scuola.
INVERTIRE LA ROTTA
Siamo alla fine di un ciclo e nel mezzo di una rivoluzione dai risvolti difficili da immaginare. Per la prima volta, le ragioni del business stanno convergendo con le ragioni dell’economia circolare. Il rischio più grave che stiamo correndo è quello di tornare al passato invece di imboccare la strada verso il futuro. Perché se il tanto invocato “ritorno alla normalità” – espressione che personalmente mi provoca un attacco di orticaria – significa riprendere esattamente da dove eravamo un momento prima della pandemia, senza un ripensamento degli stili di consumo e di vita individuali, fuori e dentro le imprese, allora significa che siamo destinati a commettere gli stessi errori. Lontano da ogni paternalismo, si tratta di comprendere che il cambiamento è necessario, non perché la pandemia, l’isolamento, il dolore della perdita ci abbiano reso persone migliori, più attente ai bisogni del prossimo o dell’ambiente, ma perché se vogliamo proteggere noi stessi, il nostro stile di vita, la nostra posizione di mercato allora dobbiamo invertire la rotta.
Si tratta di una scelta non etica, se volete, ma compiutamente utilitaristica. E questo il mercato lo ha capito. E siamo noi che facciamo il mercato. E qui forse, sta il vero fulcro della questione: quando si parla di sostenibilità e di economia circolare, dobbiamo parlare di responsabilità personale. Ben vengano allora i condizionamenti degli esperti di marketing, se possono influire sui comportamenti sbagliati, contribuendo anche solo in minima parte, al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile come previsto dall’Agenda 2030 dell’ONU.
Secondo i dati del report annuale “Earth Day” di IPSOS, la conoscenza del tema della sostenibilità da parte degli italiani è cresciuta dal 7% al 37% negli ultimi 7 anni. Tuttavia, il 35% della popolazione ha una consapevolezza ancora superficiale del tema, ma crescono con sempre maggiore forza sia la conoscenza qualificata sia il ruolo prioritario degli obiettivi globali di sviluppo sostenibile nelle fasce più giovani della popolazione. Sono tre i driver che, secondo IPSOS, spingono il consumatore verso uno stile di vita sostenibile: il primo è la propensione a rispettare l’ambiente e le persone, che induce i consumatori a essere etici e a migliorare il proprio modo di relazionarsi con il mondo; il secondo è la paura dei cambiamenti climatici, che porta a limitare l’impatto negativo sul pianeta; il terzo, più recente, è la percezione di innovazione e alta qualità associata ai beni prodotti in modo sostenibile, che guida verso scelte di acquisto più responsabili. La sostenibilità è un punto cardine nella relazione tra brand e consumatori, tanto che il 60% delle realtà aziendali stanno investendo in questa direzione, ma per perseguire risultati economici è necessario un modello di leadership aziendale che guidi le organizzazioni e il cambiamento.
NUOVO MODELLO DI SVILUPPO
L’imprevedibile resta imprevedibile, ma se ci prepariamo possiamo adattarci meglio al cambiamento. Le imprese non sono organizzazioni perfette e autonome, somigliano alla vita. Se sei un’azienda rilevante o chiave nell’economia di un Paese, anche i manager devono assumersi la responsabilità del cambiamento ed essere più coraggiosi. Le aziende non sono realtà empatiche, ma se non facciamo lo sforzo di pensare che ogni scelta ha degli effetti, anche la naturale e sacrosanta vocazione “utilitaristica” delle imprese sarà messa in discussione. Se le imprese non sono una risorsa per la crescita anche il loro fatturato è destinato a scendere. È il momento di interrogarsi sul valore delle cose che facciamo e di come le facciamo. Il valore di un’azione sul mercato è dato dal rendimento ma anche da ciò che c’è dentro e dietro quel prezzo in termini di know-how, qualità, rispetto della salute, condizioni di lavoro, esternalità. Perché si può essere “self-interest” senza distruggere, conquistare, inquinare, basando la crescita su fondamentali solidi, materiali e immateriali, e beni inclusivi non solo esclusivi in grado di ridurre gli squilibri di sistema, diminuendo le diseguaglianze in tema di occupazione, istruzione, salute, benessere, opportunità, sviluppo del territorio.
