Trasformazione digitale e ibridazione delle competenze. l CIO hanno tutte le carte in regola per diventare un driver per il business. Ma che cosa serve per cavalcare il cambiamento senza subirlo? Ecco la fotografia che emerge dall’edizione 2019 di Finaki
Giunta all’edizione numero 19, curiosamente proprio nel 2019, Finaki evolve e fa evolvere i temi che ogni anno tocca, sempre con uno sguardo d’eccezione al ruolo del CIO. Mai come quest’anno, l’appuntamento è un po’ il crocevia di una trasformazione peculiare del chief information officer. «Finaki si è sempre caratterizzato come evento neutro, ossia dove domanda e offerta possono incontrarsi in maniera libera e spontanea» – afferma Luciano Guglielmi, presidente del Comitato di Programma ICT 2019 Finaki e CIO del Gruppo Mondadori nel suo intervento di benvenuto. «Abbiamo sempre cercato di mantenere un equilibrio costante tra vendor e CIO. Una chiave di successo è coinvolgere figure nuove, che sappiano ampliare la prospettiva del discorso. Accogliamo grandi imprese ma anche PMI e, più che mai, il settore pubblico, indice di quanto l’IT e la presenza del CIO siano oramai ambiti orizzontali e imprescindibili.
Ma sappiamo anche andare nel concreto, con l’introduzione delle tavole rotonde, dei workshop, dell’interazione con i presenti, un’indicazione di una maggiore multicanalità. Gli speech sono sempre di alto livello. Se è in atto un’ibridazione delle professioni, questa coinvolge in modo particolare il ruolo del CIO che deve dimostrare capacità manageriali nel creare innovazione in azienda, nei processi di business, nell’organizzazione, nei prodotti e nei servizi. La prossima edizione sarà la ventesima, un traguardo che è anche un premio alla caparbietà di chi sta dietro a Finaki».
IBRIDAZIONE DELLE COMPETENZE
Si entra subito nel vivo con Massimo Spada, business development director di Finaki Italia, attento a spiegare come il CIO odierno sia una figura molto complessa che ha a che fare ogni giorno con il cambiamento. Nella sua …indole, deve esservi una naturale propensione a mettersi in discussione, tornando anche alle sue origini. «Un lavoro da garage» – prosegue Luciano Guglielmi, che ha anche il ruolo di presidente del Comitato di Programma. «Il CIO coniuga capacità tecniche a manageriali legando i diversi ambiti di business. Il suo è un percorso continuo, anche ridiscusso. Molto più simile a un chief technology innovation officer – o chief digital officer – come lo chiama qualcuno. La forza è nell’adattarsi a scopi mutevoli, come mutevole e liquida è la tecnologia che gestisce. Per definizione curioso, ciò che lo fa migliorare è l’autocritica, essenziale».
Ed è quanto conferma Silvio Fraternali, CEO di Banca 5: «Il CIO è un mix di hard e soft skill e – se può sembrare che lo sforzo principale sia quello di consolidare le prime – in realtà è sulle seconde che si gioca gran parte della sfida. Pensiamo alle qualità emozionali, all’essere focalizzato sull’obiettivo. Le dinamiche sono più orizzontali di quanto si creda ed è per questo che il CIO non sarà più quello di prima, perché l’IT sta cambiando i paradigmi e il peso di certe figure». Questa sorta di ibridazione delle competenze è al centro dell’intervento di Beppe Carrella e Fabio Degli Esposti, che ricordano come il CIO debba sempre svolgere il suo lavoro nel mezzo di un contesto in cui viaggiano, spesso confondendosi, fuzzy logic e complessità. «Ed è per questo che si passa dal concetto di CIO a quello di IOC, ovvero innovator over computer, ossia un individuo che deve considerare le influenze che la tecnologia oggi impone come prossime allo sviluppo della produttività. I robot autonomi, le auto senza pilota, la riduzione della forza cantiere e l’aumento delle risorse che devono prendere decisioni. Il CIO non deve solo gestire la futuribilità delle scelte ma deve preparare l’organizzazione ad adottare modelli oggi impensabili, domani determinanti».
