Stefano Brandinali: «Ho cercato da subito di valorizzare i talenti esistenti»
Entra in Prysmian Group come CIO a fine 2015, tornando in Italia dopo un periodo passato all’estero, prima in Lussemburgo e poi in Inghilterra. Decide di accettare la sfida che gli viene proposta: trovare qualcosa che ancora manchi al ramo IT di uno dei colossi italiani, con sede a Milano, specializzato nella produzione di cavi per applicazioni nel settore dell’energia e delle telecomunicazioni e di fibre ottiche. Stiamo parlando di Stefano Brandinali, CIO e, dal 2018, anche chief digital officer.
Il manager mette subito le mani avanti spiegando che «ha cercato da subito di valorizzare i talenti esistenti». Le persone del team IT sono rimaste al loro posto. «Ma dopo otto mesi – racconta – il 70% del team aveva cambiato job in modo drastico, da pure delivery a business partner». Due gli ingredienti, nemmeno troppo segreti: l’intuito e l’ascolto delle persone.
IL CIO DIRETTORE D’ORCHESTRA
Brandinali spiega di essere entrato nel ramo IT di Prysmian con una nuova strategia in testa: la “1BCD” dove 1 (One) sta per Globalization, C per Cloud first, B per Business proximity e D per Digital transformation, di cui Brandinali ha iniziato a parlare nel 2016. Nel 2017, il CIO dà il via all’Innovation Lab per progetti pilota sulle tecnologie digitali. Nel 2018, nasce la funzione digital innovation e, contestualmente, la figura del CDO che viene appunto assegnata a Brandinali. «Io ricopro entrambi i ruoli ma i due team restano distinti» – precisa. «Come se fosse un bimodale estremo: il gruppo IT tradizionale, che fa capo a una squadra consolidata nella quale ho inserito chirurgicamente alcune risorse nuove e il team digital, con una squadra tutta da costruire con personale che sto scegliendo dal mercato, come per esempio i data scientist, non facili da trovare». E per questo, Brandinali adotta una soluzione pragmatica, utilizzando risorse che individua, per competenza, in ogni area possibile. Dall’università ha ingaggiato alcuni ricercatori del dipartimento di matematica: «Sì è vero, di business ne sanno poco, ma ci siamo noi di Prysmian a bilanciare». Insomma, un CIO orchestratore, questo ci vuole suggerire Brandinali. Un CIO capace di padroneggiare linguaggi diversi, mettendo insieme i pezzi e facendoli suonare in armonia. Un CIO in grado di creare e sviluppare relazioni tra università, centri di ricerca e aziende, facendosi interprete del “salto” che un’azienda tradizionale deve fare per evolversi. «Oggi, sto lavorando sulla nuova strategia ICT – racconta Brandinali – centrata sul tema della data economy. È qui che sta la convergenza tra CIO e CDO, con i dati sempre più centrali rispetto ai processi».
IL LAVORO DIVENTA SMART
Tra il 2015 e il 2017, Prysmian decide di creare il suo nuovo quartier generale milanese con due obiettivi – come ci spiega Brandinali – consolidare in un unico spazio gli uffici distribuiti precedentemente in tre building distinti e costruire la propria casa “di proprietà”. Contestualmente parte anche Prysmart, il programma di smart working che ha saputo cogliere l’idea di rendere più agile il lavoro e trasformarlo in una vera e propria leva del cambiamento, cogliendo le opportunità offerte dalle tecnologie digitali. «Insieme a un team di manager “illuminati” – racconta Brandinali – ci siamo domandati, in primo luogo, se fosse possibile cambiare il modo di lavorare dei nostri “colletti bianchi”. Le facility dell’edificio sono state costruite in base alle esigenze e ai bisogni degli impiegati, dove l’employee experience è stata analizzata lungo l’intero arco della giornata, da quando il dipendente si sveglia la mattina fino a quando va a dormire. Siamo partiti dal presupposto che il dipendente è un membro dell’azienda anche quando esce di casa per recarsi in ufficio, abbiamo fatto una survey per capire dove risiedessero i circa 700 dipendenti dell’headquarter e abbiamo deciso di favorire il trasporto sostenibile tra casa e lavoro, dotando i dipendenti di un abbonamento annuale ai mezzi pubblici (o, in alternativa, offrendo un parcheggio nelle vicinanze). Inoltre, sono state ridotte drasticamente le timbrature, a favore del controllo degli accessi in entrata e in uscita al fine di garantire la sicurezza».
