La prima volta che ho sentito parlare di riforma della scuola avevo undici anni. Mettendo a posto vecchi quaderni di educazione civica, ho ritrovato gli appunti di una conferenza: “Burocrazia, semplificazione e meritocrazia”, introduzione dell’allora magistrato di sorveglianza Giancarlo de Cataldo. Anno 1988.
Ho frequentato il liceo scientifico a Manduria, trenta chilometri dall’Ilva di Taranto. Profonda provincia d’Italia, dove ci voleva più coraggio per essere se stessi che per essere qualsiasi altra cosa. Nel ‘92, il primo esame di Filosofia del diritto all’Università Cattolica di Milano con Luigi Lombardi Vallauri. Per superarlo, bisognava seguire un seminario di informatica giuridica e preparare un testo supplementare dal titolo “Etica e trasformazioni tecnologiche” con i contributi di Adriano Bausola, George Cottier, Francesco Carazza e tanti altri che adesso non ricordo. Sono passati quasi trent’anni. E molte questioni sono ancora sul tavolo: lavoro, ecologia, pubblica amministrazione. E giustizia, che resta al palo come la meno digitale.
Nel frattempo, siamo diventati tutt’uno con la rete. Seminiamo scie infinite di dati che raccontano tutto della nostra storia. La velocità della trasformazione sottrae tempo alla riflessione, alle domande sul senso di ciò che facciamo, del come e del perché. Ogni tecnologia è destinata a diventare commodity. Ogni infrastruttura, a diventare apparato. Ogni innovazione per quanto dirompente lascerà la sua eredità. Come le scelte che facciamo. Tuttavia, il dibattito pubblico è polarizzato, l’informazione distorta, le convinzioni fondate su pregiudizi. Siamo guidati dall’emotività, prigionieri della paura, bloccati dall’abitudine. Ogni cambiamento è vissuto come scocciatura o minaccia. E la semplificazione condizionata e salvo intese conduce sempre alla stratificazione di altri processi. La complessità ci sfugge. L’esecuzione vale meno della strategia. La politica per decidere guarda all’economia e l’economia guarda alle risorse tecnologiche. Il potenziamento tecnologico ci rende più agili ma ci espone a nuove fragilità, perché richiede più consapevolezza.
La società-rete è la nuova architettura – come spiega Gianfranco Dioguardi – in cui persone, soggetti e oggetti non-umani possono apprendere informazioni e generarle per supportare la comprensione del mondo (scienza), trovare nuove relazioni e realizzare artefatti dotati di progetto (impresa). I confini del mondo si sono allargati, ma adesso rischiano di restringersi sotto la spinta di nuovi sovranismi. Per costruire una democrazia migliore dobbiamo cominciare dai nostri comportamenti, dalle nostre città, dalle nostre imprese. Un richiamo alla responsabilità del buon governo delle città alla quale Fondazione Dioguardi, Università degli studi di Bari e Anci dedicano l’attività di formazione della “City School”, il cui primo master si chiude il 20 luglio. Perché proprio dal cuore delle città, dalla dialettica tra centri e periferie, dall’impasto di cemento, fibra e dati nasceranno le nuove soluzioni alla complessità. Dove l’architettura non solo urbana sarà by-design. Dove la logica della tecnica non sarà finalizzata solo all’ottimizzazione. E dove il vantaggio non sarà solo competitivo, perché allora sarebbe solo per pochi. Su questo terreno scivoloso imprese e istituzioni si giocano il loro rapporto di fiducia con clienti e cittadini.
Ogni crisi è un passaggio che oblitera abitudini, comportamenti, modelli e ogni tipo di eredità del passato, sistemi legacy compresi. L’emergenza Covid-19 ci ha offerto una drammatica occasione di discontinuità. La voglia di ritornare alla cosiddetta normalità però rischia di travolgere ogni cosa. La retorica dell’emergenza richiama la retorica del cambiamento. Tra riavvii di sistema, trampolini di (ri)lancio e tripli salti di qualità con rincorse lunghe decenni, qualcuno rispolvera le Lezioni americane di Italo Calvino e qualcun altro cita Baricco. Software e hardware stanno in rapporto tra di loro come forma e sostanza. La velocità è un valore, ma la capacità di adattamento non può essere compressa. Persone e imprese cambiano solo quando sono costrette a farlo. Lo abbiamo visto. Il mondo dovrà convivere con vecchie e nuove emergenze. Sarà più piccolo e diviso? O più grande e ricco di opportunità? Forse, dobbiamo trovare un vaccino alla tentazione assoluta di scorciatoie e soluzioni facili. Perché resilienza significa prevedere gli effetti delle decisioni nel lungo periodo. Resilienza fisica, emotiva e anche operativa. E il vaccino che ci renderà veramente immuni esiste già: si chiama scuola, oggi completamente dimenticata.