DA BUSINESS A “PEOPLE” ENABLER
Di sicuro, non è più così semplice definire cosa sia un CIO nel 2019. «Le sole competenze tecniche non sono più sufficienti, il ruolo del CIO sarà sempre più strategico» ci dice Carlo Bozzoli, global CIO di Enel. «Il cambiamento del ruolo del CIO è legato inevitabilmente al cambiamento dell’IT che non rappresenta più un semplice business enabler bensì un business driver. Rispetto al passato, il CIO non può più essere semplicemente uno specialista in tecnologie ma deve avere sensibilità di business e capacità di orchestrare ecosistemi interni ed esterni.
Certo, la tecnologia gioca un ruolo fondamentale: è un fattore abilitante per la costruzione di soluzioni digitali che consentono di cambiare paradigmi di processo ormai consolidati nel tempo, ma non è più sufficiente. I processi devono essere ripensati da zero in modo che eventuali vincoli attuali non costituiscano una limitazione nella ricerca della soluzione ottimale. Inoltre, per cogliere appieno le opportunità offerte dal digitale, è necessario affrontare un cambiamento di tipo culturale: è fondamentale diffondere una no blame culture per incentivare le persone di tutta l’organizzazione a sperimentare, sbagliare e migliorare tramite un processo iterativo e incrementale: se non stai sbagliando niente vuol dire che non stai innovando abbastanza».
Tre paradigmi su cui Ernesto Ciorra, chief innovability officer di Enel, fonda la sua attività quotidiana. «Molte aziende mettono la loro “innovation area” in un angolino, da parte. Vi sembra qualcosa di utile? A me no. Spesso è tutto uno specchietto per le allodole, un modo per dimostrare all’esterno che si fa qualcosa in innovazione ma in realtà non è così. Hanno un tesoro sotto la scrivania e nemmeno se ne accorgono. In Enel lavoriamo in maniera diametralmente opposta. Innovability è stata creata per generare valore con un processo scalabile che segue un piano strategico; Enel fa del cambiamento una linea precisa da rincorrere. Collaboriamo con gli startupper perché ritroviamo in molte idee quello che manca a noi, una scintilla utile a cambiare un settore, che riguardi o meno i servizi, da supportare e far crescere. Oggi, il vero digital divide è tra chi coglie le potenzialità di un progetto e chi invece se ne sta chiuso nel proprio stanzino, a fare due conti, per carità, importanti, ma dai quali non si esce se non si sperimenta dell’altro».
Molto sta cambiando, il business si evolve di continuo e va alla ricerca di nuovi mercati e nuove idee. E l’ICT? In questa semplice domanda risiede il fulcro dell’intervento di Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Istitute. «La sempre maggiore reattività̀ richiesta e le conoscenze diverse e raffinate nell’ICT aziendale, in paragone all’offerta che arriva dall’esterno, sono punti di attenzione presenti nelle agende di ogni CIO. Far convivere la produttività̀ e l’efficienza operativa con l’aggiornamento continuo sulle nuove frontiere della tecnologia e con le tempistiche indotte dal mercato è una sfida quotidiana per le direzioni. Come deve modificarsi l’organizzazione per poter far fronte agilmente a queste continue richieste? Assumendo una dovuta e corretta agilità. I CIO devono confrontarsi con il business, diventare “partner” e “driver” del business stesso, spesso senza seguire le direttive ma tracciandole».
