Sepolta nella montagna di informazioni relative alle ricerche sul Covid-19, una notizia pubblicata sulla rivista eLife lo scorso luglio ci aiuta a intuire il ruolo degli approcci computazionali nella lotta contro una pandemia che sembra destinata a tenere ancora a lungo sotto scacco medici e scienziati.
L’articolo, firmato dal lead researcher Daniel Jacobson e dai suoi collaboratori all’Oak Ridge National Laboratory nel Tennessee, spiega una serie di meccanismi che potrebbero portare a un efficace approccio terapeutico, almeno di una parte della complessa sintomatologia del Covid-19.
Questi meccanismi sono stati messi in luce attraverso l’analisi computazionale delle espressioni geniche nelle cellule prelevate dal fluido che invade i bronchi dei pazienti più gravi. Analizzando 2 miliardi e mezzo di combinazioni di geni, il supercomputer Summit in funzione all’Oak Ridge – il secondo nella classifica dei più potenti al mondo – ha messo in evidenza l’anomala concentrazione di sostanze legate al “sistema renina-angiotensina” (RAS), il quale a sua volta controlla numerosi aspetti del nostro sistema circolatorio, compresi i livelli di bradichinina, un neurotrasmettitore che agendo sulla permeabilità dei vasi sanguigni serve a regolare la pressione del sangue.
Secondo Jacobson e colleghi, il virus SARS-CoV-2 finisce per scatenare in certi pazienti una vera e propria tempesta di bradichinina, con gravi conseguenze in termini di danni di natura vascolare. La buona notizia è che i medici potrebbero intervenire contro questa tempesta con farmaci di comprovata efficacia, utilizzati per l’appunto nel trattamento dell’ipertensione. Il discorso come si vede è molto complesso ed è doveroso precisare che un altro ricercatore, questa volta olandese, Frank van de Veerdonk, ha raggiunto analoghe conclusioni non lavorando al supercomputer, ma semplicemente ragionando su quanto abbiamo imparato dei percorsi di attacco del virus, che coinvolgono proprio i ricettori ACE2 (acronimo di angiotensin-converting enzyme-2) delle cellule: uno degli assi portanti del sistema RAS.
Le ricerche di Jacobson sono un’eclatante conferma dell’importanza del machine learning come “coadiuvante” del lavoro in ambito scientifico e non solo scientifico. Summit ci aiuta a fugare una serie di fraintendimenti sul reale significato di smart working, che nella testa di molti rappresenta semplicemente una forma di telelavoro. Non è affatto così. Smart working non significa spostare la propria scrivania dall’ufficio al proprio appartamento, ma mettere più intelligenza, maggiore capacità di correlare dati e informazioni, nel nostro lavoro. Una più corretta interpretazione del ruolo che le tecnologie informatiche possono avere al fianco degli operatori umani ci aiuterebbe a pianificarne meglio l’impiego, a delimitarne il campo e il livello di intervento. Senza creare falsi miti e situazioni alienanti, dosando in modo più opportuno l’adozione pratica della cosiddetta virtualizzazione.
Ancora una volta, è una questione di politica della trasformazione digitale, una partita che siamo da tempo chiamati a giocare anche se raramente abbiamo voglia di presentarci in campo. Un’altra enorme opportunità per mettere a frutto lo “smart” tecnologico nel nostro “working”, si presenta oggi, con la necessità di gestire l’enorme massa di risorse finanziarie dei piani di ricostruzione post-Covid. Una robusta dose di intelligenza, se ben somministrata, potrebbe aiutarci a fare in modo che queste risorse vengano distribuite dove servono, e dove possono essere rendicontate. No, non basterà spostare semplicemente qualche scrivania.