La rapida espansione del Covid-19 ci ha portato in una profonda recessione: le previsioni di riduzione del PIL globale sono andate via via peggiorando con l’introduzione di sempre più rigide misure di lockdown nelle nazioni più industrializzate.
IDC ha rivisto al ribasso anche le previsioni worldwide sugli investimenti in hardware, e in maniera meno pesante la spesa in software e servizi, con un rallentamento significativo nel primo semestre, e prospettive incerte per la seconda metà dell’anno: la spesa nell’IT sarà in calo in tutti i settori, eccetto Sanità e Government, costrette a investire in contingenza. Sta crescendo la spesa in video conferencing, intelligent supply, chatbot ed e-learning: già, perché questa crisi, che sta colpendo la salute dei cittadini, la vita delle imprese e il lavoro dei singoli, sta accelerando in misura drammatica – talvolta anche un po’ scomposta – la transizione verso le nuove organizzazioni e il digitale.
In queste settimane, lo smart working è passato da una modalità di lavoro di pochi a essere quasi un fenomeno di massa, se pur legato alla situazione contingente (in Italia, erano 570mila lo scorso anno, secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano).
Un esperimento necessariamente improvvisato, che ha trovato impreparate, e spesso riluttanti, numerose aziende, soprattutto le PMI, e che è stato avviato in molte zone, anche nelle regioni del Nord, non ancora raggiunte dalla banda larga ultraveloce. Tornati alla normalità, molti replicheranno le proprie organizzazioni in modo identico a “prima”, qualcuno invece metterà a frutto questa esperienza: le misure prese in emergenza poi diventano permanenti, perché in queste occasioni vengono accelerati processi che in periodi normali richiederebbero anni. Un punto fermo, nel “dopo” c’è: la tecnologia basata su big data e intelligenza artificiale ha supportato egregiamente Sanità e gestione dell’emergenza: tra gli esempi, i modelli integrati con i sistemi di geolocalizzazione per monitorare la diffusione del Covid-19 nello spazio e nel tempo; l’elaborazione dei dati per prevedere le curve del contagio, per valutare come utilizzare al meglio risorse come le diagnostiche, i posti letto in ospedale; il tracciamento degli spostamenti dei cittadini elaborando i dati degli smartphone; la telemedicina per monitorare da casa i pazienti non gravi, liberando posti letto per accogliere nuovi contagiati; i termoscanner per misurare la febbre delle persone in metropolitana e nei centri abitati.
Mentre in Cina si è già entrati nella post emergenza, proprio in questi giorni, in cui ci domandiamo quando il distanziamento sociale finirà, si deve studiare e organizzare la migliore exit strategy, mettendo le basi di una vera ripartenza del nostro Paese. Per il mondo occidentale, l’OCSE ha proposto risposte per il “dopo” con l’ambizione del Piano Marshall e la visione simile a quella del New Deal. Nel dopoguerra, l’Italia si è trasformata anche grazie alla costruzione di autostrade di asfalto, per recuperare lo svantaggio tecnologico che abbiamo nei confronti degli altri paesi europei oggi occorre sviluppare le autostrade digitali e incrementare gli investimenti in intelligenza artificiale, robotica, nuove tecnologie.
Secondo la Commissione europea, il Digital Economy and Society Index (DESI) – che considera connettività, competenze digitali, utilizzo di Internet, aziende e-commerce e servizi pubblici digitali – posiziona l’Italia al ventiquattresimo posto su 28 nazioni, ben al di sotto anche della media UE. Ed è ancora marcato, nonostante il successo di Impresa 4.0, il ritardo nell’automazione della produzione rispetto a nazioni come la Germania, con la stessa nostra vocazione per il manifatturiero. Qui, sicuramente, gli investimenti pubblici e privati dovranno avere la priorità.