Contenuti affidabili per l’ADV che funziona. Una piattaforma che raccomanda contenuti sull’Open Web. Vera alternativa all’oligarchia della pubblicità digitale
Outbrain è la principale piattaforma di raccomandazione di contenuti dell’Open Web. Di fatto, si pone come alternativa a quei colossi che si dividono la posta di investimenti e click degli annunci. Yaron Galai e Ori Lahav hanno fondato Outbrain nel 2006 per risolvere il problema che gli editori avevano nel replicare, su internet, l’esperienza su carta del voltare pagina per scoprire il prossimo articolo. Le soluzioni sviluppate negli anni hanno posto Outbrain al centro dell’innovazione tecnologica delle raccomandazioni, grazie alla promozione di attività che puntano a migliorare il modo in cui i contenuti, in tutti i formati e su tutti i dispositivi, vengono consumati.
DRITTO AL CONTENUTO
Un mantra, nel lavoro di Outbrain, è di proporre annunci ben lontani dal concetto di “invasivo”. Il raggiungimento di ciò che viene definito come “vetrina di comunicazione” sta nell’integrare gli elementi all’interno di un tessuto digitale, tale che resti coerente, fluido e appagante. «I placement che mettiamo a disposizione dei brand sono all’interno di un contesto editoriale esclusivamente Premium» – spiega Antonello Sessa, head of sales Italy di Outbrain. «Premium perché il fondamento del nostro operato è sempre la qualità, la network recommendation, che deve per forza di cose differenziarsi da tutto ciò che c’è fuori». Nel concreto, l’output di Outbrain si traduce in diversi modi. Tra questi, la classica recommendation box, immagini in caselle con un testo e una call-to-action, che cambiano anche in base al percorso che un navigatore ha effettuato fino a quel momento. «Questi chumbox vengono mostrati in fondo a un articolo oppure “in-article”, con una visibilità decisamente maggiore» – continua Sessa. «Con le soluzioni full-funnel di Outbrain, i brand possono raggiungere qualsiasi tipo di KPIs (dall’awareness alle conversion). Tra queste, gli ultimi smartad lanciati sul mercato sono Native Awareness+, Carousel e App Install, soluzioni pubblicitarie competitive e affidabili».
LA QUESTIONE DELL’IDFA
Molto cambierà, nel panorama della raccolta e pianificazione pubblicitaria, quando Apple concretizzerà, con un aggiornamento di iOS, lo switch del suo Identifier for Advertisers (IDFA). Si tratta di un identificatore di dispositivo casuale assegnato al dispositivo di un singolo utente. Attualmente, gli inserzionisti lo utilizzano per tenere traccia dei dati, in modo da poter fornire pubblicità personalizzata. La modifica voluta da Apple mira a informare gli utenti sulla possibilità di concedere attivamente, o meno, un permesso a tutte le app che intendono usare l’IDFA per tracciamenti ai fini pubblicitari. Facebook e Google (ma non solo) si sono già opposte all’iniziativa, per quanta voce in capitolo possano avere, ricordando che ciò limiterà la capacità soprattutto dei piccoli investitori nel raggiungere un target specifico. Come si pone Outbrain in tale diatriba? «La maggior parte del traffico mobile che ci interessa è basato su Web e non su app – risponde Sessa. L’IDFA non avrà dunque un impatto drastico sul nostro business e dunque su quello dei clienti. Tuttavia, notiamo una crescita sostanziale nel volume di dati dalle app, per cui abbiamo già completato il processo per supportare SKAdNetwork di Apple. In questo modo, i nostri clienti potranno continuare ad attribuire il download delle app al traffico in-app su iOS 14».
CAPITALIZZARE GLI INVESTIMENTI
Nel recente passato, alcuni studi sul comportamento dei consumatori, svolti da Outbrain in collaborazione con l’agenzia Lumen, hanno permesso di capire come il native advertising, sui siti degli editori Premium del fornitore, avesse ben il 44% di probabilità in più di risultare attendibile, rispetto a quello di altri siti, il 21% di opportunità in più di essere cliccato e il 24% di portare ad acquisti futuri, in confronto agli annunci su piattaforme social. Insomma, un clic su Outbrain ha uno score più alto di quello che può avere su Facebook e simili. «La ricetta è cambiata» – conclude Sessa. «La pubblicità del futuro deve scaturire da parametri che possano essere misurati e non più basati su concetti come il pagamento per impression».