Sinergie di sistema e innovazione. L’industria della moda riparte da qui per ridisegnare la value chain. Il 2020 sarà un anno di passaggio e trasformazione. Forte accelerazione su commercio digitale, customer experience, blockchain e intelligenza artificiale

Con più di 221mila imprese e un mercato che vale 97 miliardi di euro (dati Confindustria Moda), il fashion italiano è la seconda industria italiana per importanza e ai primi posti in Europa per produzione (tessile, abbigliamento e accessori). Tuttavia, il 2020 sarà sicuramente un anno di passaggio e trasformazione. La situazione, a livello globale e locale, presenta molti chiaroscuri. Secondo alcuni operatori le previsioni di crescita indicate dagli analisti prima del lockdown – circa 712,9 miliardi di dollari a livello globale entro il 2022 (“The Fashion and Apparel Industry Report”) – potranno essere mantenute a patto di spingere l’acceleratore sull’innovazione. Secondo altri, l’intero comparto a livello worldwide dovrà fare i conti con le perdite che per il 2020 saranno a doppia cifra con effetti a cascata su tutta la filiera che comprende anche la distribuzione e il commercio al dettaglio. Secondo McKinsey, le vendite globali diminuiranno fino al 30% nel 2020 mettendo a rischio milioni di posti di lavoro. Il rallentamento della spesa e la diminuzione della domanda attraverso i canali imporranno scelte drastiche. Le trimestrali in rosso e le previsioni negative, che riportano l’industria della moda ai livelli più bassi dopo la crisi del 2008, scuotono il Sistema Moda. Una scossa che al tempo stesso può rappresentare l’opportunità per il Sistema di ridisegnare completamente la value chain, diventare più sostenibile, più efficiente e meglio connesso con i clienti grazie all’utilizzo dell’innovazione tecnologica. Una trasformazione già trainata dalla forte crescita dei consumi online, che segnerà un cambiamento di atteggiamento verso l’e-commerce anche da parte della produzione del lusso, di cui l’Italia detiene il primato mondiale.

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AL CENTRO DELLA TRASFORMAZIONE

Al di là delle premesse, comprendere le mutevoli esigenze dei clienti e accelerare il time to market sono compiti ardui anche per le aziende leader di mercato, che sempre di più si rivolgono alla tecnologia per accelerare le strategie e consolidare le proprie posizioni o – e non è così remoto – tuffarsi come nome nuovo in uno scenario decisamente in divenire. Del resto, la moda è sempre stata al centro della trasformazione, dall’invenzione della macchina per cucire all’ascesa del commercio elettronico. Come la tecnologia, la moda vive di momenti ciclici più o meno importanti per la sua evoluzione. Oggi, l’information technology disegna un panorama molto interessante, che vede robot che tagliano e uniscono i tessuti, algoritmi di intelligenza artificiale che predicono le tendenze dello stile, specchi VR nei camerini, automatizzazione delle personalizzazioni e piattaforme social che raccolgono dati a bizzeffe.

Ci sono indubbiamente dei trend su tutti, come l’intelligenza artificiale, che gioca oramai un ruolo predominante in diversi ambiti industriali. Ogni settore ha mosso i primi passi in progetti di AI, a cominciare dal retail, per identificare i comportamenti di acquisto e prevedere i gusti prima che si trasformino in necessità. Ma non solo. I chatbot sono i nuovi rappresentanti di vendita utilizzati dai retailer per gestire le richieste e il contatto con il cliente attraverso un’esperienza di acquisto continua senza interruzioni tra online e offline. E poi, le piattaforme di comunicazione a cui tutti ci siamo abituati, soprattutto la Generazione Z, che è poi quella dei consumatori del domani. È evidente come la digitalizzazione abbia cambiato sin dalle fondamenta il business del fashion, creando marchi consapevoli e finalmente pronti a rimettersi in discussione.

