Innovation & The Rat Race. Traiettorie non convergenti

Intelligenza artificiale programmatically crazy

Esistono imprese che fanno innovazione con audace dinamismo e imprese che si attardano in riflessioni strategiche con una certa cautela, ma l’intelligenza artificiale potrebbe sparigliare le carte

Di recente, abbiamo condotto qualche ragionamento sulla nozione di Intelligent Enterprise, definendo quattro cluster di comportamenti per rappresentare la complessità del segmento grandi imprese in Italia rispetto alla gestione del dato e all’automazione industriale, da cui emerge un rapporto sotto diversi aspetti ambivalente rispetto alla trasformazione digitale e all’Industry 4.0. Sentiamo parlare sempre più spesso di digitalizzazione e IoT come se fossero traiettorie convergenti, però forse non è necessariamente così, soprattutto se cerchiamo di distinguere le parole e i buoni propositi dei manager dalle azioni concrete e dai programmi di investimento delle imprese.

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Ai due estremi opposti del mercato, osserviamo il comportamento delle imprese che stanno “ragionando” sulle strategie di trasformazione digitale e le imprese che si interessano all’internet industriale se, “e solo se”, consente di migliorare l’automazione delle operazioni aziendali. Stiamo parlando di un raggruppamento di circa duemila grandi imprese italiane che hanno opinioni piuttosto distinte rispetto ai modi e alle forme dell’innovazione digitale: da una parte il primo gruppo, abbastanza numeroso, è sostanzialmente focalizzato nel ridisegno del proprio modello di business, non considera il dato come vantaggio competitivo in sé e per sé e non si attribuisce nessuna priorità IT in merito all’automazione e all’ottimizzazione dei sistemi; viceversa, il secondo gruppo, più circoscritto, attribuisce grande importanza al valore del dato come strumento di automazione e ottimizzazione dei processi (e non sono minimamente intenzionati a cambiare il proprio modello di business, perché va bene così).

MALINTESI RICORRENTI

Quale ruolo giocano l’intelligenza artificiale e il machine learning in questi cluster di imprese? Agiscono da catalizzatori dei processi di adozione oppure introducono ulteriore complessità in una costellazione di tante variabili decisionali? Innanzitutto, evidenziamo qualche numero. La penetrazione dell’intelligenza artificiale nel mercato italiano riguarda una percentuale ancora limitata di imprese, meno del 7%, con variazioni sostanziali se leggiamo il dato per classe dimensionale, settore industriale e area geografica. Le grandi imprese guidano l’introduzione di piattaforme e soluzioni sempre più intelligenti (circa il 32% del segmento dimensionale), soprattutto nelle regioni del Centro-Nord Est (fino al 15% del segmento territoriale).

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Continuano a persistere alcuni malintesi ricorrenti in merito alle possibilità e ai rischi dell’intelligenza artificiale, che possono influenzare, in modo diretto e indiretto, le scelte di manager e imprenditori in Italia. Molto spesso gli algoritmi vengono presentati come la panacea a qualsiasi male, come se potessero risolvere qualsiasi problema con la massima flessibilità. Conviene rammentare alcuni punti fondamentali:  1) non esiste una intelligenza artificiale generalista, ma algoritmi specializzati per risolvere problemi molto particolari; 2) non è sempre possibile tradurre analiticamente qualsiasi problema, si veda per esempio la rassegna dei problemi non-decidibili proposta da Bjorn Poonen; 3) molto spesso i problemi decisionali non possono essere formalizzati se non in misura elementare; 4) oltre al fatto che viviamo in un mondo dominato da una grande variabilità dei fenomeni, qualunque soluzione proposta da un algoritmo è valida sempre e soltanto entro il suo margine di errore, dunque alcuni problemi non potranno mai essere delegati alle macchine, se non con l’intento malizioso di mitigare le proprie responsabilità, cercando un semplice capro espiatorio.

