Un viaggio nel mondo delle smart connected manufacturing. Negli ultimi anni, si sono susseguite novità tecnologiche sempre più adatte a rendere l’azienda moderna. Inoltre, dal piano Industria 4.0, le imprese manifatturiere hanno rinnovato gran parte del loro parco macchine ma, in alcuni casi, non hanno modificato il loro approccio culturale
Mentre l’Istat certifica la flessione della produzione industriale 2019, tre sono i punti chiave che, secondo le imprese di ogni settore e dimensione, sono di un’urgenza straordinaria quando si parla di smart connected manufacturing. La rivoluzione industriale pienamente in atto. L’Italia, partita in ritardo, oggi deve accelerare. In secondo luogo, ha urgente bisogno di networking perché il digitale spinge in modo naturale alla collaborazione sia interna alla fabbrica sia esterna con il territorio di riferimento. Infine, il terzo punto è il cambiamento non solo tecnologico, ma culturale: si deve, cioè, infondere nella popolazione, specie nei giovani, il concetto che la fabbrica di oggi non è più la fabbrica del Novecento.
La chiave del successo è data dal livello di integrazione della tecnologia digitale con quella operativa. Sono questi due ambiti che devono convergere per dialogare, superando barriere e difficoltà. Data Manager, grazie al contributo degli analisti di IDC che tracceranno lo scenario di mercato, spiegherà come si stanno evolvendo le aziende, alla luce del fatto che i dati, in particolare, sono diventati sempre più preziosi e, a questi, si affiancano tecnologie nuove – come blockchain e machine learning – che rendono sempre più importanti l’analisi delle informazioni e l’affidabilità dei dati. Nell’ottica della fabbrica come ecosistema connesso, la smart factory è molto più di una fabbrica automatizzata, con significative implicazioni anche per la sicurezza a 360 gradi, che vanno dalla protezione dagli attacchi alla business continuity per passare alla salvaguardia dell’incolumità delle persone.
NUOVE CONNESSIONI
Uno degli asset su cui si è tradizionalmente appoggiato lo sviluppo industriale italiano, insieme alla grande azienda con una forte componente statale, è stato tra gli anni 70 e gli anni 90 il cosiddetto sistema dei “distretti industriali” a forte vocazione territoriale e con un’alta propensione all’esportazione. Attualmente, ISTAT riconosce circa 141 aggregazioni individuate da uno specifico perimetro in termini di attività industriale (codici ATECO attività primarie e secondarie) e in termini di espansione geografica (aree comunali di estensione dei distretti). Una ricerca di IDC ha sottolineato i limiti di questo modello di sviluppo, basato sulla specializzazione produttiva e sull’integrazione con le risorse locali per ovviare ai limiti di scala delle aziende partecipanti. Le cosiddette “Binding connections” (connessioni che uniscono) diventano “blinding connections” (connessioni che accecano, ossia non permettono di vedere oltre la dimensione locale).
Per restare competitivi, c’è stata nel corso degli anni una tendenza da parte della maggior parte delle aziende distrettuali a privilegiare il contenimento dei costi rispetto all’aumento della produttività tramite innovazione. Questa è una caratteristica molto frequente nel sistema delle PMI italiane – afferma Lorenzo Veronesi, research manager di IDC Manufacturing Insights EMEA. Inoltre, in molti distretti, non essendo perfettamente definito il confine tra comportamenti collaborativi e competitivi, in molti casi la «coopetizione» avviene al di là della volontà specifica delle aziende. Vi sono esempi di processi formalizzati di condivisione delle informazioni (es. sulla meccatronica a Bergamo), ma in molti casi il meccanismo di innovazione è affidato a fenomeni di spillovers accidentali e non pianificati.
LA DIGITALIZZAZIONE È GREEN?