COMMERCE EVERYWHERE

Sebbene la moda e la tecnologia siano percepiti come distinti e distanti, hanno sempre mantenuto punti di intersezione. Negli ultimi anni, l’information technology sta dando uno slancio evidente al fashion. Con il passaggio dallo shopping al dettaglio all’online, l’impatto della tecnologia è stato difficile da ignorare, specialmente nei mesi contraddistinti dalla pandemia da Covid-19, quando la notorietà delle piattaforme online è andata aumentando sempre più. Innanzitutto, è importante notare come il cambiamento principale abbia riguardato la personalizzazione e il modo in cui i marchi si interfacciano con i consumatori.

Come ci ha spiegato Ornella Urso, senior research analyst di IDC Retail Insights – i rivenditori stanno andando oltre il concetto di omnicanalità, perché oggi mirano a coinvolgere il cliente in tempo reale, attraverso la catena del valore del commercio che è ovunque. In questo contesto – «la personalizzazione della customer experience rimane una priorità di primo livello per i retailer che mirano a innovare i loro modelli di business, da qui ai prossimi cinque anni». Seguendo gli ultimi trend rilevati da IDC sull’innovazione del retail, un numero sempre maggiore di aziende va oltre il “segment of one”, attraverso l’esperienza contestuale in real time, con il 20% delle imprese europee di moda e abbigliamento che stanno già implementando simili strategie. Gli investimenti mirano a consolidare i dati dei clienti e a sfruttare l’analisi avanzata, a fornire un’interazione contestuale e a far evolvere i programmi di fidelizzazione (fonte: “IDC’s Global Retail Innovation Survey”). Inoltre, sempre secondo IDC (“European Tech and Industry Pulse Survey 2019-2020 Retail”), per il 48% delle aziende europee del fashion, l’allineamento del marketing e della pubblicità con le loro strategie CX rimane fondamentale per ottenere una personalizzazione contestuale in tempo reale, concentrandosi sui social media, sui motori di ricerca, la pubblicità mobile e gli annunci via display.

SOSTENIBILITÀ E LOGISTICA

La produzione sostenibile e l’economia circolare stimolano i rivenditori e le aziende del largo consumo a ripensare la catena di fornitura, il rapporto con i clienti e il modo in cui la tecnologia può effettivamente influire sul benessere del Pianeta. Molte hanno lanciato iniziative e partnership volte a ridurre l’uso della plastica e le emissioni di CO2, promuovendo proprio la circolarità (H&M) e il riciclo (Adidas), la salute e la sicurezza. Aumentare la fidelizzazione dei clienti è ancora una sfida importante per il 50% dei rivenditori europei che mirano a migliorare la customer experience. Inoltre, ci sono aspetti specifici che le aziende di vendita al dettaglio devono affrontare per soddisfare al meglio le aspettative dei clienti.

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«Tali requisiti – spiega Ornella Urso – includono una gestione dei resi completamente integrata e una soluzione di logistica inversa. Oggi, i rivenditori e i produttori non dispongono generalmente di sistemi avanzati per consentire l’acquisizione senza soluzione di continuità dei dati relativi ai resi, raccomandare la disposizione o riconciliare rapidamente le merci da restituire (con le azioni finanziarie appropriate).

Una soluzione olistica ed efficace di logistica inversa – continua Ornella Urso – dovrebbe essere integrata in una piattaforma di gestione degli ordini omnicanale e dovrebbe incorporare l’IoT, la tracciabilità, i dispositivi mobili, l’intelligenza artificiale, analisi e reportistica, nonché una nativa comunicazione in software ERP e WMS. «Esistono diverse altre tecnologie che contribuiscono a un’efficace strategia di riduzione dei resi – come la visualizzazione 3D e le soluzioni di gestione del ciclo di vita del prodotto – che permettono alle aziende di progettare e produrre più vicino al mercato di riferimento. Nel caso di Decathlon, tecniche come l’RFID possono consentire alle aziende di tracciare facilmente e rapidamente il movimento del prodotto attraverso la catena di fornitura, per raggiungere i consumatori in modo tempestivo».

