È stata fin da subito la crisi sanitaria più high-tech della storia. Sicuramente dal punto di vista della comunicazione, anche se i risultati forse non sono stati particolarmente brillanti. Anzi, l’immediata socializzazione del coronavirus, diventata addirittura frenetica dopo il focolaio infettivo esploso nell’Italia del Nord-Est, non ha dato un contributo sempre positivo, in termini di razionalità e invito alla calma.
Del resto, il problema numero uno dei social è ormai del tutto evidente: la difficoltà nel far fronte all’imponente flusso di fake news e di sfiducia generalizzata nei confronti delle uniche armi di cui disponiamo davanti a una emergenza sanitaria così imponente: la scienza, una politica responsabile e, appunto, un minimo di razionalità.
Pazienza, a questo livello si può sempre rimediare, confidando che le stesse autorità prendano in mano la gestione dei flussi informativi ufficiali, centralizzandola e riordinandola. Bisognerebbe evitare, per esempio, che il cittadino debba saltabeccare da un sito Web all’altro invece di avere a disposizione, riunite attraverso un unico sportello virtuale facile da identificare, tutte le informazioni emesse dagli organi competenti riguardanti le linee di comportamento da seguire, le limitazioni da rispettare, i numeri e gli indirizzi, fisici e virtuali, da contattare. È un problema serio, perché mettere a punto strumenti davvero efficaci per la disseminazione di notizie ufficiali non sembra essere una mission impossibile, anche nel paese dei portali turistici “very belli”. Sapendo tra l’altro che una volta stabilite le regole e avviati i meccanismi giusti, questi ci serviranno per affrontare le crisi che sicuramente ci colpiranno in futuro.
Al di là dell’aspetto comunicativo, l’epidemia di coronavirus ha però messo in evidenza la funzione che informatica e tecnologia possono avere nel limitare almeno in parte l’impatto che una malattia contagiosa e cattiva – forse più letale di una normale influenza, in particolare sulla parte più fragile della popolazione – sta avendo sul normale fluire delle nostre attività lavorative, produttive, educative. Quando le misure di contenimento di un virus prevedono la chiusura delle scuole, lo svuotarsi di uffici e aziende, i discorsi che le testate specializzate hanno elaborato in questi anni di assidua cronaca delle iniziative di smart working, assumono un carattere molto concreto, quasi “politico”.
Non si tratta soltanto di pensare allo smart working come telelavoro. Ma di immaginare un nuovo modo di concepire le attività lavorative di carattere più intellettuale (anche la robotica di nuova generazione consente di accedere a livelli di controllo molto più ampi) all’interno di uffici e gruppi virtuali che le piattaforme collaborative permettono di realizzare con investimenti tutto sommato “leggeri”. Quando la fase acuta dell’emergenza sarà finita, sarà opportuno rimettere mano alle normative sulla “business continuity”, per cercare di sistematizzare il lavoro smart, attraverso opportune estensioni delle regole che oggi riguardano soprattutto il funzionamento dei servizi finanziari, o di certi tipi di infrastruttura. Perché per esempio non parlare seriamente di smart working su larga scala nelle aule scolastiche?
Dobbiamo cominciare a pensare all’informatica, non come un semplice “nice to have” nelle situazioni più piacevoli della nostra esistenza, quando vogliamo comprare un biglietto e prenotare la camera per la nostra vacanza, ma in un’ottica per così dire salvavita, a fondamento e protezione di una modernità sempre più articolata e complessa. Che senza la tecnologia corre rischi potenzialmente mortali.