Le parole sostenibilità e resilienza sono all’ordine del giorno ma molte sfide legate alla produttività e alla generazione di valore restano irrisolte. Secondo il Rapporto Svimez 2020, il lockdown è costato 10 miliardi all’economia del Mezzogiorno. Il rapporto evidenzia come l’Italia sia attraversata dalla più grave crisi della sua storia. Gli ingenti investimenti pubblici e privati previsti sia dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, finanziato dal Recovery Fund del pacchetto europeo Next Generation EU, sia i fondi europei e nazionali di coesione, dovranno produrre un sostanziale riequilibrio territoriale, riducendo le diseguaglianze sociali ed economiche nel quadro del Green Deal e di una strategia Euro-mediterranea.
La sfida della sostenibilità è la sfida per salvare il nostro futuro. Sostenibilità sociale, economica e ambientale. Più spazio alle energie da fonti rinnovabili e agli investimenti sui trasporti sostenibili. Sostenibilità e resilienza sono due facce della stessa medaglia. La trasformazione digitale non è solo disruption ma è soprattutto construction. Il doppio legame tra Industria 4.0, economia circolare, energia, mobilità, innovazione e lotta alle disuguaglianze. Serve una nuova alleanza tra decisori politici e sistema delle imprese per creare un mondo più resiliente e solidale. Perché fare i conti con la realtà significa che dobbiamo essere sostenibili anche nelle decisioni. Nessuno squilibrio può durare per sempre. L’accelerazione della digital economy è nulla se paragonata alla velocità di adattamento imposta dai nuovi scenari. Avevamo concepito e pianificato la sostenibilità, immaginando di poterci permettere una sorta di avvicinamento progressivo. Gli stravolgimenti su larga scala ci insegnano che la sostenibilità richiede uno sforzo maggiore di cooperazione internazionale, e le eccezionalità che si porta dietro chiamano in causa, appunto, la capacità di assorbire l’onda d’urto senza andare in mille pezzi.
Al pari della trasformazione digitale, la transizione energetica è l’altra direttrice della sostenibilità. Una trasformazione dentro la trasformazione. Un mondo senza energia non è possibile. Occorre guidare la transizione verso un nuovo futuro fatto di energie rinnovabili nell’orizzonte degli obiettivi sostenibili dell’ONU. In questo percorso, la collaborazione tra le imprese lungo le filiere produttive riveste un ruolo fondamentale. Per questo motivo, è nata la piattaforma digitale Open-es come uno strumento innovativo aperto a tutte le imprese impegnate nella sfida della transizione energetica. L’accordo europeo raggiunto sulla legge sul clima è sicuramente una buona notizia, anche se quella che doveva essere la testata d’angolo del Green Deal Europeo, la prima legge sul clima che avrebbe portato l’UE a diventare il primo continente a emissioni nette pari a zero, si è rilevato un compromesso necessario. La riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030, rispetto al 65% raccomandato dagli scienziati dell’IPPC e da quanto previsto dagli Accordi di Parigi rappresenta un altro passo avanti, anche se più graduale, verso una roadmap per la decarbonizzazione.
PROCESSI AZIENDALI E SISTEMI IT
Che cosa significa veramente essere imprese sostenibili? Secondo il Rapporto Italia sostenibile 2021 di Cerved, che fotografa le diverse aree del Paese in merito allo sviluppo economico, sociale e ambientale, il quadro che emerge è di “un Paese spaccato a metà, con un netto divario tra Nord e Sud”, con una forte correlazione tra la dimensione economica e quella sociale e ambientale. Tuttavia, sia per quello che riguarda le emissioni di gas serra sia in termini di energia prodotta da fonti rinnovabili, i dati per il nostro Paese risultano migliori della media europea. Il rapporto Progressing national SDGs implementation fornisce un quadro dettagliato sugli impegni che i Paesi stanno mettendo in campo per rendere concreta l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Nondimeno, manca un framework attuativo di responsabilità e informazioni sul budget destinati. L’83% delle organizzazioni statunitensi dichiara di avere un impegno di sostenibilità in atto (dati IDC). Le città sono soggetto sia attivo del fenomeno sia passivo del cambiamento climatico. Ma non c’è strategia di Governo che possa funzionare senza il coinvolgimento diretto delle realtà locali, delle imprese e delle persone. L’IT può accelerare ulteriormente gli obiettivi di sostenibilità a livello aziendale includendo l’ottimizzazione della potenza del data center o la riduzione della potenza come metrica verso gli obiettivi di efficienza energetica. Non solo. Business e sostenibilità hanno una correlazione positiva: una leadership responsabile porta a migliori performance finanziarie.