Altro elemento fondamentale per IDC è investire sull’engagement dei clienti per una migliore fidelizzazione. «Già nel 2019 – sottolinea Ornella Urso – il rivenditore francese di abbigliamento femminile Promod stimava che la maggior parte degli acquisti venivano avviati online e conclusi in negozio, rappresentando oltre il 90% delle vendite. Il grosso delle campagne di marketing di Promod è stato dunque mirato ai suoi clienti offline, raccogliendo per circa il 70% dei propri store, gli indirizzi email (con il consenso delle persone), il numero di carta fedeltà e le ricevute di acquisto inviate digitalmente via email o app mobile. Promod è arrivata a premiare i clienti che si convincevano ad acquistare online con “ePoints” che davano l’opportunità di accedere a una selezione di gift speciali (per esempio prodotti alimentari). In questo modo il rivenditore si è assicurato di raccogliere ulteriori informazioni sui gusti e le preferenze delle persone, arricchendo la raccolta di dati identificativi. Un duplice successo: ottimizzazione delle campagne e miglioramento dell’esperienza utente, col fine di suggerire prodotti a coloro che guardano il sito web e a cluster di profili simili».

I consumatori sono sempre più abituati a cercare prodotti usando il loro smartphone. Lo fanno anche per condividere gli acquisti sui social media o per sfruttare al massimo la tecnologia che si ritrovano tra le mani, come gli assistenti vocali. I siti web mobile-friendly, le applicazioni mobili e le piattaforme social (tra tutte Pinterest e Instagram) mettono in contatto i clienti con i marchi. «La mobilità estrema – spiega Ornella Urso – consente di accedere a contenuti accattivanti e di interagire con i rivenditori che offrono nuove modalità di acquisto in-store. Nel 2018, il rivenditore di moda e bellezza online britannico ASOS ha collaborato con una società IT per realizzare camerini virtuali nella sua piattaforma online. La soluzione è oggi un successo e sfrutta la realtà aumentata per mostrare l’aspetto dei prodotti su modelli di diverse taglie, piuttosto che lasciare i soliti dubbi sulla vestibilità di un capo prima dell’acquisto. Così ha ridotto i costosi resi e fidelizzato maggiormente i navigatori. La funzionalità è stata completamente implementata nel giugno dello scorso anno e chiamata “Virtual Catwalk” (passerella virtuale): un modo per visualizzare indossatori in 3D che provano centinaia di outfit».

NUOVI MODELLI DI OFFERTA

Per Ashwini Asokan, fondatore e amministratore delegato di Vue.ai, che realizza soluzioni basate sull’intelligenza artificiale per il retail, Generazione Z e Millennials non vogliono possedere nulla, dunque cambia il modo stesso di offrire i prodotti: «Siamo passati dallo shopping scontato al vivere in un mondo dove tutti vogliono provare esperienze diverse, senza la seccatura di dover possedere e conservare tutto». Assume dunque un significato particolare il concetto stesso di sharing economy applicata al retail. Esperienza dell’utente e convenienza sono i due termini che guidano le decisioni dei clienti ovunque e in tale scenario, far parte dell’economia della condivisione può aiutare i marchi a ottenere maggiori profitti. Ikea è stato tra i principali ad aver notato questo cambiamento quando, nel 2013, ha creato un mercato delle pulci virtuale, per aiutare le persone a vendere i loro mobili usati».

Riproporre e rivendere l’abbigliamento non è un concetto nuovo: praticato per la prima volta in risposta alle carenze tessili nella prima guerra mondiale, oggi assume un valore maggiore proprio grazie ad applicazioni e all’onnipresenza del consumatore online, con la scomparsa contemporanea dei limiti territoriali. E tutto questo per finalizzare un acquisto, ma anche per creare comunità intorno al brand.

La “connessione umana” è uno degli obiettivi di Guesst, un modello di business di co-retail guidato da una piattaforma tecnologica progettata per collegare i marchi diretti al consumatore con i clienti in uno spazio fisico, normalmente affittato in modalità temporary. Come ha spiegato Jay Norris, fondatore e amministratore delegato di Guesst – la soluzione offre molte opportunità scalabili per le aziende, che possono portare le loro collezioni presso il pubblico, in posti selezionati. «Un software gestisce tutte le transazioni di vendita, i pagamenti, il monitoraggio dell’inventario, le tasse e i rapporti, rendendo l’operazione senza soluzione di continuità per entrambe le parti. E in questo modo, consentiamo ai marchi di testare le acque senza nuotare immediatamente nella parte più profonda della piscina».

