Le neuroscienze offrono, oggi, un nuovo modo di comprendere come le persone affrontano il lavoro, si relazionano con colleghi e superiori e vivono le situazioni conflittuali. Con le innovative tecniche di neurometrica, per esempio, è possibile osservare come reagiscono i nostri cervelli nelle interazioni ovvero il tipo di processo cerebrale attivato, la reattività cognitiva e la “salienza emotiva” del processo oltre alla reattività fisiologica ed emotiva (biofeedback).
Questo approccio di tipo neuroscientifico può portare a importanti implicazioni pratiche sulla gestione della leadership e sulla comprensione degli stili comunicativi che caratterizzano lo scambio tra le diverse figure che compongono l’organizzazione, come ci racconta Maria Emanuela Salati, direttore formazione e welfare dell’Azienda Trasporti Milanesi – ATM, con un lavoro pionieristico, svolto in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano.
OBIETTIVO DEL PROGETTO
Il progetto intendeva verificare sperimentalmente, grazie alle neuroscienze, cosa avviene nel cervello del capo e del collaboratore quando dialogano tra loro in occasione della valutazione annuale delle prestazioni e comprendere come i “due cervelli” imparino a sintonizzarsi (hyperscanning) e quali ripercussioni possa avere tale processo di sintonizzazione sulla vita aziendale, con l’obiettivo di individuare stili di leadership più funzionali. «Le prospettive di questo genere di approccio sono a dir poco affascinanti: verificare quando, come e perché è possibile creare un rapporto di lavoro basato su una relazione costruttiva».
PREMESSA
Il nostro comportamento è il frutto della confluenza di diversi sistemi sia espliciti (coscienti e mediati dal punto di vista cognitivo) che impliciti (soprattutto inconsapevoli e mediati dalle emozioni). Le neuroscienze, attraverso l’utilizzo di misure fisiologiche, hanno individuato alcuni biomarcatori centrali e periferici, ossia relativi rispettivamente all’attività cerebrale e all’attivazione corporea, che sono collegabili a risposte non sempre controllabili in maniera cosciente dalle persone. Le neuroscienze sono in grado quindi di entrare dentro la “black box” del cervello mettendo in luce alcuni aspetti nascosti e inconsapevoli del comportamento individuale consentendo di esplorare alcuni importanti processi relativi alle dinamiche relazionali.
REALIZZAZIONE
«Il progetto – continua Maria Emanuela Salati – si è sviluppato con un campione significativo di manager di tre contesti organizzativi diversi che da molti anni utilizzano il sistema di valutazione delle prestazioni, messo a disposizione dalla direzione risorse umane dell’azienda (scheda di valutazione online con rating). Lo studio ha considerato due tipi di stili personali adottati nella gestione delle dinamiche interpersonali: «Uno stile partecipativo e un approccio più tradizionalmente orientato alla comunicazione unidirezionale-direttiva. Un primo livello di analisi del lavoro ha riguardato una mappatura semantico-conversazionale del contenuto dei colloqui al fine di individuare i topic comunicativi. Con un secondo livello di analisi sono stati identificati i biomarcatori neuro e psicofisiologici, registrando simultaneamente l’attività cerebrale di due persone (capo e collaboratore) in interazione tra loro e misurando le risposte fisiologiche in tempo reale: sono stati utilizzati strumenti neuroscientifici come l’elettroencefalogramma (EEG) per la rilevazione dell’attività cerebrale e il biofeedback per misurare i livelli di attivazione corporea periferica (frequenza cardiaca e conduttanza cutanea), in sostanza la tecnica di “hyperscanning” che registra l’attività sincrona di due cervelli l’uno in comunicazione con l’altro».
ALCUNI OUTPUT
Si è innanzitutto verificato il livello di engagement – spiega Maria Emanuela Salati. «Una maggiore attivazione emotiva è stata notata a carico del collaboratore. Inoltre, sono state notate differenze in conseguenza dello stile del manager e dalla presenza o meno del rating di valutazione (per esempio il collaboratore di fronte a un manager più partecipativo mostrava maggior coinvolgimento quando il manager si metteva in gioco in prima persona parlando di cambiamento). I due cervelli si attivano su item diversi ma l’attivazione è maggiore quando si parla di un cambiamento o una progettualità condivisa. Lo stile di leadership più efficace e coinvolgente è quello partecipativo per tutti i topic. L’assenza di rating ha un impatto notevole sul collaboratore, generando più consapevolezza, mentre in presenza di rating formale vi è assenza di brain-to-brain coupling».
IMPATTI TRASFORMATIVI
In sintesi le neuroscienze ci possono aiutare a sviluppare maggiore consapevolezza rispetto ad alcune capacità: «La capacità di riconoscere le emozioni proprie e altrui (empatia); la capacità di sintonizzarsi con l’interlocutore; la comprensione delle dimensioni fisiologiche del cambiamento; un processo decisionale più consapevole. Quando cooperiamo o ci prodighiamo per il successo altrui, siamo premiati con sensazioni di sicurezza e appartenenza, l’ansia si attenua, cresce la disponibilità a servire e a fidarsi degli altri. È il risultato della produzione di serotonina e ossitocina. Il cervello è più aperto al cambiamento e alla novità. Quando invece questi catalizzatori di socialità sono inibiti, diventiamo più egoisti e aggressivi, la leadership vacilla, l’ansia impazza insieme alla paranoia e al sospetto (a causa del cortisolo, ormone dello stress), non c’è cooperazione ma conflitto. I manager coinvolti nella sperimentazione hanno acquisito una fortissima consapevolezza dell’importanza di una buona relazione con i collaboratori: stile partecipativo, ascolto, focalizzazione sui comportamenti e sui risultati più che sul rating della scheda. Tenendo conto degli esiti di questo progetto si sono modificate la scheda di valutazione 2019 e le attività di formazione».
UNA LEADERSHIP RICONOSCENTE
«Per migliorare il processo di valutazione – conclude Maria Emanuela Salati – potrebbe quindi essere opportuno: eliminare il rating finale; incentivare uno stile di gestione del colloquio partecipativo (attenzione non all’esito ma alla relazione); incentrare la conversazione sui progetti futuri nei quali c’è un coinvolgimento reciproco e un senso comune (“dare uno scopo”); aumentare le conversazioni nel corso dell’anno; co-responsabilizzare entrambi gli attori del processo instaurando la cultura del “chiedere feedback” che promuove anche una collaborazione maggiore tra colleghi; scollegare la valutazione delle prestazioni dalla parte economica». Non solo. Lo studio dimostra come le neuroscienze ci possono aiutare a sviluppare una leadership più adulta, più consapevole, meno difesa e vittima dei bias cognitivi, una leadership “riconoscente” e capace di “sintonizzarsi”. «Un manager dotato di competenze emotive (per esempio la regolazione degli affetti), cognitive (come la capacità di cambiare prospettiva) e comportamentali (abilità conversazionali e prosociali) e di empatia (cioè la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”) è in grado di stimolare e ispirare i collaboratori in un rapporto di confronto e cooperazione propositiva che porta a prestazioni più elevate, oltre che a una qualità delle relazioni e degli ambienti lavorativi migliore».
Sonia Rausa – AIDP
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