Obiettivi che possono essere perseguiti solo grazie a un nuovo modello di capitalismo in grado di focalizzarsi sull’inclusione, sull’innovazione e sulla definizione di obiettivi condivisi. L’industria ICT può agire anche a livello di processo, contribuendo a rinnovare e “ripulire” il modo di produrre gli oggetti che ci servono; oppure il modo di coltivare, allevare e trattare il cibo; o di movimentare le persone e le merci; interagire e crescere sul piano della socialità e dell’istruzione. E può aiutarci moltissimo – grazie a soluzioni IoT e analytics – a misurare con più precisione l’impatto di tutte le nostre attività, consentendoci così di studiare nuove soluzioni in grado di coniugare esigenze di business e ambiente. La transizione digitale è uno dei pilastri su cui poggiano sia il Next generation EU che il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Secondo Bruxelles servono 125 miliardi di euro all’anno per colmare in gap che separa l’Europa da USA e Cina. Oggi, infatti, il 90% dei dati europei è gestito da colossi statunitensi come Microsoft, Google e Amazon, mentre in Europa il 42% della popolazione non ha competenze digitali di base, e in Italia quasi un italiano su cinque non ha mai avuto accesso a internet. Green deal europeo e obiettivi dell’Agenda 2030 sono di fatto correlati. L’Europa deve mantenere il ruolo di leader nella regolamentazione dei mercati digitali per garantire parità di accesso, cyber sicurezza e rispetto dei diritti.
Le azioni a sostegno della sostenibilità sono ancora difficili da avviare. Come mette in evidenza una nuova ricerca realizzata a livello globale e promossa da SAP. La ragione di fondo che spinge un’azienda a investire in progetti di tutela dell’ambiente per il 29% degli intervistati risiede nelle normative che regolano il proprio settore, per il 27% nella crescente approvazione del mercato verso il proprio brand e infine, per il 26% del campione, nei rischi sulla reputazione aziendale. L’incertezza su come integrare la sostenibilità nei processi aziendali e nei sistemi IT è vista come il più grande ostacolo all’implementazione dei piani d’azione per il 35% del campione. L’allineamento delle attività proposte con la strategia di business è al secondo posto (34%), seguito dalla difficoltà di dimostrare il ritorno sugli investimenti (33%). Solo il 21% dei rispondenti ha dichiarato di essere completamente soddisfatto della qualità dei dati a sua disposizione per valutare i problemi ambientali. La ragione principale di insoddisfazione è dovuta alla mancanza di fiducia nei dati, che possono essere incompleti e non coprire l’ambito richiesto.
VALORE CONDIVISO
«La sostenibilità rappresenta ormai per le aziende una direttrice di sviluppo imprescindibile per creare valore nel lungo periodo ma anche rispondere a un quadro normativo sempre più stringente» – spiega a Data Manager, Anna Lambiase, CEO & founder di V- Finance e IR TOP Consulting che si pone l’obiettivo di supportare le aziende nel loro percorso di sostenibilità. Grazie alle competenze raggiunte in questi anni nel settore della green economy, V-Finance punta a valorizzare gli impatti ESG per la creazione di “valore condiviso”. Per le aziende quotate, questa direttrice diviene ancora più rilevante alla luce dell’interesse che gli investitori ripongono verso le tematiche sostenibili nella scelta delle loro politiche di investimento. «La sostenibilità, nelle sue principali componenti ESG, per rappresentare un reale fattore competitivo deve essere integrata nel modello di business, nella definizione dei processi e nello sviluppo dei prodotti dell’azienda. Le società quotate sono ormai consapevoli della necessità di un confronto continuo con gli investitori su queste tematiche».