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EXPERIENCE E NUOVE TENDENZE

L’audace interpretazione di Jay Norris fa da eco a quella di Amit Sharma, fondatore e amministratore delegato di Narvar, che ha lavorato per includere nella propria piattaforma una migliore fase di esperienza di postvendita. L’obiettivo è aiutare i consumatori a prendere decisioni meglio informate, incrementare il conversion rate, aumentare la soddisfazione e ridurre l’incertezza della prevendita.

In pratica, consegna e reso sono diventati parte integrante delle modalità di acquisto, svolgendo un ruolo chiave nei processi decisionali dei consumatori. In questo modo, i rivenditori possono dare fiducia ai clienti dimostrando che quanto avviene dopo la consegna del pacco a casa è qualcosa di cui non devono preoccuparsi. Un esempio ancora più famoso? Zalando. Lo stesso Zalando che ha collaborato con Google per l’adozione di Project Muze, un esperimento con cui è stata implementata una rete neurale per comprendere colori, trame, preferenze di stile e altri “parametri estetici” dei clienti, finiti poi nel “Fashion Trends Report” di Google, nonché nei dati di design e tendenze di Zalando. Project Muze ha utilizzato un algoritmo per creare progetti basati sugli interessi delle persone e allinearli con le preferenze di stile riconosciute dalla rete. Anche Amazon sta portando avanti progetti interessanti in questo settore. Con un’iniziativa guidata da ricercatori israeliani, il colosso statunitense avrebbe usato l’apprendimento automatico per valutare se un oggetto è “elegante” o meno. Tocca poi al centro di ricerca in California, Lab126, usare le immagini dei risultati per creare una miriade di oggetti basati su queste ma destinati a usi differenti.

QUANDO IL DESIGN È AUMENTATO

Nonostante vi sia ancora una certa differenza tra ciò che un software può fare da solo e la creatività e attitudine umana, il divario tra i due mondi si va man mano colmando. Un anno fa, un “designer” artificiale, chiamato DeepVogue, ha vinto il People’s Choice Award al concorso internazionale China Fashion Design Innovation. Il sistema, progettato dalla società tecnologica cinese Shenlan Technology, utilizza il deep learning per produrre progetti originali tratti da immagini, temi e parole chiave importati da designer umani. Chiaramente, è necessaria molta più ricerca e sviluppo prima che i marchi facciano affidamento solo a progettisti del genere ma l’AI è già un aiuto essenziale nello svolgere certe attività – non solo più di manovalanza – a supporto dei team in carne e ossa.

Nel 2018, Tommy Hilfiger ha annunciato una partnership con IBM e il Fashion Institute of Technology per l’iniziativa “Reimagine Retail”. Questa ha utilizzato gli strumenti di artificial intelligence per decifrare le tendenze del settore moda in tempo reale, il sentiment dei clienti nei confronti dei prodotti del brand Tommy Hilfiger e la sintesi delle più seguite tendenze in quanto a modelli, colori e stili. Il know-how ottenuto, restituito nelle mani dei progettisti umani, ha permesso di prendere decisioni ampliate per la realizzazione delle nuove collezioni. Le revenue di Tommy Hilfiger, parte del gruppo PVH, sono cresciute del +6% nel 2019, rispetto al 2018.

SE IL FASHION È GUIDATO DALL’AI

Andando oltre, Stitch Fix, servizio di styling personale online fondato nel 2011, è in prima linea nell’adottare un approccio AI-centrico. Lo fa con i capi della linea “Hybrid Design”, creati da algoritmi che identificano tendenze e stili mancanti dall’inventario e suggeriscono nuove idee, basate sulla combinazione dei colori preferiti dai consumatori, modelli e tessuti. La società ha sviluppato oltre trenta capi di abbigliamento utilizzando la metodologia e confermando come i pezzi disegnati dall’AI si comportino, in termini di vendite, in modo comparabile ai vestiti dei fornitori tradizionali. Questo perché probabilmente, grazie al suo modello di business basato sui feedback, Stitch Fix gode di una serie di big data che altri possono solo sognare. La particolare lungimiranza si deduce anche dal fatto che l’azienda impiega un team di oltre ottantacinque professionisti tra tecnici e data scientist, per supervisionare gli algoritmi di machine learning che vengono utilizzati per informare su tutto, dalla logistica alla gestione dell’inventario. Ed è fuori da ogni dubbio che più si fanno largo programmi di assistenza AI, più i marchi potranno prendere decisioni strategiche realmente intelligenti e “aumentate”.

