Per una testata come Data Manager, impegnata da oltre quarant’anni a raccontare l’innovazione tecnologica e le sue profonde ricadute in termini di crescita economica, competitività delle imprese, qualità della vita, il verdetto pronunciato dall’OCSE appare bruciante.
Nel suo annuale rapporto sulle competenze professionali, parte della campagna “I am the future of work”, l’organismo che misura il polso dell’economia del Pianeta scrive che lo Skills Outlook Scoreboard valuta in che misura una nazione è in grado di sfruttare al meglio la digitalizzazione. “I risultati dell’Italia – si legge nel riassunto in lingua italiana allegato al report – sono misurati su tre dimensioni principali: competenze per la digitalizzazione, esposizione digitale e le politiche relative alle competenze. Lo Scoreboard mostra che la popolazione italiana non possiede le competenze di base necessarie per prosperare in un mondo digitale sia in società che sul posto di lavoro”.
Che cosa intende l’OCSE, perché è così grave lo scollamento misurato in Italia e in diverse altre nazioni a industrializzazione avanzata? «Nel nostro mondo in rapida e costante digitalizzazione – ha detto il segretario dell’OCSE Angel Gurría presentando il nuovo studio a Parigi – le competenze fanno la differenza tra chi riesce a cavalcare questa onda e chi resta indietro. «Per aiutare i loro concittadini, governi e amministrazioni devono trovare il giusto punto di equilibrio tra politiche a sostegno della flessibilità, della mobilità della forza lavoro e della stabilità dell’occupazione. Le imprese stesse svolgono un ruolo chiave nell’assicurare che i loro dipendenti acquisiscano maggiori competenze in campi nuovi e diversi, adattandosi ai mutamenti di domanda che caratterizzano il mercato del lavoro. Potenziando i sistemi di sviluppo di competenze possiamo far sì che la rivoluzione tecnologica possa migliorare le vite di tutti». In Italia, solo il 21% degli individui in età compresa tra i 16 e i 65 anni possiede un buon livello di alfabetizzazione e capacità di calcolo (cioè ottengono almeno un punteggio di livello 3 nei test di alfabetizzazione e calcolo PIAAC).
Si tratta del terzo peggior risultato tra i 29 paesi considerati nello studio. Mentre in molti paesi OCSE gli insegnanti utilizzano le ICT con pari intensità rispetto ad altri lavoratori con istruzione terziaria, gli insegnanti italiani rimangono indietro e utilizzano le nuove tecnologie ben al di sotto di altri lavoratori altamente qualificati. Tre insegnanti su quattro lamentano la propria carenza di formazione. Si registra inoltre un totale paradosso nella realtà aziendale, dove la partecipazione dei lavoratori in percorsi di formazione continua è bassa rispetto agli standard internazionali: proprio i lavoratori più esposti al rischio di automazione e i lavoratori poco qualificati partecipano meno ad attività di formazione se confrontati con i loro colleghi altamente qualificati o con un basso rischio di automazione.
Lamentiamo da anni i nostri ritardi a livello di burocrazia digitale e informatica civica. Il sospetto che questi ritardi siano di natura ancora più profonda rispetto all’assenza di politiche trasformative coerenti e continuative e che l’innovazione sia una materia che abbiamo studiato poco o svogliatamente, trova ormai riscontri molto oggettivi. I risultati di eccellenza, le scuole, le aziende innovative, i bravi professionisti non mancano, ma appunto non riescono a tradursi in sistema, mentre il sapere scientifico e tecnico addirittura perde la sua credibilità. È diventata una emergenza vera, concreta e le giovani forze che ci governano farebbero bene a ricordare la lezione che loro stessi dovrebbero aver tratto dalla forza che può avere la Rete.