Stiamo assistendo a una forte evoluzione del mondo degli investimenti sostenibili che – continua Anna Lambiase – sono divenuti parte integrante nelle scelte di investimento degli investitori istituzionali con una crescente attenzione alla selezione di società sostenibili per l’asset allocation. «Le tematiche ESG acquistano un valore sempre più rilevante in quanto rappresentazione di un approccio alla gestione dell’investimento orientato al lungo periodo, in grado di includere il monitoraggio e la valutazione delle variabili sociali, ambientali e di governance oltre che la valutazione dei principali rischi a essi correlati. I servizi finanziari, le utility e l’industria restano i settori più virtuosi che hanno da sempre riposto grande attenzione alle tematiche ESG. Più recentemente, settori come l’health care, il lusso e la moda, unitamente al tech IT stanno mostrando una maggiore sensibilità e una apertura verso i temi della sostenibilità e alla sua rendicontazione derivante da una maggiore consapevolezza nella creazione di valore nel lungo periodo».
Ma come l’introduzione dei fattori ESG sta cambiando veramente le strategie di investimento? Attraverso la divisione ESG Advisory, V-Finance affianca le società nel recepimento dei criteri ESG: dall’elaborazione del Bilancio di Sostenibilità nel rispetto dei GRI standard, alla definizione di politiche di Investor Engagement fino alla progettazione di piani di ESG Strategy, con l’integrazione nella gestione aziendale degli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. «La divisione – spiega Anna Lambiase – è stata creata per rispondere alla crescente domanda di investitori istituzionali, coniugando l’expertise sul mercato dei capitali con le tematiche di sostenibilità al fine di approfondire e monitorare gli impatti ambientali, sociali e di governance e facilitare il confronto con i mercati finanziari fornendo consulenza alle società Small-Mid Cap sulle strategie ESG volte a rispondere ai nuovi requisiti imposti dalle policy di investimento nazionali e internazionali. Negli ultimi anni, abbiamo registrato un grande impatto sulle dinamiche e prospettive della sostenibilità nel mondo delle aziende private per i progetti di IPO sostenibili specie legati alle greentech».
Il primo ESG Report in Italia elaborato da V-Finance su tutte le società quotate in Borsa Italiana (n.376) nei rispettivi mercati di riferimento (MTA, FTSE Mib e AIM) analizza i bilanci di sostenibilità e le DNF, individuando i temi di materialità e considerando la loro compliance rispetto agli standard settoriali della Materiality Map di SASB, che identifica i problemi di sostenibilità che possono influenzare le condizioni finanziarie o le prestazioni operative delle aziende all’interno di un settore. Da questa analisi – mette in evidenza Anna Lambiase – emergono due dati importanti: «Soltanto il 49% delle società quotate sui listini di Borsa Italiana rendiconta la sostenibilità. E la percentuale di PMI che elabora il bilancio di sostenibilità è ancora molto limitata: il mercato AIM vede soltanto 13 società (9% sul totale AIM) elaborare il bilancio di sostenibilità, pari al 7% delle quotate che rendicontano le informazioni non finanziarie. Guardando ai comparti il segmento TECH è certamente uno dei più attivi sul tema rendicontazione. Nello specifico infatti, il 25% delle società AIM Italia che rendiconta la sostenibilità fa parte di questo settore».
AGLI INIZI DI UNA NUOVA ERA
Secondo Fabio Rizzotto, associate VP, head of Research and Consulting di IDC Italia, la pandemia ha sicuramente accelerato la presa di coscienza della fragilità del Pianeta e dei meccanismi socioeconomici, esposti più di quanto si pensasse a nuovi (e vecchi) rischi. L’emergenza è uno shock sistemico imprevisto che oblitera abitudini, comportamenti, modelli e ogni tipo di eredità del passato, sistemi legacy compresi, facendo emergere nodi infrastrutturali mai risolti. Ma se c’è qualcosa da imparare, la lezione non sarà per tutti la stessa. Dipende dallo shock da cui siamo stati colpiti: se è “piccolo” lo assorbiamo e ce ne dimentichiamo subito; se è medio ci adattiamo; se è alto ci trasformiamo. Stando alle rilevazioni di IDC condotte a maggio 2020 in Europa, quasi il 40% di imprese mostra già una accelerazione dei percorsi di sostenibilità come conseguenza dalla crisi Covid-19. Tuttavia – afferma Fabio Rizzotto – «il tema sostenibilità accompagnava i percorsi di innovazione digitale delle imprese anche prima della crisi pandemica. Prima dell’emergenza, il 39% delle aziende italiane presentava un impegno in fase avanzata o mediamente avanzata di integrazione dei principi di sostenibilità nei propri modelli di business. Le trasformazioni richieste ovviamente sono profonde, così come gli effetti e i benefici devono trovare riscontro attraverso appositi modelli di misurazione».