Esistono piattaforme di progettazione come Clo che riescono persino a semplificare la modifica immediata dei progetti. Ciò vuol dire, per i marchi, cambiare in corso d’opera la catena di fornitura, tramite insights di AI, così da modificare il catalogo giusto poco prima che si avvii la produzione. Previsioni simili, a un livello più macro, potrebbero consentire di prevedere tendenze modaiole ampie, basate sui dati storici dei clienti. Le stesse previsioni sarebbero un ottimo modo per guidare la riprogettazione di un prodotto o di un’intera etichetta.

L’INTEGRAZIONE DELLA BLOCKCHAIN

Nel settore del fashion, così come in tanti altri, la blockchain ha un potenziale innovativo per rendere trasparente la catena di approvvigionamento. Fornendo a ogni bene prodotto commercialmente un ID digitale univoco o “token” su un registro distribuito decentralizzato, le aziende sono già in grado di creare tracciature digitali end to end per tutti gli articoli nei loro inventari. Man mano che materiali, indumenti o accessori si muovono attraverso la catena di approvvigionamento globale, il tracciamento della blockchain crea record accurati delle transazioni in base ai dati sulla posizione, al contenuto e alle etichette (che siano tag RFID, codici QR o NFC). La startup Provenance, per esempio, ha avviato un progetto con la designer londinese Martine Jarlgaard per seguire il viaggio delle materie prime attraverso la supply chain, dalla fornitura fino al capo finito, registrando e monitorando ogni passaggio. Dopo aver scansionato l’etichetta di un indumento, i consumatori possono visualizzare una mappa del percorso di ogni capo, attraverso l’intero processo di produzione e distribuzione.

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In maniera simile, VeChain ha lavorato con l’etichetta di moda cinese-newyorkese Babyghost per monitorare la catena, mentre H&M Group ha annunciato un programma pilota che usa un berretto di lana della linea ARKET per testare la capacità della tecnologia blockchain di migliorare la tracciabilità dei dati. Per ora, pare vi sia molto rumore e poca sostanza, tuttavia più il movimento verso una “slow fashion” etica e sostenibile cresce, più il potenziale della chain si svela come significativo.

QUALE FUTURO CI ASPETTA

La prossima era della moda riguarda la personalizzazione e la previsione. Con sempre più dati, gli algoritmi diventeranno cacciatori di tendenze, prevedendo (e progettando) le novità in modi impensabili fino ad ora. True Fit, per esempio, ha chiuso un finanziamento da 55 milioni di dollari nel 2018 grazie all’idea di usare i big data per facilitare le capacità di consigliare capi di abbigliamento e scarpe in maniera perfetta ai clienti. Con oltre 100 milioni di utenti registrati, la piattaforma utilizza i dati delle transazioni per determinare le preferenze e creare percorsi specifici, con una percentuale di feedback molto elevata. Un’altra società che sfrutta la cosiddetta “vestibilità intelligente” è Virtusize, che lascia le persone scattare foto dei propri vestiti nell’armadio per creare un catalogo virtuale con i prodotti maggiormente indicati e già adatti nelle taglie. Virtusize afferma che, rimuovendo alcune incertezze del pre-acquisto, proprio come i dubbi sulle taglie, è possibile aumentare gli ordini in media del 20% e ridurre i tassi di restituzione del 30%. Evidentemente, sempre più le preferenze dei consumatori guideranno ogni aspetto del processo di progettazione e produzione dei brand. Piattaforme come True Fit possono aiutare a identificare i tipi di materiali che gli acquirenti preferiscono, o persino individuare quando aumentare l’approvvigionamento in certe zone del mondo e per cluster predefiniti, così da ottimizzare la produzione. Questo rende le aziende, piccole o grandi che siano, più veloci e pronte ai cambiamenti.