Andrea Bianchi, direttore Politiche industriali di Confindustria, infatti, afferma che le macchine sono il cuore tecnologico del Paese, contribuiscono in modo determinante al saldo della bilancia commerciale e sono sempre state l’ambito di evoluzione e innovazione tecnologica che ha smosso le PMI. Oggi, ci sono trasformazioni e due driver nella manifattura: «La digitalizzazione delle applicazioni e la sostenibilità ambientale. Sono due elementi che stanno cambiando il modo con cui si produce». Bianchi – che sottolinea come Confindustria abbia da sempre lavorato a stretto contatto con il governo del Paese – sostiene che l’Italia deve perseguire un modello di Industria 4.0, seguendo le orme della Germania, che già nel 2011 aveva attuato un’idea di piano molto simile al piano varato cinque anni dopo dall’ex ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda. Per incentivare innovazione, produttività e competitività è necessario cambiare rotta come emerge dalle raccomandazioni del Consiglio europeo.
In questo scenario, il direttore delle politiche industriali di Confindustria pone l’attenzione sul concetto di Fabbrica 4.0. «L’impresa acquista una macchina 4.0 con l’agevolazione ma sa già che dovrà inserirla in un contesto produttivo che prevede non solo una riorganizzazione aziendale, ma anche una formazione precisa del personale e attenzione all’ambiente». Anche Stefano Firpo, responsabile Solution Imprese di Intesa Sanpaolo, è stato forte sostenitore del piano Industria 4.0, ai tempi in cui Calenda era ministro, ma lo è ancora oggi alla luce del Piano Transizione 4.0, la nuova politica industriale del Paese, che promette di essere più inclusiva e attenta alla sostenibilità. Sentito a un recente evento a cui ha partecipato, Firpo sottolinea l’importanza di un piano che prosegua e che aiuti l’Italia a superare – «il gap profondo sugli investimenti accumulato durante il periodo della crisi, specie se pensiamo al rapporto con la Francia e la Germania. C’è stata un’accelerazione dopo il 2015, si è ricominciato a parlare di politiche industriali, recuperando terreno, ma non si è ancora lavorato abbastanza sulla qualità degli investimenti. Abbiamo anche un problema di produttività nel nostro Paese. Il settore della meccanica strumentale è cresciuto, fino a ora, parallelamente a quanto è accaduto in Germania. Ed è grazie a settori come questo – continua Firpo – che, nonostante il debito pubblico italiano, si riesce a stare a galla». Quindi continuare a fare politica industriale è condizione necessaria per la crescita. Non a caso gli attori con la maggiore influenza sull’ecosistema locale risultano spesso, e un po’ paradossalmente, essere le medie-grandi aziende con una visione internazionale, che di fatto fungono da tramite per facilitare i processi innovativi a livello locale attraverso la loro value chain. Forse, sarebbe il caso di demistificare l’importanza del presunto spirito di collaborazione che caratterizzerebbe i distretti industriali, mentre andrebbe affermato lo spirito di innovazione e sperimentazione che anima le singole realtà territoriali.
LE FABBRICHE HANNO FAME DI DATI
Esistono in ogni caso dei promettenti presupposti all’implementazione delle tecnologie innovative, derivanti dalla necessità impellente di innovare di fronte alla mancanza di investimenti passati, al ricambio generazionale della forza lavoro, e al costante processo di acquisizione e investimento da parte di aziende estere. Questa innovazione si esplicita sui principi che Veronesi di IDC definisce “Smart Manufacturing” e che sono orientati verso fabbriche del futuro “affamate di dati”. In pratica, ciò significa che i dati saranno al centro e pervaderanno tutte le fasi chiave del processo di produzione. «Nell’input, le materie prime e i componenti vedranno incorporate le informazioni sulla loro genealogia e sui fornitori, nonché le istruzioni di assemblaggio. Il processo stesso sarà sempre più definito digitalmente e supportato da una continua interazione e trasferimento di informazioni tra lavoratori, macchine e applicazioni aziendali. Pertanto, ogni passaggio in un moderno impianto di produzione può essere potenzialmente digitalizzato e reso visibile in tempo reale. Nella fase di output – prosegue Veronesi – anche il prodotto finale è incentrato sui dati. Molte fabbriche saranno dedicate alla produzione di prodotti connessi e intelligenti, che forniranno feedback e riferiranno il loro stato all’impianto durante il funzionamento, per richiedere un pezzo di ricambio da produrre per un lavoro di manutenzione o per segnalare un problema di qualità che può essere potenzialmente indirizzato sul prodotto reale tramite una rilavorazione in fabbrica, o sulla linea di prodotti, tramite una messa a punto del processo». Tecnologie come IoT, cloud, mobilità pervasiva, strumenti AR e blockchain stanno tutte contribuendo o contribuiranno a questa visione. Ma soprattutto, è la prospettiva delle aziende che vedono l’impianto come un fattore tecnologico di innovazione che consente il successo aziendale. Per la prima volta nella storia, le aziende si stanno rendendo conto che i loro impianti sono in grado di generare molti più dati di quanti ne possano trarre beneficio dal processo attuale. Questa trasformazione basata sull’infusione di dati intelligenti su tutta la linea e sulla creazione di processi “ad alta intensità di informazioni” ha implicazioni di vasta portata nel modo in cui i processi di produzione vengono eseguiti dal punto di vista del modo in cui le persone lavorano nel processo di produzione.