Il ruolo delle tecnologie ICT e digitali è decisivo. Basti pensare che le previsioni IDC vedono il 65% del PIL mondiale direttamente o indirettamente generato dall’economia digitale entro la fine dell’anno prossimo. In questa cornice, è possibile vedere da molteplici angolazioni e prospettive le risposte che l’IT può portare alla sfida della sostenibilità. «La prima più ristretta – spiega Rizzotto – parte dal cuore infrastrutturale, ovvero dal cosa accade nella sfera data center. Secondo la IDC’s Datacenter Operational Survey 2020, l’87% delle aziende globali include già metriche di funzionamento delle proprie facility data center all’interno dei report di corporate social responsibility. Indicatori, o ambiti, tipicamente toccati sono, per esempio, l’intensità di utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, l’efficientamento operativo ed energetico, insieme a obiettivi più estesi quali il contributo all’economia circolare o il rispetto di requisiti di inclusione relativamente alla sfera di gestione del personale». Uscendo dalla sfera data center per abbracciare una cornice di IT Management più ampia – continua Rizzotto – la sostenibilità incontra i modelli di gestione e i rapporti con l’ecosistema ICT.
«Il 68% delle aziende mondiali incorpora già obiettivi di sostenibilità nei processi di selezione e acquisto da partner tecnologici. E il 60% ritiene che l’utilizzo efficiente e innovativo di soluzioni IT può contribuire a migliorare il footprint aziendale». Proseguendo il viaggio verso processi digitali ancora più estesi, la sfera di responsabilità aziendale arriva all’Edge – «ovvero disegna un “digital reach” che ha idealmente come perimetro tutti i touch point digitali che una tipica impresa può attivare nel modello operativo dei propri processi». In effetti, la corsa all’innovazione fa immergere le imprese completamente nella società digitale, che – secondo Rizzotto – «diventa lo spazio virtuale in cui avvengono le digital operations, e in cui si sviluppano la digital experience di utenti, consumatori, oltre che di dipendenti e collaboratori d’azienda».
Con le tecnologie che diventano essenza del modo di funzionare di processi aziendali sempre più distribuiti, che si aprono a nuovi ecosistemi – «anche i ruoli e le responsabilità coinvolte nelle strategie di sostenibilità si amplificano, uscendo dai confini tradizionali della funzione IT – afferma Rizzotto – per abbracciare una visione più estesa, organica. Qui può entrare in gioco (e sta avvenendo in molte organizzazioni) una vera e propria partecipazione collettiva “alla causa”, orchestrata dai CXO e concertata con il board aziendale, in cui certamente trovano collocazione CIO e CTO». Cosa ci riserva il futuro? «Siamo appena agli inizi di una nuova era» – risponde Fabio Rizzotto. «Per il nostro Paese e per l’Europa in generale, si guarda con attenzione alla prospettiva di utilizzo e valorizzazione dei fondi pubblici destinati alla ripresa e all’innovazione. Probabilmente, è prematuro fare previsioni su quali saranno le ricadute puntuali delle iniziative previste nei prossimi anni, tuttavia le premesse sono significative. Basti pensare alle due aree candidate ad avere impatti maggiori sulla spesa IT. La prima è la direttrice della transizione ecologica. La seconda è il supporto alla trasformazione digitale. Le due direttrici ovviamente si intersecano e insieme sono destinate ad assorbire una quota importante degli investimenti. Una premessa, e una conferma, che il binomio sostenibilità-innovazione digitale si rafforza e continuerà a evolvere assumendo nuovi contorni e forme».