Marchi come Zara, H&M, Top Shop e Forever 21 hanno costruito le loro attività su velocità e agilità. Una volta che questi rivenditori individuano una nuova tendenza, possono implementarla in maniera rapida, tramite una supply chain ugualmente agile. Ciò consente a simili società del mercato fashion di battere le etichette tradizionali, che rischiano di perdere la loro popolarità assunta nel tempo, proprio per la mancanza di rapidità nel rispondere alle mutevoli esigenze della clientela. Con una capacità quasi in tempo reale di portare gli stili più recenti sugli scaffali, l’IT permette di puntare più sulla qualità personalizzata che sulla quantità di una linea stock. Agevolare tirature più piccole e vendere collezioni per periodi di vita estremamente brevi non è uno scenario così remoto.

L’IPERATTIVITÀ DEI SOCIAL MEDIA

C’è da dire che l’ascesa della moda veloce sta eliminando la stagionalità semestrale che ha caratterizzato a lungo l’industria del fashion. Gli analisti sono arrivati a individuare oltre 50 “micro-stagioni” all’interno di un anno. Topshop, per esempio, introduce circa 400 stili a settimana sul suo sito web, per tenere il passo con le varie tendenze. Questo ha causato una diversa stagionalità anche per le aziende tradizionali, che oggi arrivano a emettere collezioni di 11 stagioni all’anno. Tuttavia, nella scia del rallentamento del commercio al dettaglio, ci sono anche giganti come Inditex, la società madre di Zara, che ha chiuso il 2019 con una crescita al di sopra delle aspettative degli analisti.

I social media sono la cassa di risonanza dei consumi: l’influencer marketing aiuta le nuove tendenze a viaggiare velocemente, creando una rapida domanda da parte dei consumatori di mode ultra-economiche e fuggenti. Gli acquirenti agiscono all’istante, grazie al boom dell’ADV su piattaforme come Instagram e Pinterest. Fashion Nova è un esempio di marchio di e-commerce di “fast fashion” che ha sfruttato con successo i social media per costruire la sua base di clienti. La società ha oltre 18 milioni di follower su Instagram, oltre a più di tremila influencer, noti come #NovaBabes, che promuovono i suoi vestiti. Altri, tra cui Boohoo, affermano che i suoi profitti sono raddoppiati dopo aver pagato celebrità per sponsorizzare i prodotti online presso fan tra i 16 e i 24 anni. Ovviamente, non mancano i lati oscuri di un modello “mordi e fuggi”, con lavoratori spesso sottopagati, aumento della consapevolezza sull’impatto ambientale e una supply chain ipertrofica che ha iniziato a mostrare segni di debolezza già prima dell’emergenza Covid-19.

RIPARTIRE DAL MADE IN ITALY

Il calo dei ricavi conferma la lunga frenata anche del fast fashion, con una tensione che continua a scaricarsi a terra lungo tutta la catena di approvvigionamento globale. Il mercato digitale – che pur con il rimbalzo registrato non potrà assorbire tutte le perdite – rappresenta al momento la exit strategy per tutto il comparto, che avrà conseguenze non solo sul modello di business ma anche nel modello di consumo nel lungo periodo con uno shift dall’economia del desiderio all’economia della necessità.

L’industria della moda, che nel 2019 valeva intorno ai 2,5 trilioni di dollari, per superare la crisi dovrà assorbire il contraccolpo e trasformarsi, adottando nuove strategie e nuovi strumenti per ripartire. Una partita dura da giocare, in cui il Sistema Moda Italiano, con il suo patrimonio unico di medie e piccole imprese artigiane, ha una carta vincente da giocare, quella della qualità, della creatività, della bellezza, che ha radici nella nostra storia. Valori che si rispecchiamo in prodotti in grado di durare nel tempo e di differenziarsi rispetto alla cultura del superfluo.