IL BUILDING COME SERVICE HUB
Lo studio degli spazi interni ha privilegiato le sale riunioni rispetto agli uffici individuali. Nella realizzazione, si è lavorato su una logica di open space dove ogni dipendente è a suo agio in uno spazio individuale che Brandinali ha paragonato alla biblioteca di una università. «Così come per preparare gli esami ci si recava in biblioteca, concentrandosi sul proprio libro (ndr. sulla propria attività individuale), così qui ogni dipendente ha la propria scrivania in uno spazio comune. Nei vari reparti non si sente rumore, persino nel reparto IT, notoriamente quello più rumoroso» – commenta Brandinali. Nel nuovo edificio Prysmian, ci sono 93 sale riunioni che, complessivamente, possono contenere circa 700 posti a sedere. Sono tutte uguali in termini di equipaggiamento, in alcune che sono definite sale riunioni-progetto sono stati sistemati tavoli più alti per favorire gli “stand-up meeting”. «Abbiamo armonizzato le sale riunioni anche dal punto di vista tecnologico. Sono state eliminate le videoconferenze a favore di Skype for Business e ogni dipendente può spostarsi fisicamente nelle sale riunioni con il proprio ufficio virtuale, ossia il notebook. Abbiamo standardizzato gli accessi Wi-Fi su scala mondiale per poter permettere ai dipendenti di qualsiasi Stato o Nazione di poter comunicare senza bisogno di richiedere accessi locali differenti. Infine abbiamo promosso un approccio paperless, archiviando la documentazione storica necessaria in digitale ed eliminando la generazione del superfluo, come la stampa locale nei reparti e persino i cestini alle scrivanie».
INTELLIGENZA A BORDO LINEA
Se per i cosiddetti colletti bianchi, il processo di smart working ha seguito una direzione “più digital” – Brandinali spiega che per i blue collar c’è ancora qualche passo da fare. L’errore da evitare è quello di mutuare ciò che è stato fatto per gli impiegati anche per gli operai. «Un operaio non ha bisogno di vedere su un mobile phone il proprio piano di produzione perché il risultato sarebbe quello di complicargli la vita. Meglio non forzare un processo di digitalizzazione che è stato pensato per un’altra tipologia di lavoro. Invece occorre pensare a sviluppare una nuova interfaccia uomo-macchina. Attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale, immagino la possibilità che l’operaio possa parlare con la macchina con il proprio linguaggio naturale. Non possiamo pretendere di mettere in mano a un operaio un tablet e pensare di averlo aiutato nel suo lavoro, perché non avrebbe le mani libere per compiere il suo lavoro quotidiano». Un’altra possibile evoluzione dello smart working potrebbe essere ricercata nei cooperative robot e nella loro capacità di intercettare i segnali di fatica o emozionali degli operai. «Per noi – spiega Brandinali – la sicurezza dell’operaio è prioritaria, oltre al fatto che un operaio stanco lavora con minore efficienza. Anche in questo caso, l’intelligenza artificiale potrebbe venirci in aiuto». Infine, un esempio che Brandinali definisce solo una idea remota: la noise reduction. «Partiamo dal principio che le macchine sono rumorose e le azioni di hearing protection attualmente previste in azienda sono invasive e in parte penalizzanti per l’individuo» – ammette Brandinali. «Il rumore ambientale rappresenta un disagio. Le cuffie, i tappi sono una soluzione scomoda e poco efficace. L’idea potrebbe essere quella di trovare un sistema in grado di abbattere il rumore a livello ambientale. È ancora presto, ma potrebbe essere il prossimo passo da realizzare con il nostro Digital Innovation Lab».