Talvolta, gli algoritmi sono presentati come black box incomprensibili, anche quando non è assolutamente il caso. Negli ultimi anni, è andato diffondendosi un dibattito in merito alla trasparenza dei parametri che stanno alla base degli algoritmi e al rischio di addestrare le macchine su insiemi di dati che vanno ulteriormente a rafforzare pregiudizi e discriminazioni nella società. In realtà, si tratta di un dibattito nato “vecchio”: dal punto di vista tecnico, gli algoritmi di machine learning non sono più scatole nere ormai da tanti anni (almeno da quando i data scientist hanno cominciato a impiegare lo Shapley Value nei processi di analisi). Dal punto di vista etico, il problema sta soltanto nei dati che sono prodotti dalla società, che è un organismo con peculiari distorsioni cognitive e produce dati distorti già alla fonte, come ben hanno compreso i sociologi dai tempi di Durkheim.

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Il terzo malinteso ricorrente è più che altro una paranoia luddistica, quello per cui gli algoritmi dovrebbero prendere il sopravvento nel mercato del lavoro. Ritorniamo ai principi basilari dell’economia: affinché esista un mercato, occorrono venditori e compratori, e la volontà di scambiare beni accrescendo il valore tra le parti. In una interazione ancora così “troppo” umana, è facile comprendere che non esiste un ruolo attivo per le macchine. Le macchine possono soltanto rappresentare il contenuto o lo strumento di supporto dello scambio, ma non saranno mai l’attore di uno scambio. Piuttosto, occorre chiedersi come potrebbe cambiare la gestione dei mercati, del lavoro come di qualsiasi altro fattore produttivo, per effetto di un processo di automazione sempre più flessibile e capillare. Gli algoritmi faranno né più né meno di quello che fa qualsiasi altra innovazione tecnologica: trasformeranno il mercato del lavoro, distruggendo lavori obsoleti e creando lavori nuovi. Comunque, a oltre settant’anni dalla morte di Ford, è ancora possibile trovare qualche maniscalco (addirittura online), quindi l’innovazione tecnologica non è sempre così letale.

L’AI COME CATALIZZATORE

Quando parliamo di artificial intelligence rischiamo sempre di farci trascinare dall’immaginazione sia nel bene che nel male, trascurando che la realtà quotidiana è fatta spesso di faticose sperimentazioni empiriche e un lungo interminabile processo di raccolta, selezione e raffinazione delle informazioni (un po’ come si fa con il petrolio, come ha osservato Clive Humby). Su quali dati lavorano i data scientists? Per fare cosa? Se guardiamo a una fonte autorevole come Kaggle (la survey 2018 ha coinvolto quasi 24mila data scientists a livello globale), possiamo farci una idea generale di cosa forse sta succedendo, anche in Italia. La maggior parte dei data scientists lavora in prevalenza su obiettivi aziendali (circa il 40%) e soltanto una piccola parte fa attività di ricerca (circa il 20%), quindi possiamo affermare senza alcuna esagerazione che il ruolo del data scientist sta diventando a tutti gli effetti un ruolo strutturalmente aziendale, e sempre meno accademico. In oltre il 50% dei casi, il data scientist lavora prevalentemente alla creazione di nuovi prototipi di prodotti e servizi, e quindi diventa una figura integralmente affine al New Product/Service Development, mentre nel 20% dei casi gestisce e mantiene infrastrutture dati, ricoprendo una funzione molto simile, almeno all’apparenza, ad altre figure più tradizionalmente IT.

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Torniamo al nostro interrogativo di partenza. In questo scenario fatto di incertezze, malintesi e speranze, quale ruolo può giocare l’intelligenza artificiale rispetto a tematiche mainstream come la trasformazione digitale o l’IoT? Catalizzatore oppure ulteriore impedimento? Portiamo alcune evidenze dalle nostre indagini degli ultimi mesi. Le grandi imprese che si considerano in una fase avanzata di trasformazione digitale hanno una probabilità fino a 10 volte superiore (rispetto alla media) di investire nei big data e nel machine learning nei prossimi 12 mesi. Invece, quando si tratta dell’Impresa 4.0, le grandi imprese che investono nell’industrial cloud e nei MES analitici di nuova generazione hanno una probabilità di investire fino a 15 volte superiore. A giudicare da queste stime, il machine learning è il collante essenziale per catalizzare sia la trasformazione digitale che l’Internet delle Cose, accelerando in modo vertiginoso la competizione tecnologica fra le imprese.

Giancarlo Vercellino associate research director di IDC Italia