La discussione intorno alle tavole rotonde organizzate da Data Manager – ormai entrate nell’ottavo ciclo annuale di incontri tra consumatori e produttori di informatica professionale – verteva ancora una volta sul tema dello smart working e della collaborazione.
Visti i tempi, è stata una buona opportunità per cercare di misurare la capacità di discostarsi dalla banale equazione “smart” uguale “tele” che avevamo già considerato qualche mese fa, in un “grandangolo” focalizzato sul tema collaterale della tecnologia intesa soprattutto come intelligenza computazionale, a supporto del lavoro di tipo più speculativo.
In prima istanza, il confronto tra le diverse esperienze vissute dai panelist (da ringraziare anche per il livello di profondità e franchezza raggiunto durante la conversazione) aiuta a far capire due o tre cose.
A giudicare dai risultati raggiunti, abbiamo sottovalutato i reali potenziali di tecnologie che da anni vengono definite “abilitanti” senza che questo si traducesse in pratiche su larga scala. Le parole spese a proposito di dematerializzazione, collaboration e perdita di centralità dell’ufficio non si reggevano solo sulla necessità di creare cultura e consapevolezza. Oggi, nessuno, alla luce degli avvenimenti, può contestare il fatto che le tecnologie in questione funzionano, e bene.
Le aziende costrette a spostare, letteralmente nel giro di poche ore, quote consistenti di forza lavoro dal normale contesto professionale alle singole abitazioni dei loro dipendenti, hanno ottenuto esiti sorprendentemente positivi. Specie nel caso in cui certe modalità “alternative” di lavoro erano state sperimentate su scala ovviamente più ridotta, facendo leva su percorsi di trasformazione digitale che avevano già investito ampie porzioni delle infrastrutture di rete e di risorse applicative.
Il secondo messaggio è che malgrado i numeri in campo, la strada per differenziare davvero il “tele” dallo “smart” è solo agli inizi. Ricorrendo a una trita metafora educativa: quando siamo stati gettati improvvisamente in “acqua”, abbiamo capito che il telelavoro funziona, ma ci siamo anche dovuti accontentare di uno stile di nuoto alquanto grezzo. Il che non ha impedito di ottenere, in vasca, tempi in linea con le medie tradizionali. Se non migliori. I primi studi interni ed esterni alle aziende indicano che lavorare a distanza può voler dire lavorare in modo più efficiente.
Se stiamo solo ora cominciando a valutare certi vantaggi, non sarebbe utile omettere le perplessità. Il pegno pagato in termini di socialità del lavoro, di proficue opportunità di scambio, ancora non è stato minimamente compensato e pesa sulle valutazioni fatte dalle figure preposte alle catene di comando e controllo. La “contiguità” degli spazi del lavoro e della vita quotidiana ha inoltre un forte impatto psicologico su individui che non riescono più a creare una separazione netta tra le diverse facce della loro quotidianità. E questo può portare a conseguenze molto negative ma imprevedibili.
Quali sono dunque i punti da affrontare in un futuro molto prossimo, considerando che tutti concordano ormai sulla impossibilità di tornare alle modalità pre-Covid? Limitiamoci a poche “buzzword”. Smart working significa scegliere la situazione di lavoro preferita in funzione delle attività da svolgere, in modo molto libero e ibrido. Governare lo smart worker significherà rinunciare a strutture gerarchiche che moltiplicano inutilmente momenti di pura “burocrazia” lavorativa, spesso incompatibili con la distanza fisica che dovremo accettare come definitiva.