LE COMPETENZE 4.0
Fabio Massimo Marchetti che in ANIE Automazione presiede il WG Software Industriale, fa un passo avanti, parlando di competenze, di persone e gestione dei dati, sempre più lavorati dove sono prodotti. «Oggi, possiamo dire che la tecnologia c’è così come gli attori qualificati. Il mondo è soggetto a una situazione di cambiamento significativo che porta le aziende a una discontinuità col passato. Che non è istantanea, ma si inserisce da un lato nel percorso di digitalizzazione dei prodotti e dall’altro nell’area del mondo virtuale a supporto di queste digitalizzazioni. Secondo noi, sono i macro temi che occorre utilizzare e sviluppare per progredire in un concetto di trasformazione industriale complessivo. All’interno di questi macro temi, esistono delle tecnologie come l’IoT che aiuta in modo significativo a recuperare i dati da dove sono generati. Si parla, infatti, di Edge come di un elemento che permette di gestire il dato, integrarlo e creare le condizioni per fare un’elaborazione là dove nasce il dato stesso in modo da essere reattivi, ottimizzare e rendere di qualità i dati che si andranno a gestire». Anche come Var Group – di cui è head of Digital Process Division – Marchetti punta sul fattore culturale come cardine della smart factory. «E questo vale in tutte le imprese di tutte le dimensioni. L’Industria 4.0 non è una tecnologia, ma un paradigma. Le tecnologie abilitano questo paradigma, che deve essere assimilato. L’Industria 4.0 non è disruptive. È un percorso che crea una competenza bilaterale. Le aziende si verticalizzano: ognuna ha trovato il modo, contestualizzandolo al proprio layout. Ma la rivoluzione si fa con le persone». I progressi della tecnologia di automazione avanzata stanno rendendo possibile il concetto di manifattura a “luci spente”, un concetto sempre più accettato. Allo stesso tempo, nelle economie moderne, non è possibile considerare le persone una semplice risorsa. La smart factory ha bisogno di una organizzazione altrettanto nuova.
LA FABBRICA DEL FUTURO
La visione IDC della fabbrica del futuro è incentrata sulla capacità dei decisori di fornire i livelli necessari di flessibilità e agilità ai processi attraverso la loro capacità decisionale. Questo sta creando una competizione tra i produttori per attirare i migliori talenti. Secondo Veronesi di IDC – la soluzione a questa apparente dicotomia è capire che entrambe queste tendenze sono giuste e che entrambe contribuiscono alla trasformazione incentrata sui dati, che è basata su tre principi. «Il primo principio riguarda l’efficienza e afferma che ogni fase del processo che è descrivibile, ripetibile e standardizzata verrà infine automatizzata. In altre parole, le macchine e l’automazione prenderanno il posto di questi processi transazionali e ripetibili, dove tutti i passaggi saranno altamente o completamente automatizzati con poche o nessuna persona coinvolta nelle operazioni di produzione. Ovviamente, in un processo di produzione ad alta velocità e bassa variabilità come l’high-tech, questo principio può essere per lo più pervasivo, mentre in altri settori più limitato. Il secondo principio – continua Veronesi – riguarda la gestione del processo stesso ed è incentrato sull’idea di utilizzare in modo estensivo la tecnologia dell’informazione per la programmazione della produzione, i sistemi di esecuzione della produzione, la gestione della qualità, la gestione delle risorse aziendali, e così via. Questo principio è particolarmente rilevante nei processi ad alta complessità, a elevata variabilità o ad alta velocità come nel settore automobilistico, dei prodotti chimici e dei beni di consumo.