CENTRALITÀ DELLA GOVERNANCE
Ritornando al CIO, la sua posizione in un’azienda è davvero consolidata? Probabilmente, non così come si pensa. Proliferando i ruoli nati dal digitale, la confusione è tanta e rischia di crescere senza tregua. «In un’azienda il CIO riveste un ruolo fondamentale. È il ponte fra la business unit e le aree di progresso; quindi importante è essere consapevoli del ruolo e delle funzioni che svolge» – sottolinea Gianluigi Castelli, presidente di Ferrovie dello Stato Italiane. «È necessario semplificare la comunicazione tra i diversi settori aziendali e individuare una linea di azione comune, soprattutto se non si è diretti riporti dell’amministratore delegato. Il lavoro condiviso consente ai grandi Gruppi industriali di ottimizzare i risultati con un importante effetto di amplificazione. FS Italiane in passato ha costituito società con un’organizzazione particolare che presidiava diversi ambiti. Questo ha permesso di diversificare i ruoli, ma ha disperso le energie. La nuova società FS Technology, raccoglie tutte le risorse IT del Gruppo con l’obiettivo di recuperare la centralità della governance. Le linee di business, prive di CIO dedicato, faranno riferimento a una figura unica, pur mantenendo l’indipendenza nei processi. FINAKI segue lo stesso principio che ho voluto portare in FS Italiane, di cui oggi sono presidente: per crescere e migliorare è necessario confrontarsi e condividere le esperienze. Inoltre, l’evento FINAKI ha seguito l’evoluzione dei trend nel mondo CIO, cambiando aspetto negli anni e dimostrando una versatilità unica nel favorire l’incontro tra le competenze».
LE TRE SFIDE DEI CIO
Del resto, lo sviluppo della società dell’informazione deve basarsi non solo sul genio individuale ma su una collaborazione efficace e persistente. «Questo perché la vita digitale, in quanto tale, amplifica i messaggi che veicola. Il compito di un CIO è quello di canalizzare meglio questi messaggi, dentro e fuori l’impresa, evitando i rischi che simili strumenti, potenti e pervasivi, portano con sé, se male interpretati. Sotto tale punto di vista, il CIO è anch’egli “cittadino digitale”, membro determinante e non determinato dell’evoluzione della comunicazione. Conosce il passato, le esigenze del presente e con un occhio al futuro interpreta i benefici che verranno, sfruttandone pienamente le capacità» – chiosa Alfonso Fuggetta, CEO & scientific director di Cefriel.
Emergono vari spunti dalla tre giorni di Finaki, dove il senso di appartenenza tra CIO è forte. Non a caso, Carlo Alberto Carnevale Maffè, economista e docente di strategia aziendale alla SDA Bocconi, parla della “Carica dei C101”, ossia di un nuovo modo di approcciare la situazione da parte del management, che deve fidarsi del chief information officer, polarizzando su di lui le decisioni, responsabilizzandolo. «Il digitale crea masse critiche, ed è più trasparente che mai. Vedo tre nuove sfide per i CIO oggi: una patrimoniale, una organizzativa e una istituzionale. La prima prevede che debbano occuparsi dei flussi di cassa, perché se il digitale ha prodotto qualcosa, questa è la “servitizzazione”, la trasformazione del prodotto in un servizio. A livello organizzativo, il digital sposta i confini del lavoro, sposando la logica del contratto finalizzato al risultato. Il CIO è pronto per una simile strategia che è quasi “as a service”? E poi istituzionale: la tecnologia produce istituzioni e beni pubblici, non solo processi e profitti privati. Un esempio è Libra, la moneta di Facebook. In tal senso, i CIO diventano CEO perché governare un’impresa significa sempre di più avere capacità multisettoriali che sono insite nella loro professione. Mai una crasi di ruoli si è avuta nella storia dell’IT come quella in corso attualmente».
Lo sa bene Alessandro Garofalo di Garofalo & Idee Associate e docente universitario, che spesso si ritrova a gestire flussi creativi verso i CIO delle compagnie clienti. «Il panorama digitale cambia il modo di trasmettere emozioni, ma anche beni e servizi concreti e i CIO devono esserne coscienti. Urge un cambio di paradigma: prendere del “vecchio” e installare qualcosa di “nuovo”. L’evoluzione è anche studiare come un prodotto esistente può virare su esigenze nuove. Certo, i CIO vivono un passaggio meno tangibile, che è quasi sempre immaginato, cercano di prevedere se una via è percorribile, con il minor rischio possibile. Non se ne accorgono nemmeno, ma hanno doti multisensoriali: si pongono tra i confini di vari settori, per cogliere i flussi di rinnovamento da aree periferiche».