Il gruppo si conferma il provider italiano maggiormente attivo nell’erogazione di servizi basati su IPv6 alle Pubbliche Amministrazioni
Sono passati oltre quattro anni da quando la Commissione Europea si è spesa per indicare la via da seguire nel merito dell’ottimizzazione del web, possibile solo con l’integrazione dell’IPv6. Da Bruxelles, più volte era stato ribadito il concetto secondo il quale la tecnologia di nuova generazione si pone come fondamentale soprattutto per le Pubbliche Amministrazioni, per scongiurare il rischio di un’internet più lenta e di vivere ripercussioni concrete sull’innovazione de processi.
Se il passaggio al protocollo non è stato di certo rapido, ci sono alcuni provider che proprio su di esso hanno scommesso, fortemente creduto, per rinnovare lo scenario della PA. Tra gli attori principali, in Italia, c’è Seeweb che, secondo i più recenti dati diffusi da Antonio Prado, che ha estrapolato le informazioni dal sito Indicepa.gov.it, non solo era tra le prime a offrire, nel 2016, domini in IPv6 alle PA ma oggi si conferma come il primo provider italiano a supportare tale crescita, con attualmente 58 nomi a dominio disponibili in dual stack, rappresentanti il 16,7% del totale di 361 individuati. Davanti a lei solo la statunitense Cloudflare, con 138 nomi in IPv6. Detto ciò, come rileva la ricerca di Prado, a distanza di quattro anni dall’ultima rilevazione, la concentrazione di alcuni servizi essenziali della PA è rimasta pressoché invariata: rispetto al 2016, il numero dei siti web delle pubbliche amministrazioni italiane fruibili anche in IPv6 è aumentato da 195 a 361, pari a una variazione percentuale del +85,1%.
L’impegno di Seeweb
Seeweb utilizza connettività IPv6 dal 2005, fornendolo ai propri clienti (non solo pubblici evidentemente) con oltre 150mila siti globali. In generale, in Italia l’adozione del protocollo stenta ancora a fare il grande salto eppure una sua implementazione urge, visto che più o meno un anno fa gli indirizzi IPv4 erano in procinto di finire, come espresso dal Ripe NCC, Réseaux Ip Européens network coordination centre, che è uno dei registri internet principali con delega per l’assegnazione degli indirizzamenti nell’area EMEA. Certo, resta possibile recuperare gli indirizzi IPv4 non più utilizzati ma è evidente che, a questo punto, convenga più passare alla “next-gen”, piuttosto che essere costretti a farlo obbligatoriamente tra qualche anno.
Peraltro, l’esplosione dell’Internet delle Cose e, in generale, di milioni di dispositivi connessi, ha reso ancora più evidente la necessità dello switch. Basti pensare che se un indirizzo IPv4 utilizza 32 bit e può contrassegnare un numero limitato di indirizzi distinti, IPv6 lavora sui 128 bit e ne può quindi gestire molti di più. Nel concreto, si va da circa 4 miliardi di indirizzi previsti con l’IPv4 ai circa 340 miliardi di miliardi di miliardi di miliardi in IPv6. Una sua scarsa implementazione può dunque voler dire una crescita molto più lenta del web così come lo conosciamo. E se dietro l’angolo c’è il 5G e tutta la pletora di nuove opportunità che esso apre, risulta evidente come la PA non abbia molto tempo da perdere per non ritrovarsi in un pericoloso collo di bottiglia in quanto a offerta di servizi ai cittadini.
Se negli anni si è scelto un processo di transizione graduale, con un mix di coesistenza dei due sistemi di indirizzamento, adesso operatori come Seeweb hanno il non facile compito di accelerare verso l’aggiornamento, che peraltro non ha nemmeno grosse problematiche tecniche, dato che sia gli apparati di rete sono già in grado di interpretare sia IPv4 che IPv6, con i sistemi operativi che, fin dall’inizio degli anni 2000, possono generare e interpretare indirizzi IPv6.