Il terzo principio riguarda le persone, che saranno al centro della fabbrica del futuro in quanto forniscono il grado di flessibilità e le capacità decisionali necessarie per far fronte alla crescente complessità operativa. In altre parole, le persone saranno rese libere da compiti ripetitivi e saranno abilitate dai sistemi informativi a concentrarsi su attività a valore aggiunto come l’ottimizzazione della produzione e la reinvenzione dei modelli di business. Questo principio si applica fortemente alle produzioni a bassi volumi e alta intensità di lavoro, come per esempio l’aerospaziale, le macchine industriali e i prodotti fortemente ingegnerizzati». A fronte di questo ultimo principio, Bianchi di Confindustria pone l’accento proprio sulla rivoluzione culturale. «Che cosa è la fabbrica? Se lo chiedessimo a un giovane, la risposta sarebbe scontata: un luogo rumoroso, sporco, dove c’è inquinamento e ripetitivo. Sarebbe già un bel passo avanti riuscire a inculcare nella testa delle persone, specie i giovani, la definizione di fabbrica come luogo del futuro». L’Italia è un paese industrializzato ma vede contrapporsi ancora troppe spinte anti-industriali che, di fatto, mettono un ostacolo all’obiettivo di rendere attrattivo il concetto di fabbrica del futuro. Abbiamo bisogno di continuità e di politiche che ne garantiscano lo sviluppo».
FROM DATA TO VALUE
Se il fattore culturale è la costante che caratterizza la velocità di assimilazione della rivoluzione tecnologica, i dati sono il nuovo fattore produttivo come mette in evidenza Cristina Cristalli, innovation director di Loccioni Group. Fondata più di cinquant’anni fa dall’intuizione di un visionario Enrico Loccioni, allora artigiano elettricista, oggi l’azienda marchigiana conta 150 dipendenti e un forte focus sulla system integration. «Lavoriamo su commessa e risolviamo le sfide di grandi gruppi internazionali» – racconta Cristina Cristalli. Per ottenere questi risultati, coltiviamo le competenze del territorio per farle crescere. Nel 2018, avevamo circa 80 ragazzi per il progetto di convergenza digitale, che l’azienda ha accompagnato anche dopo questo percorso, per esempio nei tirocini e nei dottorati, attraverso la condivisione con le imprese, la Regione e le università». La lezione è semplice. Per trasformare le fabbriche occorre pensare anche alle competenze delle persone, partendo da principio. Ed ecco spiegato, il sostegno alle maestre delle scuole elementari che seguono corsi di coding per sviluppare le app necessarie affinché i giovani – alunni e alunne – riescano a fare esperienza dei nuovi linguaggi attraverso il gioco.
INNOVAZIONE E FORMAZIONE
Sostenibilità ambientale, innovazione, educazione e formazione. I temi STEM sono sempre più di attualità. Specie se si tratta di pensare percorsi di crescita delle competenze scientifiche e tecniche che garantiscano parità di scelta senza distinzione fin dai primi gradi dell’educazione scolastica. Secondo i dati del MIUR, le donne rappresentano oltre la metà degli iscritti ai corsi di laurea (55,5%), del totale dei laureati (57,6%), degli iscritti a corsi di dottorato (50%) e del totale dei dottori di ricerca (51,8%). La presenza femminile diminuisce drasticamente con il salire nella scala gerarchica, fino al 23% medio tra i professori ordinari e a un misero 6% in area STEM. Così come si riduce il numero di iscrizioni femminili in funzione dell’ambito di studio: infatti a fronte del 55,5% medio, nell’area lettere e arti le studentesse sono la stragrande maggioranza con un 77,6% che scende al 48,1% in scienze agrarie e veterinarie, fino a scemare al 27,4% nelle discipline STEM.
