Come trasformare il lavoro agile “forzato” da strumento anticontagio a strumento di crescita della competitività aziendale? Le imprese possono mettere a frutto i mesi dell’emergenza per implementare policy e best practice
Due recenti studi hanno dimostrato che durante l’emergenza pandemica lo smart working è stato un vero strumento di business continuity, ma quello “praticato” non è stato lavoro agile, quanto lavoro da remoto. Secondo il primo studio del Politecnico di Milano, l’emergenza sanitaria ha imposto un esercizio collettivo di lavoro agile i cui numeri dimostrerebbero come lo smart working abbia contribuito a limitare le conseguenze negative dello shock provocato dalla pandemia sull’occupazione.
La seconda indagine condotta dall’Istat mostra, però, come nelle imprese che sono ricorse allo smart working vi sia stato un calo di produttività, un calo dell’efficienza e, da ultimo, conseguenze negative sulle relazioni interpersonali dei lavoratori. Quest’ultimo risultato si può (forse) spiegare, ammettendo che quello praticato nei mesi della pandemia non è stato un “vero” lavoro agile, quanto piuttosto lavoro “da remoto” imposto per non fermare tutte quelle attività che potevano essere svolte anche in un luogo differente dall’ufficio grazie agli strumenti informatici. Di conseguenza, lavoro da remoto, poco allineato alle finalità perseguite dal nostro legislatore all’indomani della regolamentazione dello smart working, vale a dire l’incremento della competitività aziendale e l’agevolazione della conciliazione dei tempi vita-lavoro (art. 18, co. 1, L. 81/2017). Inoltre, il lavoro agile, inteso come modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro e con prestazione eseguita in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, ha quale “centro focale” l’accordo scritto tra datore-lavoratore, ove devono essere previste, per esempio, sia le regole della prestazione lavorativa svolta all’esterno dell’azienda, sia la tipizzazione delle forme di esercizio del potere direttivo (art. 19, co. 1, L. 81/2017). D
all’inizio della pandemia, però, il ricorso massivo allo smart working è stato possibile grazie alla facoltà riconosciuta dai provvedimenti emergenziali di derogare ad alcune regole della L. 81/2017, prima tra tutte l’obbligo dell’accordo scritto, sostituibile con provvedimenti unilaterali del datore di lavoro. Possibilità da ultimo confermata anche nel cosiddetto Milleproroghe 2021 (D.L. n. 183/2020) fino alla fine dello stato di emergenza, attualmente “databile” 30 aprile 2021 (cfr. art. 1, D.L. 2/2021). Ma lo smart working, così declinato, continua a essere più uno strumento anticontagio che di ausilio alla crescita della competitività aziendale. Nei prossimi mesi, però, le aziende interessate ad accrescere efficienza e competitività potranno comunque avviare un percorso più orientato al raggiungimento di obiettivi e alla maggiore responsabilizzazione dei dipendenti.
In una battuta, usare i mesi dell’emergenza per innovare le policy e i regolamenti aziendali, anche di Compensation & Benefit. Oppure, per verificare la compatibilità delle strumentazioni informatiche con i dettami dell’art. 4 Statuto dei lavoratori e, nel caso, per modificare le policy sull’uso di tablet, pc, mail o cellulari, applicando i principi di liceità, necessità e proporzionalità del trattamento dei dati acquisiti, come raccomandato più volte dal Garante Privacy. Accorgimenti che potranno anticipare le norme europee, visto che lo scorso 21 gennaio 2021 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione con cui si esorta l’adozione di una direttiva per porre attenzione non solo alla flessibilità lavorativa, ma anche al diritto alla disconnessione. L’esperienza del più recente passato potrà, allora, essere una valida lezione da cui partire per costruire le policy del futuro.
Avv.ti Andrea Savoia partner e Marilena Cartabia senior associate UNIOLEX Stucchi & Partners www.uniolex.com