I centri di competenza possono fare la differenza. Durante l’evento Connected Manufacturing Summit di Milano, abbiamo incontrato Lorna Vatta, executive director di Artes 4.0, il centro di competenza di Pisa che federa università, enti di ricerca e istituti di alta formazione con l’obiettivo di creare un dialogo tra innovazione e imprese. «Abbiamo lavorato un anno per avviare i primi bandi per progetti dedicati alle PMI» – spiega Lorna Vatta. «I centri di competenza lavorano su progetti di innovazione con un contenuto nuovo che devono attuare le imprese. Le università portano un contributo intellettuale e il centro di competenza facilita la commistione tra università e aziende. Vi sono progetti cofinanziati dove vorremmo che anche le università si impegnassero. Ci sono ancora poche ragazze negli istituti superiori e nelle università che si sono appassionate alla tecnologia. Se non parliamo in tempo con le famiglie e con le ragazze prima che intraprendano un percorso scolastico, si rischia che gran parte di questa popolazione lasci perdere e intraprenda un percorso che le allontanerà da quelle che sono le professioni che già oggi e nel futuro serviranno alle imprese». Sempre più, le aziende parlano di formazione e competenze. Mario Merlo, manufacturing and program management optimization, senior VP quality di Leonardo pone l’accento sull’integrazione dei processi e il ruolo determinante della formazione a tutti i livelli. «Coinvolgiamo le persone che possono dare maggiore contributo, creando una roadmap su processi e competenze per dare una spinta alla trasformazione digitale e al tempo stesso per agire sul piano del trasferimento delle competenze su tutti i team di lavoro, sviluppando processi automatizzati». Coinvolgere il personale è la chiave di volta della trasformazione della fabbrica. «Se le persone non accettano il cambiamento in atto si rischia di fallire» – afferma Enzo Bonato, CEO di Tecnoacciai. Gli investimenti del Piano Industria 4.0 si sono tradotti in un aumento di occupazione, nuovi macchinari e crescita delle competenze. Le aziende sane e lungimiranti che hanno fatto un percorso Industria 4.0 hanno registrato un importante vantaggio competitivo». Il sostegno finanziario da parte degli istituti di credito è un tema molto sensibile per il tessuto imprenditoriale quando si parla di investimenti.
L’INCASTRO DELLE COMPETENZE
L’integrazione della robotica come intelligenza artificiale “embodied” trasforma i processi produttivi e cambia il modello tradizionale di global business services. La Robotics Process Automation trasforma i processi di lavoro esistenti secondo principi di efficienza. L’attuale rivoluzione enfatizza la trasformazione delle fabbriche in strutture intelligenti. Ma le fabbriche italiane sono pronte per questa rivoluzione che prevede non solo alti livelli di automazione ma anche di interazione diretta tra uomini e robot. Iperautomatizzare un processo richiede un costo molto alto in termini di risorse e di gestione. Pensare di azzerare la componente umana richiede investimenti elevati e processi totalmente da ridisegnare. Come cambia la mappatura delle competenze? E quali figure professionali saranno in grado di interfacciarsi con i robot?
Gianfranco Messina, digital transformation officer di Hitachi Rail che fa parte della grande famiglia Hitachi, spiega che le imprese hanno difficoltà a selezionare figure professionali di questo tipo. Quale può essere la ricetta allora? «Fare networking e non isolarsi. In un progetto di trasformazione digitale, il network è importante, così come la collaborazione con le università e i centri di ricerca». I centri di formazione italiani hanno compreso il gap esistente e le università si stanno muovendo per rendere i giovani pronti al mondo del lavoro, ma c’è un fattore temporale che penalizza qualsiasi buona azione. Prendiamo il caso dei data scientist. «Se un’azienda oggi ha bisogno di assumerne uno, non può farlo in Italia perché dovrà aspettare minimo cinque anni» – afferma Messina. Che fare dunque? «Se li va a prendere all’estero»! Bisogna fare network con le università perché i modelli tradizionali di formazione sono stati stravolti dal modello digitale». Ma non solo. Una risorsa importante è la creatività per stimolare l’apprendimento e l’assimilazione delle nuove competenze. «Nel contesto della fabbrica del futuro – conclude Merlo di Leonardo – «la creatività sarà uno dei fattori principali e strategici di selezione delle persone».